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Reato di diffamazione a mezzo web: l’accertamento è possibile grazie alla tecnica ed alla logica

(Cas. Pen., sez. V, 6 agosto 2015, n. 34406)

La Suprema Corte, sez. V Penale, con sentenza del 8 giugno - 6 agosto 2015, n. 34406 affronta uno dei tanti casi di diffamazione realizzati a mezzo Internet dimostrando una particolare fiducia nei moderni mezzi di accertamento del reato tale da consentire di superare le rigidità dei tradizionali strumenti probatori.

Il caso di specie riguarda l’ex marito di una donna, che in esecuzione del medesimo disegno criminoso, posta su un sito web - in data 22/1/2008 e 27/7/2008 - due annunci apparentemente provenienti dalla ex-moglie, con i quali quest'ultima offriva prestazioni di natura sessuale, e diffonde, senza il consenso dell'interessata, i numeri di telefono della donna. A seguito del giudizio di primo grado dinanzi al Tribunale di Chieti e del successivo giudizio confermativo di Appello l’imputato viene accusato e condannato per reati di diffamazione (artt. 81, 110, 595 cod. pen. e 13 della legge sulla stampa) e trattamento illecito di dati personali (artt. 81 cod. pen. e 167 D.lvo 30/06/2003, n. 196).

La Corte di Cassazione, a seguito di ricorso, viene chiamata in causa dalla difesa dell’imputato al fine di esaminare l’attendibilità dei mezzi probatori fatti valere in giudizio in quanto i contestati messaggi pubblicitari risultano stampati senza ulteriori riscontri da parte degli organi giudiziari. Inoltre la difesa addentrandosi in questioni di carattere squisitamente tecnico sostiene che nessun accertamento sia stato svolto sul computer dell’imputato e sul disco fisso dello stesso, atto a riscontrare sia le connessioni, sia l'attività svolta dall'utilizzatore. La difesa, deduce, altresì, che l'indirizzo IP identifica, nella rete, un dispositivo che può disporre di più di una interfaccia, per cui nulla esclude che il router dell'imputato - non protetto da password - sia stato utilizzato da terzi (classico caso di wardriving).

La Suprema Corte rigetta il ricorso ritenendo estremamente affidabili gli accertamenti tecnici eseguiti dagli organi giudiziari che consentono, in particolare, di ritenere che l'annuncio diffamatorio è stato creato e messo in rete, in un preciso arco temporale da un dispositivo - collegato alla rete informatica - identificato dall' IP (Internet Protocol Address) associato, al router dell'imputato, allocato presso l'abitazione della madre e dove egli stesso, all'epoca, abitava. Il collegamento risulta, infatti, avvenuto attraverso l'utenza telefonica della madre. Tali elementi per la Suprema Corte sono incontestabili non solo per l’indubbia rilevanza di carattere tecnico, ma anche per un chiaro percorso di carattere logico-deduttivo visto che all'epoca, l'imputato era in dissidio con la moglie in ragione dell'attribuzione della casa familiare e dell'affidamento dei figli.

Di conseguenza per la Corte di Cassazione sono superate e quindi infondate tutte le critiche mossa dalla difesa sia sulla stampa del messaggio che sulle ulteriori "lacune probatorie" imputate agli inquirenti, che renderebbero incerta l'identificazione dell'autore del reato, in quanto gli indirizzi IP non sono associati - contrariamente all'assunto dei ricorrente - alle caselle di posta elettronica ma, per quanto si è detto, ai dispositivi (router, PC, palmare, ecc.) collegati alla rete; né avrebbe avuto senso indagare sui "nominativi" (indirizzi e-mail) utilizzati dall'autore del reato, dal momento che si è trattato, chiaramente, di nominativi di fantasia.

Completamente irrilevante, poi, sempre secondo la S.C., è l'affermazione che i "router" possono presentare più di un'interfaccia in quanto per la tipologia di impianti normalmente utilizzati presso le utenze domestiche, le diverse interfacce utilizzano indirizzi IP privati diversi, ma condividono un unico indirizzo IP verso la rete pubblica che consente l'identificazione del dispositivo cui è assegnato (in una determinata finestra temporale). Quanto all'eventualità del wardriving, per la Suprema Corte si tratta di mera ipotesi, del tutto congetturale, che è stata logicamente scartata in base alla considerazione che nessun altro aveva interesse a diffamare l’ex moglie dell’imputato.

