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Corte di Cassazione 15/09/2015

Auto di servizio per scopi personali: pubblico ufficiale risponde di peculato d'uso
da Altalex

(Cass. Pen., sez. IV, 03 aprile 2015, n. 14040)

La sentenza in commento qualifica come peculato d’uso la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio,  il quale  utilizzi a scopo personale l’auto di servizio.

In materia di utilizzo, per fini privati, di autovetture da parte di chi ne ha la disponibilità per ragioni d’ufficio si sono registrati indirizzi interpretativi contrastanti.

Un primo orientamento[1] ravvisa nell’uso reiterato del mezzo da parte del soggetto qualificato un’ipotesi ordinaria di peculato (art. 314 c. 1 c.p.).

Il secondo e prevalente indirizzo giurisprudenziale ritiene, invece, che l’impiego dell’auto aziendale per fini privati rientri nel peculato d’uso (art. 314 c. 2 c.p.)[2]. Sul punto, la Corte richiama il proprio orientamento in tema di indebito utilizzo del telefono d'ufficio[3]. Ciò che rileva è che l’uso della res non integri mai un'appropriazione, ma si esaurisca nel «distogliere temporaneamente la cosa dalla sua originaria destinazione, per piegarla a scopi personali».

Il peculato d’uso (art. 314 c. 2 c.p.) rappresenta un’ipotesi di reato punita meno gravemente rispetto al peculato tout court, avente natura autonoma e non già circostanziale. È stato introdotto con la riforma del 1990[4], anteriormente ad essa, le condotte di peculato d'uso venivano ricomprese nel concetto di “distrazione”, escludendo la punibilità dell'agente ogni qual volta la sua azione non integrasse una condotta distrattiva[5].

Il peculato d’uso rappresenta il pendant del furto d’uso nei reati contro la pubblica amministrazione (art. 626, n. 1 c.p.). In ambedue i delitti, la condotta deve avere ad oggetto un uso momentaneo e non sistematico del bene, inoltre l’azione deve svolgersi in un arco di tempo ristretto. Si parla, infatti, di mera utilizzazione e non già di appropriazione[6]. In particolare, affinché sia ravvisato il furto d’uso è necessario che alla semplice intenzione di restituire il bene faccia seguito un’effettiva restituzione dello stesso. Sul punto è intervenuta con la pronuncia n. 1085/1988 la Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato l’art. 626, n. 1 costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non estende la disciplina (più mite) del furto d’uso ai casi in cui la mancata restituzione del bene dipenda da causa non imputabile al reo (caso fortuito o forza maggiore). Il reato, infatti, nasce come furto d’uso e non si qualifica tale solo in seguito alla restituzione del bene. Il legislatore del 1990, nell’introdurre il 314 c. 2 c.p., non ha tenuto conto della citata sentenza e non ha allineato la disciplina del peculato d’uso a quella del furto. Pertanto, a meno che non se ne faccia un’interpretazione costituzionalmente orientata, in caso di mancata restituzione del bene, anche per causa non imputabile al reo, si avrà peculato tout court.

Tornando al caso di specie, al soggetto agente veniva contestato di  avere sfruttato il suo ruolo all'interno dell’azienda di trasporti, facendosi rimborsare spese mai sostenute ed utilizzando per fini strettamente personali un'autovettura di servizio ed il relativo telepass, ad essa collegato. In particolare, il telepass aziendale, era stato separato dal veicolo a cui accedeva ed installato sull’auto privata del reo, il quale traeva vantaggio dal mancato pagamento degli oneri autostradali che rimanevano a carico dell'azienda.

La Suprema Corte, nel suo percorso argomentativo, ricorda come la ratio della figura delittuosa del peculato d’uso sia da rinvernirsi nel tentativo di «arginare eventuali arbitrii interpretativi, temperando il trattamento sanzionatorio in relazione alle ipotesi di minor disvalore del fatto». Alla norma deve darsi una lettura costituzionalmente orientata, avendo riguardo all’effettiva offensività della condotta[7]. Deve, pertanto, ravvisarsi peculato d’uso solo allorché l'impiego della cosa ne abbia compromesso in modo apprezzabile l'utilizzazione da parte del proprietario ed escluderlo quando l'agente restituisca immediatamente il bene senza provocare un significativo danno patrimoniale. I giudici di Piazza Cavour, nella sentenza in commento, sottolineano come l’uso momentaneo richiesto nella condotta non significhi “istantaneo”, al contrario faccia riferimento ad un’utilizzazione temporanea, vale a dire ad un arco di tempo limitato, che determina una sottrazione della cosa alla sua destinazione tale da non compromettere il funzionamento della pubblica amministrazione[8].

La Corte di Cassazione, dopo aver precisato che il consumo dell’olio e del carburante non rilevano autonomamente ma partecipano a determinare l’entità del danno, così conclude: «è evidente che l'utilizzo per fini personali da parte del pubblico agente di un'autovettura nella sua disponibilità, o comunque assegnatagli per le esigenze dell'ufficio, vi diviene pienamente sussumibile [nel peculato d’uso], pur a fronte di ripetuti episodi di indebito utilizzo temporaneo. Con tale condotta, infatti, il soggetto distoglie il bene fisico, di cui è in possesso per ragioni d'ufficio, dalla sua destinazione pubblicistica, piegandolo a fini personali per tutto il tempo del relativo uso, per poi restituirlo, alla cessazione di questo, alla destinazione originaria.» La Corte precisa, infine, che in presenza dei prefati requisiti, la reiterazione delle condotte integra una pluralità di reati di peculato d’uso legati dal vincolo della continuazione e non comporta il mutamento della qualificazione giuridica del fatto in peculato ordinario.

Nota di Marcella Ferrari

 

Note

[1] La Suprema Corte, nella sentenza in commento, rinvia alle seguenti pronunce: Cass., Sez. 6, 15 marzo 2012, depositata il 30 maggio 2012, n. 20922, non massimata; Cass., Sez. 6, 12 ottobre 2010, depositata il 9 novembre 2010, n. 39347, non massimata; Cass., Sez. 6, n. 11430 del 04/02/2005, depositata il 22 marzo 2005.

[2] In adesione a tale filone giurisprudenziale si segnala la sentenza della Corte di Cassazione, 19 giugno 2013 n. 26616: nel caso di specie, si era ravvisato il peculato d’uso nella condotta dell’agente di polizia che aveva utilizzato l’auto per consumare un rapporto sessuale con una prostituta. Infatti, nonostante il modesto danno economico patito dall’amministrazione, la condotta posta in essere ha integrato l’ipotesi del 314 c. 2 c.p. per il pregiudizio arrecato alla funzionalità del servizio.

[3] Corte di Cassazione, Sez. Un., sentenza 2 maggio 2013 n. 19054:  l’uso dell’apparecchio telefonico per scopi personali rientra nel peculato d’uso giacché le energie o gli impulsi elettronici necessari per le conversazioni non sono suscettibili di appropriazione, in quanto non costituiscono oggetto della previa disponibilità della parte. Nello stesso filone si inseriscono le pronunce afferenti all’abusivo utilizzo della connessione Internet (ex multis Corte di Cassazione, 8 agosto 2013, n. 34524).

[4]
L. n. 86 del 1990 recante “Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”.

[5] La Corte, nella disamina sul delitto in oggetto, precisa che «la giurisprudenza era orientata a considerare non punibile il peculato d'uso qualora esso avesse avuto ad oggetto cose infungibili o di specie, e l'uso fosse consistito in uno sfruttamento momentaneo, “materiale” ed eccezionale della cosa; se ne affermava, invece, la punibilità in presenza di un uso “giuridico” della cosa, configurabile tutte le volte in cui il bene - ancorché temporaneamente - fosse stato volto ad una diversa destinazione, incompatibile con quella originaria».

[6] Si ha, infatti, appropriazione solo con la definitiva soppressione della destinazione originaria della cosa.

[7] La condotta deve cagionare un apprezzabile danno al patrimonio della Pubblica Amministrazione  o  ledere la funzionalità dell'ufficio. Lo stesso principio è contenuto nella sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Un., 20 dicembre 2012, n. 19054 in materia di uso del telefono della PA, in cui la Suprema Corte precisa che: «per il raggiungimento della soglia della rilevanza penale è comunque necessaria l'offensività del fatto che, nel caso di peculato d'uso, si realizza con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della p.a. o di terzi ovvero con una concreta lesione della funzionalità dell'ufficio. […]L'uso del telefono d'ufficio per fini personali, economicamente e funzionalmente non significativo, deve considerarsi, quindi penalmente irrilevante»

[8]
La Suprema Corte, nella sentenza in commento, rinvia alle seguenti pronunce: Cass., Sez. 6, n. 4651 del 10 marzo 1997, depositata il 16 maggio 1997; Cass., Sez. 6, n. 9216 del 01 febbraio 2005, depositata il 09 marzo 2005.

