(BONNEVILLE)
Un processo mediatico, ma soltanto per la Francia. Perché in
Italia quel rogo in cui morirono 39 persone, il 24 marzo del 1999, nel
cuore della vetta più alta d’Europa, sta passando inosservato.
Sembra destino. Il giorno della tragedia, cominciavano i bombardamenti
in Kosovo. Il giorno in cui è cominciato il processo, il 31 gennaio,
l’attenzione dei media è stata catapultata su un altro caso
giudiziario: quello di Michael Jackson. Poi c’è stato il
rapimento di Giuliana Sgrena, poi la salute del Papa. Insomma: di quelle
39 morti si parla, per una ragione o per l’altra, sempre troppo
poco. Sei anni ci ha messo la procura di Bonneville tra indagini e preparazione
di un processo che non sta tralasciando nemmeno il più piccolo
dettaglio.
Quattro milioni di euro: a tanto ammonta l’investimento del Ministero
della Giustizia francese per arrivare alla verità. Denaro speso
in perizie, indagini, consulenze, e per allestire l’Agorà
di Bonneville, auditorium dotato di maxischermi, traduzioni in contemporanea,
sale stampa, tutto ciò che serve, insomma, per consentire ai
sedici imputati (dodici persone fisiche e quattro giuridiche), alle
duecento parti civili, ai 190 testimoni e alle 90 testate giornalistiche
europee accreditate di non perdere nemmeno una battuta di quanto viene
discusso nella ricerca di eventuali responsabilità. Un processo
innanzitutto tecnico, durante il quale si sta analizzando la struttura
Traforo, così com’era all’epoca del rogo, ma anche
l’apparato sicurezza, nonché ogni pezzo di quel Tir Volvo,
carico di farina e margarina, da cui partì l’incendio.
Il clima che si respira all’Agorà è, per chi è
abituato ai processi italiani, senza precedenti. Il processo è
cominciato il 31 gennaio e sta seguendo giorno per giorno, il calendario
delle testimonianze da ascoltare, suddivise per argomenti. La conclusione
è prevista per il 29 aprile, poi i giudici si prenderanno il
loro tempo per tirare le somme, e condannare od assolvere gli imputati.
Di come stanno procedendo i lavori sono soddisfatti i parenti delle
vittime, che già da anni si sono costituiti in associazione,
assistita in aula da legali italiani e francesi. “Omicide involontarie”
è l’accusa per gli imputati. Equivale al nostro “omicidio
colposo”, che prevede condanne non particolarmente severe, nonostante
la recente riforma che porta la pena minima a due anni di reclusione.
In ballo, però, ci sono interessi fortissimi. Non soltanto il
risarcimento danni alle parti civili, ma anche tutti quei milioni di
euro persi con i tre anni di chiusura del traforo, e gli altri soldi
spesi per ristrutturarlo e renderlo più sicuro. Centinaia di
milioni. Per questo ogni imputato cerca, in qualche modo, di scaricare
la responsabilità su altri. Si è parlato di un guasto
del camion, ma la società che lo produce nega e parla di una
fuga accidentale di olio, oltre alla presunta mancanza di liquido di
raffreddamento. Punta, così, il dito contro l’autista, che
si giustifica dicendo che aveva fatto tutti i controlli e che il camion
era a posto: mai spie accese, mai cali di potenza, mai nessun rumore
sospetto.
Si è parlato di piazzole di sicurezza troppo strette per parcheggiare
il Tir in panne, ma le società di gestione hanno filmato un Tir
Volvo che vi entrava con una sola manovra. Si è discusso di norme
inesistenti, di presa di coscienza postuma di quanto ve ne fosse bisogno,
e persino di mozziconi di sigaretta, probabile, ma non dimostrato, fattore
scatenante del rogo. Sul banco degli imputati, Gilbert Degrave, il belga
che guidava il Tir, la Volvo, le società di gestione italiana
e francese del Tunnel, addetti alla sicurezza, funzionari, e persino
il sindaco di Chamonix, Michel Chalet. L’imputazione, per lui,
è un paradosso.
Da anni, ben prima del rogo nel tunnel, si batte con gli ambientalisti
contro il trasporto su gomma attraverso le Alpi. Una lotta nota a tutti
nella Vallée de l’Arve, ma non sufficiente ad evitargli
l’imputazione perché non avrebbe fatto abbastanza per la
prevenzione degli incendi nel traforo. Il giorno dell’avvio del
processo, fuori dall’Agorà c’erano le tute bianche
a sostenere Chalet, e, con loro, tutti i sindaci della Valle francese
in cui transitano i camion da e per l’Italia attraverso il Traforo
del Monte Bianco. Grande assente al processo, il Ministro per le Infrastrutture
e Trasporti Pietro Lunardi.
Fu lui, insieme al prefetto Leonardo Corbo, a stilare una prima analisi
sull’accaduto, in quanto esperto in gallerie. La sua inchiesta
è agli atti, e il suo nome figura nell’elenco dei testimoni
della difesa della gestione italiana del tunnel. Ma, al momento, il
tribunale di Bonneville non ha ancora citato l’esperto, diventato
nel frattempo ministro. Gran sostenitore del raddoppio, Lunardi ha sempre
ritenuto che “ristrutturare il traforo sarebbe stato come mettere
il trucco a una nonnina di 80 anni”.