 
La sentenza dimostra, quindi, un mutato atteggiamento della giurisprudenza della Suprema Corte che prende coscienza delle indubbie caratteristiche dell’attuale tecnologia di rete e si allontana definitivamente dalle prime pronunce ancora diffidenti verso lo strumento tecnologico. Ovviamente la decisione dimostra che c’è ancora molto da lavorare sul fronte tecnico-normativo, poiché di fronte alle contestazioni della difesa la Corte è costretta a ricorrere troppo spesso a presunzioni di carattere generale per superare eccezioni sia giuridiche che tecniche.
 
(Nota di Michele Iaselli)
 

Suprema Corte di Cassazione, 

Sez. V Penale, 

Sentenza 6 agosto 2015, n. 34406


Ritenuto in fatto

1. II Tribunale di Chieti, con sentenza confermata dalla Corte d'appello di L'Aquila, all'esito di giudizio abbreviato, ha ritenuto N.G. colpevole dei reati di diffamazione (artt. 81, 110, 595 cod. pen. e 13 della legge sulla stampa) e trattamento illecito di dati personali (artt. 81 cod. pen e 167 D.lvo 30/06/2003, n. 196), entrambi commessi in danno di F.E.N., e lo ha condannato a pena di giustizia, oltre al risarcimento dei danni in favore della persona offesa, costituita parte civile.
N. è accusato di avere, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, postato sul sito web (omissis) - in data 22/1/2008 e 27/7/2008 - due annunci apparentemente provenienti dalla ex-moglie, con i quali quest'ultima offriva prestazioni di natura sessuale, e di aver diffuso, senza il consenso dell'interessata, i numeri di telefono della donna. Alla base della decisione vi sono le dichiarazioni della persona offesa ed accertamenti di polizia, da cui è risultato - secondo i giudici - che gli annunci - sicuramente quello del 27/7/2008 - furono postati dall'imputato utilizzando una connessione INTERNET associata all'utenza telefonica fissa del luogo in cui risiedeva N.G. e intestata a C.E., madre dello stesso N..

2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell'interesse dell'imputato, l'avv. A.D.M., con due motivi. 2.1. Col primo lamenta una omessa motivazione in ordine alla valenza probatoria del primo messaggio pubblicitario, stampato da un'amica della persona offesa e da questa fornito alla polizia giudiziaria, senza che la polizia abbia riscontrato l'annuncio e nemmeno le tracce dello stesso. Lo stesso dicasi per il secondo annuncio, fornito anch'esso alla polizia dalla persona offesa. Lamenta che "l'amica" non sia stata ascoltata e nemmeno identificata, sicché non è dato sapere se la stampa fornita sia opera di terzi "che ben avrebbero potuto stampare il falso". Deduce che, sulla base delle caratteristiche della "rete", la stampa di un documento "può solo dimostrare che quel documento esisteva sul web ma ... la stessa stampa non coincide con quanto era effettivamente on-line a quella data e in quell'orario", allorché la stampa del documento non sia effettuata da un pubblico ufficiale con le garanzie di legge.

2.2. Con altro motivo lamenta che - nonostante l'autore dei fatto criminoso si sia nascosto dietro nominativi di fantasia - alcuna attività di indagine sia stata svolta sui titolari delle caselle e-mail associate agli indirizzi IP., né che indagini siano state svolte sui nominativi utilizzati dall'ignoto autore. Inoltre, che nessun accertamento sia stato svolto sul computer del N. e sul disco fisso dello stesso, atto a riscontrare sia le connessioni, sia l'attività svolta dall'utilizzatore. Ancora, deduce che - contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito - l'indirizzo IP identifica, nella rete, un dispositivo che può disporre di più di una interfaccia, per cui nulla esclude che il router dell'imputato - non protetto da password - sia stato utilizzato da terzi.
Infine, deduce che anche altri soggetti potevano avere interesse a diffamare F.E.N., quali il fratello e il figlio dell'imputato, che utilizzavano lo stesso computer.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato.