 

Suprema Corte di Cassazione

Sezione VI Penale

Sentenza 29 gennaio - 3 aprile 2015, n. 14040

 
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CITTERIO Carlo - Presidente -

Dott. MOGINI Stefano - Consigliere -

Dott. FIDELBO Giorgio - Consigliere -

Dott. DE AMICIS G. - rel. Consigliere -

Dott. PATERNO' RADDUSA Benedett - Consigliere -
 

ha pronunciato la seguente:
 
sentenza


sul ricorso proposto da:

S.G. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 1026/2012 CORTE APPELLO di VENEZIA, del 29/11/2012;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 29/01/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GAETANO DE AMICIS;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Vincenzo Geraci, che ha concluso per l'annullamento con rinvio per il capo (C) e rigetto nel resto;

Udito il difensore Avv. Paolo Pellicini, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
 

Svolgimento del processo


1. Con sentenza del 29 novembre 2012 la Corte d'appello di Venezia, all'esito di giudizio svoltosi nelle forme del rito abbreviato, e in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Verona in data 20 ottobre 2011, ha dichiarato S.G., quale presidente del consiglio di amministrazione dell'azienda trasporti Verona s.r.l. (ATV), colpevole dei reati di peculato continuato e truffa aggravata di cui ai capi sub A), B), C), E) ed F), e lo ha condannato, ritenuto il vincolo della continuazione, alla pena di anni due e mesi dieci di reclusione, oltre alla pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per la medesima durata, assolvendolo da alcuni degli episodi racchiusi nelle contestazioni dei reati di cui ai capi sub A) ed F) e confermando nel resto l'impugnata pronuncia.

1.1. Sulla base delle correlative acquisizioni probatorie, e in particolare attraverso gli esiti dei controlli effettuati con alcuni servizi di osservazione disposti nel corso delle attività d'indagine, i Giudici di merito hanno ricostruito i fatti oggetto dei vari temi d'accusa, ritenendo l'imputato responsabile dei reati in rubrica ascrittigli, per avere sfruttato il suo ruolo all'interno della predetta azienda di trasporti, facendosi rimborsare spese mai sostenute ed utilizzando per fini strettamente personali un'autovettura di servizio ed il relativo telepass, ad essa collegato, le cui spese venivano sostenute dall'ATV. Essi, in particolare, hanno posto in rilievo come l'imputato avesse avuto a disposizione il veicolo Fiat Punto dell'azienda, che era stato in via continuativa utilizzato, nel periodo ricompreso fra il dicembre 2009 e l'agosto 2010, in sostituzione della sua autovettura personale, anche per scopi diversi da quelli legati all'attività presidenziale e al servizio svolto per conto della predetta azienda.

Il telepass collegato alla su indicata autovettura, inoltre, era stato più volte utilizzato in occasione di spostamenti autostradali effettuati per motivi strettamente personali, apponendolo su un'autovettura diversa da quella aziendale.

Dalle relazioni redatte dal personale della P.G. e dalla relativa documentazione fotografica di corredo emergeva, inoltre, non solo la circostanza che la predetta autovettura era stata dall'imputato utilizzata per esigenze strettamente personali (anche in ore serali ed in giorni festivi), ovvero per recarsi dalla propria abitazione alla sede del Municipio di (OMISSIS) - del quale era Sindaco e dove il veicolo veniva parcheggiato durante l'espletamento dei suoi impegni - ma anche il fatto che un'altra autovettura (Audi A6), pur essa di proprietà aziendale ma nella sua disponibilità per ragioni di servizio, era stata più volte impropriamente utilizzata per accompagnare in diversi luoghi la figlia e la moglie dell'imputato.

Sulla base delle risultanze offerte dalle attività d'indagine, infine, i Giudici di merito hanno evidenziato come l'imputato, per un verso, avesse falsamente attestato la sua presenza in occasione di impegni istituzionali da adempiere fuori della provincia, ove invece non si era recato, e, per altro verso, avesse falsamente autocertificato l'utilizzo dell'autovettura personale per adempiere ad impegni istituzionali, mentre aveva utilizzato le autovetture di servizio ed il relativo telepass aziendale, in tal guisa inducendo in errore l'ATV, che aveva provveduto alla erogazione di rimborsi spese e gettoni di presenza in realtà non dovuti.

2. Avverso la su indicata sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, che ha dedotto undici motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.

2.1. Violazioni di legge processuale e vizi motivazionali, per illogicità e contraddittorietà, con riferimento all'art. 178 c.p.p., lett. b) e c), attesa la nullità della sentenza quale nullità derivata del decreto che ha disposto il giudizio immediato, la cui celebrazione non poteva avvenire poichè le relative indagini si erano svolte per quattro mesi (dal 22 aprile 2010 al 23 agosto 2010), dunque ben oltre il termine di novanta giorni imposto dall'art. 454 c.p.p., senza che il nominativo dell'indagato venisse iscritto nel registro delle notizie di reato. Avvenuta l'iscrizione, in data 24 agosto 2010, le indagini proseguirono per circa un mese, allorquando il P.M. richiese il giudizio immediato poi disposto dal G.i.p..

Mediante la tardiva iscrizione nel registro degli indagati, dunque, il P.M. ha eluso il termine tassativo di novanta giorni previsto dalla su citata disposizione normativa per il compimento delle indagini preliminari, quale requisito imprescindibile per poter formulare la richiesta di giudizio immediato.

L'iscrizione, in particolare, sarebbe dovuta avvenire il 22 aprile 2010, mentre la P.G. ha continuato a svolgere pedinamenti, fotografie ed indagini per altri quattro mesi, senza che il S. venisse iscritto nell'apposito registro, come risulta dall'informativa di reato del 23 agosto 2010, con la palese compromissione dei diritti di difesa dell'indagato, ingiustamente privato dell'udienza preliminare.

La Corte di merito, peraltro, ha erroneamente disatteso l'eccepita questione di illegittimità costituzionale - per la violazione dell'art. 3 Cost., comma 1, art. 24 Cost., art. 111 Cost., commi 2 e 3, - del combinato disposto degli artt. 454, 347 e 335 c.p.p., nella parte in cui tali norme non prevedono che il termine di novanta giorni per il compimento delle indagini decorre dal momento in cui dalle stesse indagini risulta il nominativo del soggetto indagato, anche quando tale momento sia antecedente all'iscrizione nel registro ex art. 335 c.p.p., da parte del P.M.. Si determina, infatti, una ingiustificata disparità di trattamento fra il soggetto la cui iscrizione segua immediatamente all'assunzione della qualità di indagato ed il soggetto che, pur identificato ed indagato, venga invece iscritto, a discrezione della P.G. e del P.M., solo in un momento successivo, subendo in tal modo un'indebita compromissione del suo diritto di difesa, per essere privato dell'udienza preliminare e dei diritti in quella sede esercitabili.

2.2. Violazioni di legge e vizi motivazionali, per contraddittorietà e travisamento delle prove, in relazione al reato di cui all'art. 314 c.p., non avendo la Corte d'appello considerato: a) che l'azienda trasporti Verona è un'azienda privata le cui autovetture di proprietà non costituiscono certo dei beni pubblici, ma fanno parte del suo patrimonio privato; b) che non esisteva alcuna prassi volta ad assegnare le autovetture ai propri dipendenti mediante provvedimenti formali. La volontà dell'azienda, inoltre, era di considerare inerente alle ragioni di servizio il percorso casa-lavoro per i dipendenti residenti fuori del Comune di Verona, tanto che il direttore generale Z. aveva affermato non solo che il S., negli anni 2008-2009, aveva ricevuto il rimborso chilometrico per l'utilizzo della sua autovettura personale sul tragitto casa-lavoro, e che tale rimborso era stato previsto dall'azienda per tutti gli amministratori residenti fuori del Comune di (OMISSIS), ma anche che, in ragione dell'assegnazione della autovettura Fiat "Punto" per il tragitto casa-lavoro, avvenuta tramite un'autorizzazione orale dello stesso direttore generale, il rimborso ricevuto per gli anni precedenti non era stato più erogato al S. nell'anno 2010.

La Corte di merito, dunque, ha erroneamente ritenuto la sussistenza della condotta di appropriazione, travisando le circostanze relative al fatto che la vettura gli era stata consegnata dagli organi preposti della società, e che di tale consegna era a conoscenza il direttore generale, il quale l'aveva avallata riconoscendo il diritto del presidente all'utilizzo dell'autovettura per il percorso casa- lavoro, in sostituzione del rimborso spese per l'utilizzo della propria autovettura sul medesimo tragitto.

