“Il
momento più duro è stata la lettura, uno ad uno, dei 39
nomi dei morti”. Ha gli occhi rossi, iniettati di dolore e sgomento,
all’uscita dal primo giorno di udienza. Fissa i cronisti in modo
diretto, sconcertante, e nello stesso tempo cammina come ricurvo su
se stesso, schiacciato da un’accusa che porta come un macigno su
quel corpo trasformato dagli anni, appesantito e palesemente stanco.
Se avessi incontrato Gilbert Degrave per strada, senza sapere che fosse
lui, non lo avrei riconosciuto.
Il
24 marzo del ’99, lo aveva intervistato per il Tg della Valle d’Aosta
il collega Giuliano Curti. Lo aveva individuato fuori dal Tunnel, versante
italiano, mentre dentro scoppiava l’inferno. Quelle immagini avevano
fatto il giro d’Europa. Adesso, Degrave porta gli occhiali, ha
i capelli più grigi, qualche chilo di troppo. E’ “parvenu”
(imputato ndr) per omicidio colposo, per aver lasciato il Tir in fiamme
in mezzo al Traforo, nella normale corsia di marcia, anziché
parcheggiarlo in un’area di sosta. Per la procura francese, questa
scelta ha fatto si che le auto ed i camion che viaggiavano dietro di
lui non potessero uscire. Bloccati, in una nube di fumo dalla temperatura
che in pochi minuti ha raggiunto i cinquecento gradi. Con 39 persone
soffocate dai cianuri.
Si difende, Degrave. Dice che non aveva scelta, che in quell’emergenza
parcheggiare in una piazzola di sosta era impresa impossibile. I suoi
ricordi scorrono a volte precisi, altre confuse, in quell’aula
gigantesca, in cui, se possibile, l’autista belga sembra ancora
più piccolo. E’ difeso da una donna, bionda e minuta, che
si chiama Corinne Perini.
Sembra temere i cronisti, ma quando si accorge che qualcuno ha notato
il malessere di quest’uomo, che da sei anni non chiude occhio,
diventa dolcissima. Racconta di come Degrave, da quel giorno, sia invalido
al 40 per cento. Perché nel Traforo c’è stata una
forte esplosione, e fiamme fino alla volta, e un fumo che non permetteva
nemmeno di vedere il rimorchio del camion.
E di una vita distrutta, con il datore di lavoro, nonché proprietario
del Tir, sparito da allora in un paradiso tropicale, da cui probabilmente
non tornerà mai più. Il racconto di Gilbert Degrave di
quel terribile 24 marzo parte da Le Fayet, area di sosta in cui ha fumato
la sua ultima sigaretta mentre i gendarmi controllavano il Tir. E va
su, verso il Traforo, sulla rampa, dove dice di aver sorpassato un’autocisterna:
“Il camion andava bene”. E poi dentro, nel tunnel.
E’ più o meno a metà quando racconta di aver incrociato
tre Tir, uno dopo l’altro, che gli lampeggiavano con i fari. E
che è per questo che ha guardato dallo specchietto retrovisore
destro ed ha visto del fumo. “Pensavo fosse il motore del frigo:
sul cruscotto non c’era nessuna spia accesa, non c’erano rumori
sospetti e non avevo notato nessun calo di potenza” dice. E poi
“Volevo portare fuori il Tir, sul versante italiano, ma non ce
l’ho fatta”. Una volta fermato, ha visto che il fumo era ancora
più intenso. Poi l’esplosione e la fuga, correndo prima
e sull’auto di un addetto alla sicurezza poi, verso l’uscita.
Questa, almeno, la sua verità. In parte contestata dai giudici.
Gilbert Degrave è stato, tuttavia, “assolto” almeno
in parte dai parenti delle vittime.
Dicono che sì, forse qualche sbaglio lo ha anche commesso e che
sì, forse alcune sue versioni sono contraddittorie. “Ma
non è sua la responsabilità di queste 39 morti –
dice Xavier Chantelot (legale e parente di una vittima) – Non è
lui che deve portare il peso di queste vite spezzate”, lasciando
intendere, in modo nemmeno troppo velato, che c’è stato
un insieme di fattori concomitanti, alcuni consapevoli, altri no, a
rendere il rogo una vera e propria catastrofe.