La Corte d'appello, inoltre, ha erroneamente ritenuto che l'assegnazione dell'autovettura al S. per il su indicato tragitto avrebbe comportato costi maggiori per l'azienda rispetto al solo rimborso del tragitto con la propria vettura - avvenuto negli anni precedenti - e che i contestati tragitti dall'abitazione al Comune di (OMISSIS) e da quest'ultimo a Piazza (OMISSIS), compiuti in successione, costituissero un autonomo percorso rispetto al tragitto casa-lavoro (ossia (OMISSIS)), e non, invece, una legittima realizzazione quotidiana dello stesso (tali soste, infatti, non allungavano il relativo percorso, ma si trovavano sul medesimo tragitto, e l'azienda era al corrente degli altri impieghi svolti dall'imputato, che peraltro non era soggetto a vincoli derivanti dal rispetto di determinati orari di lavoro).

2.3. Violazioni di legge e vizi motivazionali in relazione agli artt. 43 e 314 c.p., non avendo la Corte d'appello considerato i rilievi difensivi in merito all'insussistenza dell'elemento soggettivo del reato di peculato, avendo l'imputato utilizzato l'autovettura con il consenso dell'azienda e del suo direttore generale, e nella piena convinzione di poterlo fare anche per la mancanza di una prassi aziendale volta ad emanare provvedimenti autorizzativi in forma scritta riguardo all'utilizzo delle autovetture da parte del personale di servizio. A conferma della sua buona fede, peraltro, la difesa aveva già dedotto come l'imputato, negli anni precedenti (2008-2009), aveva ricevuto il rimborso delle spese per il tragitto casa-lavoro compiuto con la sua autovettura personale.

2.4. Violazioni di legge e vizi della motivazione, per mancanza e contraddittorietà, in relazione all'art. 314 c.p., e art. 192 c.p.p., per avere la Corte di merito ritenuto sussistente la seconda ipotesi di peculato di cui al capo a) sulla base di due soli indizi - la collocazione geografica dell'uso del telepass ed il suo utilizzo in orari serali e in giorni festivi - senza tener conto che il presidente di un'azienda privata non segue un orario di lavoro e può essere impegnato anche oltre gli orari previsti per gli impiegati e in giorni festivi, con la conseguenza che l'uso personale dell'autovettura doveva essere dimostrato e non solo presunto.

La Corte d'appello, inoltre, ha omesso di considerare che non v'era in atti la prova che l'imputato avesse utilizzato l'autovettura "Fiat Punto" per questi spostamenti, ma solo il telepass; in ordine alla trasferta a Vasto - l'unica presa in esame dalla Corte - esisteva la prova del non utilizzo di quell'autovettura, poichè, da un lato, la P.G. aveva verificato soltanto l'utilizzo del telepass in dotazione alla "Fiat" nel passaggio al relativo casello, ma non l'utilizzo della "Fiat Punto"; dall'altro lato, vi era in atti la prova contraria costituita da tabulati chilometrici relativi all'autovettura in uso al S., il cui esame consentiva di ritenere che la stessa non era stata impiegata per la trasferta (OMISSIS) e ritorno il 30 dicembre 2009 ed il 2 gennaio 2010.

2.5. Violazioni di legge e vizi motivazionali in relazione all'art. 314 c.p., commi 1 e 2, per la erronea qualificazione giuridica del fatto relativo all'ipotizzato uso privato dell'autovettura "Fiat Punto", che la Corte di merito avrebbe dovuto sussumere nelle diverse e meno gravi fattispecie di peculato d'uso o di abuso d'ufficio, tenuto conto del fatto che i tragitti contestati, anche se ritenuti illeciti, hanno comunque comportato un uso temporaneo per finalità estranee al servizio, senza cagionare alcun danno economico alla pubblica amministrazione.

2.6. Violazioni di legge e vizi motivazionali in relazione all'art. 314 c.p., commi 1 e 2, e art. 323 c.p., per la erronea qualificazione giuridica del fatto enucleato nel capo sub c), relativo all'utilizzo dell'autovettura "Audi A6" con autista, per vari accompagnamenti della moglie e delle figlie dell'imputato. Al riguardo si evidenzia, in particolare, che il dato certo rappresentato dalla legittima disponibilità della predetta autovettura consentiva di escludere in radice la presenza del peculato e di un'appropriazione definitiva del bene, con la conseguenza che la condotta ben avrebbe potuto ascriversi alla meno grave ipotesi di peculato d'uso, ovvero a quella di abuso d'ufficio, sulla stregua degli orientamenti interpretativi delineati dalla Suprema Corte. L'imputato, peraltro, avrebbe dovuto essere assolto dall'ultima contestazione di cui al capo sub c) - concernente la trasferta a (OMISSIS) del 14 giugno 2010, ove erano presenti sull'autovettura il S., la moglie ed il figlio - poichè sia dinanzi al G.i.p., che in sede di gravame, erano state chiarite le ragioni di servizio per le quali egli si era recato a Bologna nella sua qualità di presidente dell'ATV, affermando che aveva soltanto fatto coincidere il viaggio con quello della moglie e del figlio, a loro volta diretti a (OMISSIS).

2.7. Violazioni di legge e vizi motivazionali in relazione al reato di peculato ascrittogli sub b), dovendosi ritenere carente l'elemento soggettivo del reato per il fatto che l'imputato era convinto che la spesa relativa al telepass sarebbe stata posta a suo debito e, successivamente, a conguaglio con le sue poste creditorie, così come era avvenuto negli anni 2008-2009.

Al riguardo, infatti, la difesa aveva documentato che le spese personali sostenute dal S. nell'anno 2009 erano state conguagliate con i crediti vantati dall'azienda ATV nei suoi confronti, con la conseguenza che l'imputato aveva buon motivo di pensare che anche nell'anno 2010 sarebbe accaduto lo stesso, non essendo intervenuto, nel frattempo, alcun cambiamento di metodo da parte dell'amministrazione.

Nel caso di specie, peraltro, l'imputato, diversamente da quanto affermato nella motivazione dell'impugnata pronunzia, non aveva trattenuto alcuna somma a titolo di compensazione, ma aveva semplicemente utilizzato, in forma episodica ed occasionale, il telepass aziendale per trasferte personali che, in quanto tali, aveva ragione di pensare che sarebbero state conguagliate con le poste creditorie in suo favore, tenuto conto, altresì, dell'assenza di un concreto e significativo danno economico recato all'ente.

2.8. Violazioni di legge e vizi della motivazione, - per mancanza e contraddittorietà, in relazione ai reati di truffa di cui all'art. 640 c.p., e art. 61 c.p., n. 9, contestati nei capi d'imputazione sub e) ed f), non avendo la Corte di merito considerato che il S. non aveva compiuto al riguardo alcun artificio o raggiro, e che, più semplicemente, egli, siccome di frequente impegnato in molteplici attività istituzionali, non si era accorto del fatto che alcuni rimborsi non erano dovuti, avendo erroneamente sottoscritto le bollette di rimborso che gli venivano sottoposte dalla segreteria non singolarmente, ma assieme a tanti altri documenti da firmare, nella consapevolezza, comunque, dell'esistenza di controlli da parte dell'apparato amministrativo della società e della regolazione, alla fine di ogni anno, delle voci di debito e credito del presidente nei confronti della società.

2.9. Violazioni di legge e vizi della motivazione, per contraddittorietà e travisamento della prova, in relazione agli episodi di truffa (art. 640 c.p., e art. 61 c.p., n. 9) contestati nel capo sub f) - relativi alla contestazione dell'uso della Fiat Punto al posto dell'autovettura personale - non avendo la Corte di merito considerato le prove contrarie offerte dalla difesa, che dimostravano l'uso dell'autovettura personale e non della su indicata autovettura di servizio. Infatti, le richieste di rimborso per i giorni 21, 24, 28 maggio e 21 giugno 2010 non si riferiscono al rimborso del costo autostradale poichè, come avvenuto per la trasferta a Roma del 28 maggio (episodio per il quale l'imputato è stato assolto), egli aveva utilizzato il telepass aziendale trasferito sulla sua vettura personale, trattandosi di trasferte di servizio. La condanna per le su indicate trasferte, pertanto, si è basata sul solo indizio inerente al telepass, senza che vi fosse alcun altro indizio dimostrativo dell'utilizzo anche della vettura Fiat "Punto".

2.10. Violazioni di legge, con riferimento agli artt. 314 e 358 c.p., e vizi della motivazione, per mancanza e contraddittorietà, in relazione all'affermata qualifica di incaricato di pubblico servizio, laddove l'Azienda trasporti (OMISSIS) è una s.r.l., dunque una società privata con compiti di gestione del servizio di trasporto pubblico e privato, il cui presidente, per la sua posizione, è un soggetto privato che svolge un servizio anche pubblico. Al riguardo, pertanto, non era sufficiente fare riferimento alla carica di presidente dell'ATV, come motivato dalla Corte d'appello, ma occorreva di volta in volta specificare l'esercizio in concreto della funzione di incaricato di pubblico servizio, non essendovi prova, per alcuno dei comportamenti addebitati, che il S. svolgesse in concreto un'attività di rilievo pubblico.

2.11. Violazioni di legge e vizi della motivazione in relazione agli artt. 62 bis e 323 bis c.p., art. 62 c.p., n. 4, e art. 81 c.p., stante l'eccessività della pena inflitta dal G.i.p. - poi confermata dalla Corte d'appello fatta salva una correzione relativa alla continuazione per il capo sub a) - non avendo i Giudici di merito tenuto conto dello stato di incensuratezza dell'imputato, della scarsa rilevanza dei fatti e dell'avvenuto risarcimento del danno in relazione a tutti i fatti commessi, circostanza, questa, che ne imponeva il riconoscimento per tutti i reati posti in continuazione, e non solo per quello ritenuto più grave.

L'imputato, infatti, ha risarcito il danno in relazione a tutti i fatti commessi e non solo per il contestato uso indebito dell'autovettura di cui al capo a), con la conseguenza che l'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 6, doveva essergli concessa in relazione a tutti i reati posti in continuazione.

Eccessivi devono ritenersi, infine, gli aumenti di pena singolarmente operati a titolo di continuazione - avuto riguardo alla modesta entità del danno e del fatto per ciascuno degli episodi in contestazione - mentre i presupposti dell'attenuante della speciale tenuità del danno avrebbero dovuto esser valutati con riferimento ad ogni singolo fatto di reato fra quelli posti in continuazione.

3. Con motivi aggiunti, depositati nella Cancelleria di questa Suprema Corte il 13 gennaio 2015, il difensore di fiducia ha svolto ulteriori argomentazioni a sostegno dei motivi principali di ricorso, con riferimento ai già denunciati vizi motivazionali e di inosservanza ed erronea applicazione della legge in ordine alle condotte contestate nei capi sub a), b) e c) dell'imputazione, insistendo, in particolare, sugli aspetti legati all'erronea qualificazione giuridica del fatto e delle risultanze istruttorie, nonchè all'eventuale applicazione dell'invocata esimente di cui all'art. 50 c.p., tenuto conto degli elementi fattuali rappresentati dalla difesa, in quanto ritenuti indicativi della convinzione del S. di poter legittimamente usare l'autovettura di servizio assegnatagli dall'azienda, e non certo di appropriarsene in suo danno.

Motivi della decisione


1. Il ricorso è parzialmente fondato e va pertanto accolto entro i limiti e per gli effetti di seguito esposti e precisati, dovendosi invece rigettare nel resto.

2. Manifestamente infondata deve ritenersi la doglianza oggetto del primo motivo di ricorso, il cui vaglio delibativo è stato effettuato già in punto di fatto dai Giudici di merito, laddove hanno osservato come non risultino compiute attività d'indagine oltre la scadenza del novantesimo giorno dalla data di iscrizione ex art. 335 c.p.p., tempestivamente disposta dal P.M. all'atto stesso del deposito dell'informativa di reato a carico del S. in data 24 agosto 2010.

Al riguardo v'è da osservare, sulla base dei principii in questa Sede stabiliti (Sez. Un., n. 42979 del 26/06/2014, dep. 14/10/2014, Rv. 260017 - 260018), che l'inosservanza dei termini di novanta e centottanta giorni, assegnati al p.m. per la richiesta, rispettivamente, di giudizio immediato ordinario e cautelare, è rilevabile solo dal g.i.p., non essendo previsto dalla disciplina processuale un controllo ulteriore rispetto a quello tipico (ex art. 454 c.p.p.) a lui attribuito al momento della decisione sulla formulazione della richiesta di giudizio immediato.

In tal senso, invero, le Sezioni Unite hanno specificato che il rispetto dei termini per la formulazione della richiesta costituisce un presupposto di ammissibilità del rito, in virtù del nesso che lega, in tale tipo di giudizio, la non particolare complessità delle indagini, l'evidenza della prova o lo stato detentivo dell'accusato, e le peculiari esigenze di celerità e di risparmio di risorse processuali che ispirano l'istituto.

Ne consegue che la decisione con la quale il giudice per le indagini preliminari dispone il giudizio immediato non può essere oggetto di ulteriore sindacato, atteso che il provvedimento in tal senso adottato chiude una fase di carattere endo-processuale priva di conseguenze rilevanti sui diritti di difesa dell'imputato, salva l'ipotesi in cui il giudice del dibattimento rilevi che la richiesta del rito non è stata preceduta da un valido interrogatorio o dall'invito a presentarsi, integrandosi in tal caso la violazione di una norma procedimentale concernente l'intervento dell'imputato, sanzionata di nullità a norma dell'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 180 c.p.p..

Sotto altro, ma connesso profilo, v'è inoltre da considerare, e il rilievo è dirimente, che il ricorrente ha richiesto il giudizio abbreviato avvalendosi proprio della facoltà processuale concessagli ex art. 458 c.p.p., con la conseguenza che egli non può far valere eventuali nullità a regime intermedio attinenti agli atti propulsivi e introduttivi del rito, da ritenere, in quanto tali, sanate per avere accettato di essere giudicato con un rito a forma semplificata.

Occorre infine osservare, e le ragioni giustificative di tale affermazione di principio sono state ribadite anche dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, che il termine di durata delle indagini preliminari decorre dalla data in cui il pubblico ministero ha iscritto, nel registro delle notizie di reato, il nome della persona cui il reato è attribuito, senza che al g.i.p. sia consentito stabilire una diversa decorrenza, sicchè gli eventuali ritardi indebiti nell'iscrizione, sia della notizia di reato sia del nome della persona cui il reato è attribuito, pur se abnormi, sono privi di conseguenze agli effetti di quanto previsto dall'art. 407 c.p.p., comma 3, fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale del magistrato del P.M. che abbia ritardato l'iscrizione (Sez. Un., n. 40538 del 24/09/2009, dep. 20/10/2009, Rv. 2443769).

Entro tale prospettiva ermeneutica, deve rilevarsi come i prospettati dubbi di costituzionalità siano stati già affrontati e disattesi in questa Sede (Sez. 6, 4 dicembre 2009, n. 2261/2010), muovendo dal rilievo che, nella su citata pronuncia delle Sezioni Unite, pur essendo stata rimarcata la totale mancanza di discrezionalità del P.M. nell'apprezzamento, sotto il profilo oggettivo e quello soggettivo, della notizia di reato e del nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito - notizia e nome che vanno immediatamente iscritti nell'apposito registro - si è sottolineato che, per rimediare a possibili "patologie" derivanti da ritardi del pubblico ministero rispetto all'obbligo di procedere immediatamente alle iscrizioni delle notizie di reato, sarebbe necessaria l'individuazione "di un giudice e di un procedimento che consentisse l'adozione di un qualche provvedimento surrogatorio", che possono essere previsti soltanto per legge, risultando indispensabili sia la precisa indicazione di attribuzioni processuali di tale giudice, sia una disciplina del "rito secondo il quale inscenare un simile accertamento incidentale. Basti pensare, ad esempio, all'esigenza di rispettare il contraddittorio, non solo tra i soggetti necessari, ma anche in riferimento agli altri eventuali partecipanti della indagine o del processo.

Se s'introducesse, infatti, un controllo ex post sul merito della tempestività delle iscrizioni, con possibilità di retrodatazione tale da compromettere l'utilizzazione di atti d'indagine, il relativo ius ad loquendum non potrebbe non essere riconosciuto anche agli eventuali altri indagati o persone offese, che dalla postuma dichiarazione d'inutilizzabilità di atti d'indagine potrebbero soffrire una grave compromissione, ove quegli atti fossero favorevoli alla loro posizione". Nè un siffatto rimedio può essere individuato dalla Corte Costituzionale, in mancanza di soluzioni procedimentali costituzionalmente obbligate, cosicchè il prospettato incidente di costituzionalità si appalesa manifestamente infondato, essendo destinato a una declaratoria di manifesta inammissibilità da parte del giudice delle leggi, essendo invece compito, ormai indilazionabile, del legislatore intervenire con "un innesto normativo per portare a soluzione i problemi, da tempo avvertiti, che scaturiscono dall'assenza di effettivi rimedi per le ipotesi di ritardi nell'iscrizione nel registro delle notizie di reato" (sent. cit.).

3. Corretta deve ritenersi l'attribuzione all'imputato della qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio, avendo i Giudici di merito posto in rilievo, con congrua ed esaustiva motivazione, il carattere prevalentemente pubblicistico delle attività svolte dall'azienda ove egli ha assunto le funzioni apicali riconnesse al ruolo di presidente del consiglio di amministrazione.

Pur trattandosi, infatti, di un'azienda costituita secondo una forma societaria privata, essa ha come principale oggetto sociale la gestione dei servizi di trasporto pubblico urbano ed extraurbano dell'intera città di (OMISSIS), affiancando a tale attività anche quella, del tutto subordinata, inerente il servizio di trasporto a noleggio privato ed attività di officina.

Ne discende che il presidente dell'azienda trasporti Verona s.r.l., anche se legato all'ente da un rapporto di impiego privato, innanzitutto concorre alla gestione di un pubblico servizio di interesse collettivo, la cui specifica natura e finalità sono state ritenute assolutamente prevalenti nella connotazione delle attività proprie della dimensione operativa dell'azienda (ivi comprese, ad es., le partecipazioni a convegni, conferenze e consigli di amministrazione), il cui concreto svolgimento - riguardo all'obiettivo estrinsecarsi di tutte le vicende storico-fattuali oggetto dei correlativi temi d'accusa - era pienamente collegato, sul piano funzionale, all'esercizio delle attribuzioni riconnesse a quella posizione di vertice nella gestione dell'ente.

Del prevalente esercizio di tali attività di rilievo pubblicistico, d'altronde, è stato coerentemente ritenuto sintomatico proprio il fatto che l'azienda provvedesse al rimborso di tutte le spese alle stesse inerenti, in tal guisa confermando l'esistenza di un preciso nesso funzionale tra il suo status di presidente e l'assunzione dei relativi impegni.

Siffatta conclusione deve ritenersi in linea con il portato dell'elaborazione giurisprudenziale di questa Suprema Corte, essendo del tutto indifferente che allo svolgimento di attività i cui connotati, come nel caso in esame, sono quelli propri di un servizio di pubblico interesse concorrano, anche in via non esclusiva, enti ed imprese concessionarie aventi natura privata. Deve dunque ribadirsi, in linea di principio, che i dipendenti di un ente o di una società concessionaria, anche in via non esclusiva, di un servizio di interesse pubblico vanno considerati incaricati di un pubblico servizio, in quanto concorrono allo svolgimento dell'attività ad esso connessa, a nulla rilevando la natura pubblica o privata dell'ente o dell'imprenditore al quale questa attività sia riferibile (da ultimo, v. Sez. 6, n. 7083 del 29/10/2013, dep. 13/02/2014, Rv. 258794; Sez. 6, n. 37099 del 19/07/2012, Rv. 253477).

Ciò che rileva a tal fine è che gli stessi, agendo nell'ambito di una funzione comunque connotata da interessi pubblicisticamente orientati, svolgano una attività di carattere intellettivo (con esclusione dunque delle semplici mansioni d'ordine e delle prestazioni d'opera meramente materiale), priva tuttavia dei poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione in relazione alla quale si pongono in termini di complementarietà ed accessorietà.

Infondata pertanto deve ritenersi, alla luce delle su esposte considerazioni, la doglianza difensiva racchiusa nel decimo motivo di ricorso (in narrativa illustrata, supra, nel par. 2.10.).

4. Con riferimento ai delitti di peculato oggetto dei su indicati temi d'accusa, la Corte distrettuale ha esaminato e puntualmente disatteso le correlative obiezioni difensive (v., supra, i parr. 2.2., 2.3, 2.4., 2.6. e 2.7.), muovendo dalla preliminare osservazione che una delle autovetture dall'imputato utilizzate (l'Audi A6) aveva funzioni di "rappresentanza", in quanto espressamente finalizzata agli accompagnamenti del presidente nell'ambito delle sue funzioni istituzionali, laddove nessun atto formale di affidamento o assegnazione dell'altra autovettura (Fiat Punto) è stato possibile rinvenire, con la conseguenza che la stessa risultava a disposizione del personale dipendente dell'ATV nell'ambito dell'orario di servizio e non poteva certo essere utilizzata per usi o scopi ad esso estranei.

E' stata, altresì, motivatamente esclusa dalla Corte d'appello, per totale difetto di prova sul punto, la concessione di un benefit aziendale direttamente collegato all'assunzione dell'incarico presidenziale, tenuto conto dell'assenza di un'esplicita regolamentazione contrattuale, ovvero di un provvedimento di natura formale, aventi ad oggetto l'utilizzo di un bene appartenente alla società, e dotato, peraltro, di un apprezzabile valore economico, del quale nessuno, all'interno dell'azienda, avrebbe potuto arbitrariamente disporre senza titolo, ovvero senza alcuna convincente motivazione.

Muovendo da tali premesse argomentative, i Giudici di merito hanno coerentemente valorizzato le implicazioni sottese al decisivo rilievo probatorio che in punto di fatto hanno ritenuto di attribuire alla circostanza - pacificamente dimostrata - che l'imputato non aveva utilizzato l'autovettura Fiat Punto solo per i tragitti relativi all'itinerario da percorrere fra la propria abitazione e la sede dell'ATV in (OMISSIS), ma ne aveva fatto personale uso in diverse occasioni, sia durante le vacanze estive (per un apprezzabile lasso temporale e in località situata in (OMISSIS) a notevole distanza geografica dalla sede legale dell'azienda), sia per raggiungere Piazza (OMISSIS), nei cui pressi aveva il suo studio privato, oltre che per le percorrenze relative all'itinerario compreso fra la propria abitazione e la sede municipale di (OMISSIS), ove egli si recava in qualità di Sindaco.

La Corte d'appello, inoltre, ha congruamente motivato anche in relazione all'illecito utilizzo del bene per tragitti (ad es., (OMISSIS)) che, in ragione del periodo sostanzialmente feriale e della collocazione geografica dell'avvenuto spostamento, dovevano ritenersi del tutto ingiustificati rispetto agli impegni istituzionali del presidente di un'azienda il cui centro d'interessi è di regola individuabile nel territorio della Provincia e del Comune di Verona.

Nessun impegno di tipo ufficiale, del resto, è stato al riguardo specificamente allegato in senso contrario dall'imputato, che, in sede di gravame, si è limitato a prospettare la possibilità di offrire una prova orale a parziale discarico (circa l'utilizzo del solo telepass e non della vettura aziendale) del tutto improponibile per effetto della scelta del rito abbreviato, e in questa Sede ha invece prospettato la mancata considerazione, nell'ambito del giudizio di secondo grado, delle risultanze di una prova contraria di tipo documentale (i tabulati chilometrici dell'autovettura aziendale), che sarebbe stata già presente in atti, ma il cui esame diretto è a questa Suprema Corte evidentemente precluso, poichè la sua deduzione, e conseguente valutazione, avrebbero dovuto costituire oggetto di una preventiva, e puntualmente indicata, argomentazione a sostegno dei motivi d'appello.

Nè tale scorretto utilizzo per compiere tragitti non funzionalmente collegati alla carica istituzionale dall'imputato rivestita potrebbe giustificarsi nell'evenienza - della quale pur si da conto in motivazione, sì come riferita in sede di indagini difensive dal direttore generale dell'ATV - di una sostituzione per "guasto" dell'autovettura privata del S., cui l'autovettura "Fiat Punto" sarebbe stata concessa dal gestore del parco autoveicoli per effettuare il tragitto casa-lavoro e gli spostamenti legati agli impegni inerenti alla sua carica istituzionale.

Anche a voler prescindere dai limiti oggettivamente riconnessi alla ratio di tale utilizzo e dal rilievo che nessuno, comunque, all'interno dell'azienda, sembra essersi poi attivato per ottenere (secondo quelle che dovrebbero essere le regole di una corretta ed efficiente amministrazione) la restituzione dell'autovettura che sarebbe stata informalmente concessa in uso temporaneo al S., è evidente che l'assegnazione di un mezzo sostitutivo non potrebbe di certo confondersi con la manifestazione di un preventivo consenso all'uso indiscriminato del bene di rilievo pubblico, ovvero legittimarne un reiterato uso privatistico, privo di collegamenti con la natura pubblicistica delle funzioni esercitate.

Al riguardo, peraltro, deve ribadirsi il principio secondo cui nessuna efficacia esimente può attribuirsi alla causa di giustificazione del consenso dell'avente diritto, quando i beni che costituiscono oggetto della condotta delittuosa appartengono alla pubblica amministrazione o comunque rientrino in una destinazione di rilievo pubblicistico (arg. ex Sez. Un., n. 19054 del 20/12/2012, dep. 02/05/2013, Rv. 255298).

Analoghe considerazioni, inoltre, devono svolgersi, da un lato, per le modalità di utilizzo del telepass aziendale, arbitrariamente separato (in assenza di autorizzazioni aziendali) dal veicolo cui necessariamente accedeva, per poi installarlo su un'autovettura personale, così illecitamente appropriandosi dei benefici derivanti dal mancato pagamento dei correlativi oneri autostradali (la cui corresponsione veniva invece riversata sull'azienda), e, all'altro lato, con riferimento all'improprio utilizzo dell'autovettura Audi A6 relativamente agli episodi, puntualmente documentati e posti in evidenza nelle decisioni di merito, in cui la stessa risulta essere stata impiegata, con il relativo consumo di carburante, per alcuni viaggi ed accompagnamenti di cui hanno beneficiato i familiari, ed in particolare le figlie, dell'imputato (ad es., l'accompagnamento della moglie e del figlio dall'abitazione di (OMISSIS) alla stazione ferroviaria di Bologna, ovvero quello della figlia per un corso di preparazione agli esami di ammissione all'Università presso un hotel di Padova), per ragioni, evidentemente, del tutto estranee all'adempimento di doveri istituzionali.

Nè alcun rilievo può attribuirsi, ai fini della esclusione del reato, alla prospettata circostanza che il pubblico ufficiale, o l'incaricato di pubblico servizio, abbia trattenuto somme di denaro pubblico in compensazione di crediti vantati nei confronti della amministrazione di appartenenza, non essendo previsto, in linea di massima, e salvi i casi espressamente eccettuati dalla legge, il riconoscimento dell'autotutela per la realizzazione dei propri diritti, nè potendosi ritenere sufficiente l'astratta pretesa di un diritto per poterlo esercitare in modi non consentiti dalla legge (Sez. 6, n. 20940 del 22/02/2011, dep. 25/05/2011, Rv. 250055; Sez. 6, n. 2963 del 04/10/2004, dep. 31/01/2005, Rv. 231033).

5. Parimenti infondate devono ritenersi le doglianze mosse (v., supra, i parr. 2.8. e 2.9.) con riferimento agli ulteriori temi d'accusa delineati nelle imputazioni di truffa continuata ed aggravata di cui ai capi sub E) ed F), avendo i Giudici di merito puntualmente esaminato per ciascuna delle vicende storico-fattuali ivi considerate, e motivatamente disatteso, le obiezioni ed i rilievi critici al riguardo formulati dalla difesa, soffermandosi sulle note modali delle diverse condotte di induzione in errore degli organi amministrativi aziendali ed osservando, in particolare: a) che prive di ogni base probatoria dovevano ritenersi le addotte giustificazioni secondo cui le richieste di rimborso spese non sarebbero state predisposte dall'imputato, ma dalla sua segreteria, risultando, di contro, che gli illeciti pagamenti erano avvenuti sulla base di numerose richieste, tutte dall'imputato sottoscritte, non riferibili ad una singola ed occasionale svista nè relative a somme da lui regolarmente percepite, per non aver affatto partecipato ad impegni istituzionali per i quali risultava autocertificata la sua presenza al fine di ottenere i correlativi rimborsi; b) che nelle altre situazioni, invece, egli risultava aver effettivamente presenziato ad impegni di tipo istituzionale, senza utilizzare, tuttavia, la sua autovettura personale, come falsamente autocertificato, bensì le auto di servizio messegli a disposizione per effettuare i relativi percorsi, con la conseguenza che nessun rimborso spese doveva essergli erogato dall'azienda.

I rilievi al riguardo formulati dal ricorrente si muovono essenzialmente nella prospettiva di accreditare una diversa lettura delle valutazioni espresse in ordine al contenuto ed ai risultati delle diverse acquisizioni probatorie e si risolvono, quindi, in non consentite censure in punto di fatto all'iter argomentativo seguito dalla sentenza di merito, nei cui lineari passaggi motivazionali è rinvenibile ampia e puntuale risposta alle correlative doglianze, in tutto sovrapponigli a quelle già sottoposte all'attenzione dei Giudici di merito.

6. In definitiva, per quel che attiene al complesso delle censure difensive da ultimo indicate (v., supra, i parr. 4 e 5), tutte al limite dell'inammissibilità in quanto fortemente orientate verso una rivalutazione dei profili di merito della regiudicanda, come tale incompatibile con l'odierno scrutinio di legittimità, è necessario ribadire, al fine della verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte d'appello, che tale decisione non può essere isolatamente valutata, ma deve essere esaminata in stretta correlazione con la sentenza di primo grado, dal momento che l'iter motivazionale di entrambe sostanzialmente si dispiega secondo l'articolazione di sequenze logico-giuridiche pienamente convergenti (Sez. 4, n. 15227 del 14/02/2008, dep. 11/04/2008, Rv. 239735; Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Rv. 223061).

Siffatta integrazione tra le due motivazioni si verifica non solo allorchè i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, ma anche, e a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (da ultimo, v. Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 12/04/2012, Rv. 252615).

Nel caso portato alla cognizione di questa Suprema Corte, in particolare, ci si trova di fronte a due pronunzie, di primo e di secondo grado, che sostanzialmente concordano nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conformi rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che viene a saldarsi perfettamente con quella precedente, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, in considerazione del fatto che entrambe le pronunzie hanno offerto una congrua e ragionevole giustificazione del giudizio di colpevolezza formulato nei confronti del ricorrente.

Discende da tale evenienza, secondo una linea interpretativa in questa Sede da tempo tracciata, che l'esito del giudizio di responsabilità non può certo essere invalidato da prospettazioni alternative, risolventisi in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perchè illustrati come maggiormente plausibili, o perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, dep. 23/06/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, dep. 28/12/2006, Rv. 235507).

Nel caso di specie, avuto riguardo anche ai limiti cognitivi riconnessi agli effetti della scelta dall'imputato espressa per il giudizio con rito abbreviato, l'adeguatezza delle ragioni giustificative illustrate nell'impugnata sentenza non è stata validamente censurata dal ricorrente, limitatosi a riproporre, per lo più, una serie di obiezioni già esaustivamente disattese dai Giudici di merito ed a formulare critiche e rilievi sulle valutazioni espresse in ordine alle risultanze offerte dal materiale probatorio sottoposto alla loro cognizione, prospettandone, tuttavia, una diversa ed alternativa lettura, in questa Sede, evidentemente, non assoggettabile ad alcun tipo di verifica, per quanto sopra evidenziato.

Il tessuto motivazionale della sentenza in esame, dunque, non presenta affatto quegli aspetti di carenza, contraddittorietà o macroscopica illogicità del ragionamento del giudice di merito che, alla stregua del consolidato insegnamento giurisprudenziale da questa Suprema Corte elaborato, potrebbero indurre a ritenere sussistente il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), (anche nella sua nuova formulazione), nel quale sostanzialmente si risolvono le censure dal ricorrente articolate nei su indicati motivi di doglianza.

7. Fondata, di contro, per le ragioni e nei limiti di seguito specificati, deve ritenersi la doglianza dalla difesa prospettata nel quinto motivo di ricorso (v., supra, il par. 2.5.).

Invero, la figura delittuosa del peculato d'uso tende a replicare strutturalmente lo schema del furto d'uso, mirando, da un lato, a reprimere condotte che nel previgente sistema erano irrilevanti, e, dall'altro lato, ad arginare eventuali arbitrii interpretativi, temperando il trattamento sanzionatorio in relazione alle ipotesi di minor disvalore del fatto.

In precedenza, infatti, il peculato d'uso veniva ricompreso nel concetto di "distrazione", escludendosi la punibilità dell'agente ogni qual volta la sua condotta non integrasse gli estremi della distrazione. In particolare, la giurisprudenza era orientata a considerare non punibile il peculato d'uso qualora esso avesse avuto ad oggetto cose infungibili o di specie, e l'uso fosse consistito in uno sfruttamento momentaneo, "materiale" ed eccezionale della cosa;

se ne affermava, invece, la punibilità in presenza di un uso "giuridico" della cosa, configurabile tutte le volte in cui il bene - ancorchè temporaneamente - fosse stato volto ad una diversa destinazione, incompatibile con quella originaria (così, ad es., Sez. 6, n. 6379 del 01/12/1987, dep. 27/05/1988, Rv. 178471; Sez. 6, n. 2007 del 04/11/1983, dep. 03/03/1984, Rv. 162960; Sez. 6, n. 14692 del 22/06/1989, dep. 30/10/1989, Rv. 182390; v., inoltre, Sez. 6, n. 7974 del 02/03/1989, dep. 02/06/1989, Rv. 181477).

Proprio per tali ragioni, dunque, si è auspicata, specie nelle riflessioni dottrinali, una lettura costituzionalmente orientata della nuova previsione incriminatrice, in termini cioè di effettiva lesività della condotta, sì da ritenere integrato il reato solo se l'uso della cosa ne abbia compromesso in modo apprezzabile l'utilizzazione da parte del proprietario, ed escludendone la realizzazione quando l'agente restituisca immediatamente la cosa senza provocare un significativo danno patrimoniale.

La previsione contenuta nell'art. 314 c.p., comma 2, delinea una condotta del tutto autonoma e strutturalmente diversa da quella racchiusa nel primo comma, in quanto l'uso momentaneo, seguito dall'immediata restituzione della cosa, non integra un'autentica appropriazione, realizzandosi, quest'ultima, solo con la definitiva soppressione della destinazione originaria della cosa. Nel peculato d'uso, inoltre, la finalità dell'agente costituisce un elemento specializzante, che impedisce di inquadrare il fatto nell'alveo del peculato vero e proprio.

Si è altresì osservato, in giurisprudenza, che "uso momentaneo" non significa istantaneo, ma temporaneo, ossia protratto per un tempo limitato, così da comportare una sottrazione della cosa alla sua destinazione istituzionale tale da non compromettere seriamente la funzionalità della pubblica amministrazione (Sez. 6, n. 4651 del 10/03/1997, dep. 16/05/1997, Rv. 207594; Sez. 6, n. 9216 del 01/02/2005, dep. 09/03/2005, Rv. 230940).

Si ritiene, inoltre, essenziale il rapporto di funzionalità della cosa sottratta rispetto alla natura dell'uso momentaneo per cui si fa ricorso all'appropriazione (in applicazione di tale principio, Sez. 6, n. 9205 del 19/11/2003, dep. 01/03/2004, Rv. 229303).

In tema di utilizzo, per fini privati, di autovetture di servizio da parte dell'intraneus si sono registrate sensibili divergenze interpretative nella evoluzione della giurisprudenza di legittimità.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, l'uso costante e reiterato nel tempo di un'autovettura di servizio da parte del pubblico funzionario integra la più grave ipotesi di peculato per appropriazione (Sez. 6, 15 marzo 2012, dep. 30 maggio 2012, n. 20922, non mass.; Sez. 6, 12 ottobre 2010, dep. 9 novembre 2010, n. 39347, non mass.; Sez. 6, n. 11430 del 04/02/2005, dep. 22/03/2005, Rv. 231320).

Secondo un altro, e prevalente orientamento ermeneutico, invece, l'impiego abituale e/o comunque l'indebita utilizzazione di un'autovettura pubblica da parte del funzionario per compiere itinerari cittadini per fini personali, ivi compreso l'accompagnamento casa-ufficio, devono qualificarsi come peculato d'uso (v., ad es., sia pure in relazione a diverse fattispecie, Sez. 6, n. 1113 del 04/12/1996, dep. 06/02/1997, Rv. 206789; Sez. 6, n. 4651 del 10/03/1997, dep. 16/05/1997, Rv. 207594; Sez. 6, n. 352 del 07/11/2000, dep. 18/01/2001, Rv. 219085, che in motivazione distingue l'appropriazione dell'autovettura, ritenuta sussumibile, nel caso ivi esaminato, nella tipica configurazione di cui al peculato d'uso, dal distoglimento dell'autista dalle sue funzioni di esecutore di un servizio pubblico, che invece integra il reato di peculato di cui al primo comma dell'art. 314 c.p.; Sez. 1, n. 10274 del 09/02/2006, dep. 23/03/2006, Rv. 233718; Sez. 6, n. 25541 del 21/05/2009, dep. 18/06/2009, Rv. 244287; Sez. 6, n. 26812 del 15/06/2011, dep. 08/07/2011, Rv. 250741; Sez. 6, n. 34248 del 09/06/2011, dep. 16/09/2011, Rv. 250837; Sez. 3, n. 26616 del 08/05/2013, dep. 19/06/2013, Rv. 255619; Sez. 6, n. 39770 del 27/05/2014, dep. 25/09/2014, Rv. 260458).

Sulla questione della riconducibilità dell'uso indebito dell'autovettura di servizio alla fattispecie del peculato d'uso, di cui al comma secondo dell'art. 314 c.p., appare di fondamentale rilievo, anche per la sostanziale analogia delle situazioni in esame, la considerazione delle argomentazioni di ordine generale poste a sostegno del recente approdo interpretativo raggiunto da questa Suprema Corte in tema di indebito utilizzo del telefono d'ufficio (Sez. Un., n. 19054 del 20/12/2012, dep. 02/05/2013, Rv. 255296).

Si è infatti osservato, nella motivazione della pronuncia ora citata, che la nozione di appropriazione, nel diverso ambito applicativo del delitto di cui all'art. 646 c.p., ha assunto, nel tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo anche dell'uso indebito della cosa, ove esso si connoti per l'eccedenza dai limiti del titolo in virtù del quale l'agente la detiene.

Naturalmente, in quell'ambito, nel quale non è prevista l'ipotesi dell'uso momentaneo, si richiede l'effetto della perdita della cosa stessa da parte dell'avente diritto. Questa conseguenza, invece, è chiaramente incompatibile con un uso strutturalmente e programmaticamente (come sottolineato anche da Corte cost. n. 2 del 1991) momentaneo, quale quello previsto nel capoverso dell'art. 314 c.p., il quale, quindi, non potrà mai integrare un'appropriazione, nel senso specifico di cui al comma 1, della norma codicistica, consistendo ed esaurendo la sua portata nel fatto di distogliere temporaneamente la cosa dalla sua originaria destinazione, per piegarla a scopi personali.

Si tratta, dunque, proseguono le Sezioni Unite, di un abuso del possesso, che non si traduce, e non può per definizione tradursi, nella sua stabile inversione in dominio. La ratio dell'introduzione della fattispecie in esame è stata in effetti proprio quella di impedire, con una repressione di tipo penale, il grave fenomeno dell'utilizzo improprio dei beni della pubblica amministrazione.

Ma se cosi è, e se non si vuole vanificare tale ragione storica e logica della fattispecie incriminatrice, proseguono le Sezioni Unite nella motivazione della su citata decisione, è giocoforza ritenere che, per la sua integrazione, l'elemento qualificante e sufficiente è dato dalla violazione del titolo del possesso, che l'agente compie distraendo il bene dalla sua destinazione pubblicistica e piegandolo verso fini personali.

In questo modo egli si rapporta con esso, in pendenza dell'utilizzo indebito, in veste di dominus (per quanto provvisorio e funzionale), con contestuale disconoscimento dell'altrui maggior diritto.

In tale schema ricostruttivo si palesa all'evidenza non essenziale, in quanto estraneo allo specifico scopo perseguito dal legislatore, l'elemento della "fisica" sottrazione della res alla sfera di disponibilità e controllo della pubblica amministrazione. E quando tale sottrazione manchi, la "restituzione" della cosa si risolverà logicamente nella cessazione del suo uso arbitrario, con la conseguente riconduzione della stessa alla sua normale destinazione (come già efficacemente rilevato da Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, Rv. 209746).

Così correttamente puntualizzata la portata e la natura del peculato d'uso, è evidente che l'utilizzo per fini personali da parte del pubblico agente, sia esso pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, di un'autovettura nella sua disponibilità, o comunque assegnatagli per le esigenze dell'ufficio, vi diviene pienamente sussumibile, pur a fronte di ripetuti episodi di indebito utilizzo temporaneo. Con tale condotta, infatti, il soggetto distoglie il bene fisico, di cui è in possesso per ragioni d'ufficio, dalla sua destinazione pubblicistica, piegandolo a fini personali per tutto il tempo del relativo uso, per poi restituirlo, alla cessazione di questo, alla destinazione originaria.

E' altresì evidente, entro questa prospettiva, che l'illegittimo consumo del carburante e dell'olio, come pure l'usura del mezzo derivante dal suo ripetuto e non occasionale utilizzo, non rilevano autonomamente, ma concorrono a determinare l'entità del danno patrimoniale che la condotta delittuosa cagiona all'ente in conseguenza dell'illegittimo trasferimento della spesa sull'impiego scorretto dei beni in dotazione.

Ciò posto, non può non rilevarsi che il raggiungimento della soglia della rilevanza penale presuppone comunque l'offensività del fatto, che nella ipotesi del peculato d'uso si realizza, secondo l'insegnamento di questa Suprema Corte, con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della p.a. o di terzi, ovvero attraverso una condotta in concreto lesiva della funzionalità dell'ufficio (in tal senso, v. Sez. 6, n. 5006 del 12/01/2012, dep. 09/02/2012, Rv. 251785; v., inoltre, Sez. 6, n. 7177 del 27/10/2010, dep. 24/02/2011, Rv. 249459).

Dall'ipotesi dell'uso della vettura di servizio per il compimento del tragitto casa-ufficio, quando l'accompagnamento non sia effettuato in violazione di alcuna disposizione regolamentare, va peraltro distinta l'ipotesi di utilizzo dell'auto per motivi personali e privati, poichè nel primo caso è evidente che il bene di cui il pubblico ufficiale ha la disponibilità per ragioni del suo ufficio rimane, comunque, nell'ambito della sua normale destinazione giuridica, e cioè nella sfera della pubblica amministrazione (Sez. 6, n. 46061 del 17/09/2014, dep. 06/11/2014, Rv. 260818).

Considerata, infine, la struttura del peculato d'uso (che implica l'immediata restituzione della cosa), le valutazioni in questione non possono che essere riferite alle singole condotte poste in essere, salvo che le stesse, per l'unitario contesto spazio-temporale, non vadano di fatto a costituire una condotta inscindibile (Sez. Un., n. 19054 del 20/12/2012, dep. 02/05/2013, cit.).

Ne deriva, come si è di recente avuto modo di chiarire in questa Sede (Sez. 6, n. 39770 del 27/05/2014, dep. 25/09/2014, Rv. 260458), che il peculato d'uso è connotato dalla preordinazione dell'appropriazione ad un uso temporaneo, quindi non meramente istantaneo, della cosa e dalla immediata restituzione della stessa dopo il momentaneo utilizzo, con la ulteriore conseguenza che, in presenza di tali requisiti, la reiterazione delle condotte determina l'integrazione di una pluralità di reati ex art. 314 c.p., comma 2, eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione, ma non il mutamento della qualificazione giuridica del fatto in peculato "ordinario" ex art. 314 c.p., comma 1.

Ne discende, pertanto, che i fatti ascritti al S. nei capi sub A), B) e C) devono ritenersi propriamente sussumibili nella diversa fattispecie del peculato d'uso di cui all'art. 314 c.p., comma 2, non potendosi di certo escludere la presenza di un vulnus all'integrità patrimoniale dell'ente, avuto riguardo, per un verso, alla consistenza e durata dei singoli episodi di utilizzo dei beni aziendali per finalità non corrispondenti a quelle istituzionali, e, per altro verso, alla significativa entità della somma di denaro dall'imputato versata a titolo di risarcimento del danno (che la Corte d'appello ha indicato nell'importo di 8.000,00 Euro).

Alla stregua delle su esposte considerazioni, diversamente qualificate le su indicate imputazioni ai sensi dell'art. 81 cpv. c.p., art. 314 c.p., comma 2, la sentenza impugnata va annullata limitatamente alla misura della pena e rinviata, per la conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio, ad altra sezione della Corte d'Appello di Venezia.

8. Per quel che attiene alle articolate doglianze oggetto dell'ultimo motivo di ricorso (v., in narrativa, il par. 2.11.), inammissibile deve ritenersi, in primo luogo, la censura prospettata in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, avendo la Corte distrettuale confermato l'analogo vaglio delibativo già espresso dal Giudice di primo grado secondo una valutazione rispettosa dei criteri direttivi posti dall'art. 133 c.p., e come tale non assoggettabile a sindacato in questa Sede, ponendosi, di contro, le deduzioni difensive sul punto formulate nella mera prospettiva di accreditare una diversa ed alternativa valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti fattuali che ne giustificherebbero la concessione.

Analoghe considerazioni s'impongono, altresì, in merito alla prospettata configurabilità dell'attenuante di cui all'art. 323 bis c.p., dovendosi al riguardo considerare gli aspetti legati, per un verso, alla significativa entità delle conseguenze patrimoniali dell'azione criminosa complessivamente considerata (la somma di denaro dall'imputato versata a titolo di risarcimento del danno è stata dalla Corte di merito indicata in misura pari all'importo di 8.000,00 Euro), e, per altro verso alla ritenuta gravità intrinseca dei fatti, per i quali già il Giudice di primo grado aveva osservato che il tipo di incarico rivestito imponeva l'osservanza di un "particolare rigore": ne discende l'esclusione della configurabilità stessa dei presupposti dell'affine attenuante speciale di cui all'art. 323 bis c.p., la cui sussistenza può riconoscersi solo quando il reato, valutato nella sua globalità, presenti una gravità di contenuto rilievo (Sez. 6, n. 14825 del 26/02/2014, dep. 31/03/2014, Rv. 259501).

8.1. Fondata, di contro, deve ritenersi la censura mossa in ordine alla esclusione dell'attenuante del danno di speciale tenuità, avendo la Corte distrettuale erroneamente tenuto conto, a tal fine, della complessiva entità della somma di denaro di cui l'ente è stato depauperato, quantificandola sulla base dell'importo dall'imputato versato a titolo di risarcimento del danno (pari, come si è detto, alla cifra di 8.000,00 Euro).

Al riguardo v'è da osservare, in linea generale, che la circostanza attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, ricorre solo quando il danno patrimoniale subito dalla parte offesa come conseguenza diretta e immediata del reato sia di valore economico pressochè irrilevante (da ultimo, v. Sez. 2, n. 15576 del 20/12/2012, dep. 04/04/2013, Rv. 255791).

Sotto altro, ma connesso profilo, tuttavia, deve ribadirsi il principio, più volte affermato in questa Sede, secondo cui, ai fini dell'applicazione della circostanza attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, la valutazione della speciale tenuità, nel caso di reato continuato, va effettuata non in relazione all'importo complessivo delle somme contestate, ma con riguardo al danno patrimoniale cagionato per ogni singolo fatto-reato (Sez. 6, n. 30154 del 12/06/2007, dep. 24/07/2007, Rv. 237329, in relazione ad una fattispecie in tema di peculato continuato, in cui la Corte ha censurato la sentenza che aveva negato il riconoscimento dell'attenuante sulla base della considerazione dell'importo complessivo delle somme percepite in relazione a ciascun fatto appropriativo; Sez. 3, n. 11035 del 21/10/1993, dep. 02/12/1993, Rv. 195943). E' evidente, infatti, che l'eventuale esclusione dell'attenuante, in relazione ad una sola delle ipotesi delittuose in continuazione, finirebbe col rendere più gravi anche quelle fattispecie che tale carattere, in concreto, non presentino.

Fondato, dunque, deve ritenersi il prospettato errore di applicazione legato alla mancata valutazione della su indicata attenuante con riferimento a ciascuno dei fatti di reato unificati dalla continuazione, avendo la Corte di merito erroneamente proceduto ad una valutazione globale, e non parcellizzata, dei suoi presupposti.

8.2. Parimenti fondate devono ritenersi, poi, le ulteriori doglianze mosse dalla difesa riguardo alla determinazione degli aumenti di pena operati per la continuazione ed ai correlativi effetti, sul piano sanzionatorio, della riconosciuta attenuante del risarcimento del danno.

Occorre infatti considerare che, in tema di reato continuato, se l'aumento che è possibile apportare ex art. 81 c.p., può raggiungere il triplo della pena base, non è sufficiente per la legalità del calcolo determinare la pena nell'ambito quantitativo previsto dalla legge, dovendo il giudice, nella motivazione, dare conto delle decisioni assunte su ogni aspetto dell'esercizio del suo potere discrezionale, ivi compresa la determinazione dell'aumento di pena per la continuazione (Sez. 2, n. 51731 del 19/11/2013, dep. 23/12/2013, Rv. 258108).

Deve inoltre richiamarsi la linea interpretativa ormai da tempo tracciata da questa Suprema Corte, secondo cui, in tema di continuazione, la circostanza attenuante dell'integrale riparazione del danno va valutata e applicata in relazione ad ogni singolo reato unificato nel medesimo disegno criminoso, che sotto questo profilo recupera la propria autonomia materiale, coerentemente con i limiti dell'unità giuridica del reato continuato. Ne consegue la valorizzazione della condotta riparatoria in riferimento anche soltanto a taluno dei singoli fatti di reato unificati per continuazione, con effetti sulla pena base quando il risarcimento riguardi il reato più grave e sugli aumenti di pena quando riguardi i reati satelliti (Sez. Un., n. 3286 del 27/11/2008, dep. 23/01/2009, Rv. 241755; Sez. 2, n. 39166 del 12/10/2011, dep. 28/10/2011, Rv. 251128).

Sulle diverse implicazioni sottese all'affermazione di tali principii di diritto e sulla loro applicazione ai fini della corretta dosimetria della pena irrogata all'imputato la Corte d'appello ha omesso di pronunziarsi, non essendo rinvenibili nella motivazione alcuna ragione giustificativa dei vari aumenti operati per la continuazione, nè alcuna spiegazione dell'incidenza sulla stessa esercitata, nei termini or ora precisati, dall'attenuante del risarcimento del danno.

Anche in relazione a tali profili, che si aggiungono a quelli già evidenziati in merito alla riqualificazione dei reati di cui ai capi suo A), B) e C) v., supra, il par. 7, s'impone, dunque, l'annullamento con rinvio dell'impugnata sentenza ai fini della rideterminazione del trattamento sanzionatorio in conformità al quadro di principii sopra delineato.

P.Q.M.


Riqualificati i reati di cui ai capi A), B) e C) ai sensi dell'art. 81 c.p., art. 314 c.p., comma 2, annulla la sentenza impugnata e rinvia per la rideterminazione della pena ad altra Sezione della Corte d'Appello di Venezia. Rigetta nel resto il ricorso.


Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2015.

Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2015.

da Altalex


Una sentenza che conferma ciò che si sapeva. (ASAPS)
 
Martedì, 15 Settembre 2015
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