L'affermazione di responsabilità dell'imputato per i reati a lui ascritti è avvenuta sulla base dei seguente, lineare percorso: l'annuncio diffamatorio del 27/7/2008 fu creato alle ore 8,17 e fu messo in rete da un dispositivo - collegato alla rete informatica - identificato dall' IP (Internet Protocol Address) n. 93.147.107.31, associato, dalle ore 7,53 alle ore 8,20 del 27 agosto 2008, al router dell'imputato, allocato presso l'abitazione della madre e dove egli stesso, all'epoca, abitava. Il collegamento era infatti avvenuto attraverso l'utenza telefonica fissa 085-810903, intestata a Carmignani Ersilia, madre molto anziana di N.G.. All'epoca, l'imputato era in dissidio con la moglie in ragione dell'attribuzione della casa familiare e dell'affidamento dei figli. Inoltre, nessun altro in grado di maneggiare un computer abitava nella casa, a parte, durante i periodi di affidamento al padre, i figli minori, che non avevano, comunque, alcuna ragione di insolentire la madre. Per quanto riguarda l'annuncio del 22/1/2008 - non riconducibile ad uno specifico dispositivo di rete, per via della cancellazione dei dati di identificazione da parte del gestore telefonico - i giudici hanno ritenuto che esso, per le caratteristiche sue proprie e per il fatto che era praticamente sovrapponibile a quello del 27 agosto 2008, non poteva che provenire dall'imputato, già all'epoca mosso dallo stesso astio verso la moglie. Trattasi di un percorso che si lascia apprezzare per aderenza a regole tecniche e a quelle della logica, posto che, effettivamente, l'Internet Protocol Address consente di risalire, senza possibilità di equivoci, al dispositivo informatico (elaboratore o PC) - in questo caso, il PC dell'imputato collegato alla rete informatica - utilizzato per appostare l'annuncio diffamatorio. Nessuna efficacia dirimente hanno, sul punto, le osservazioni del ricorrente, giaAché è solo assertiva l'affermazione che non siano stati accertati l'ora e il giorno in cui è stato appostato l'annuncio del 27 agosto 2008, posto che la sentenza dà conto esattamente del contrario (pag. 4); fatto, questo, che toglie rilevanza a tutte le disquisizioni sulla "stampa" della pagina web in cui era riprodotto l'annuncio, sui soggetti che la effettuarono e le modalità con cui fu effettuata, dal momento che l'accertamento è avvenuto direttamente presso il gestore telefonico. Parimenti infondate sono le critiche riferite alle "lacune probatorie" imputate agli inquirenti, che renderebbero incerta l'identificazione dell'autore del reato, in quanto gli indirizzi IP non sono associati - contrariamente all'assunto dei ricorrente - alle caselle di posta elettronica ma, per quanto si è detto, ai dispositivi (router, PC, palmare, ecc.) collegati alla rete; né avrebbe avuto senso indagare sui "nominativi" (indirizzi e-mail) utilizzati dall'autore del reato, dal momento che si è trattato, chiaramente, di nominativi di fantasia.

Inoltre, nessun rilievo ha il fatto che non siano stati effettuati accertamenti sul computer di N., dal momento che il collegamento alla rete potrebbe essere stato effettuato con qualsiasi Personal Computer collegato alla terminazione di rete (Modem o Modem/Router) della linea telefonica fissa 085-810903, istallata presso l'abitazione della madre. Completamente irrilevante, poi, è l'affermazione che i "router" possono presentare più di un'interfaccia: osservazione esatta, che non contraddice in alcuna maniera, però, la ricostruzione operata dal giudicante, giacché in questo caso, per la tipologia di impianti normalmente utilizzati presso le utenze domestiche, le diverse interfacce utilizzano indirizzi IP privati diversi, ma condividono un unico indirizzo IP verso la rete pubblica e, come detto sopra, tale indirizzo IP pubblico consente l'identificazione del dispositivo cui è assegnato (in una determinata finestra temporale). Quanto all'eventualità che un ignoto buontempone si sia collegato abusivamente al terminale di N., approfittando del fatto che la connessione non era protetta da password, si tratta di mera ipotesi, del tutto congetturale, che è stata logicamente scartata in base alla considerazione che nessun altro aveva interesse a diffamare la F.. A ciò deve aggiungersi la constatazione che, ammesso che il modem installato presso l'imputato gestisse una rete WI-FI attiva nell'arco temporale sopra indicato e non fosse protetto da password, la connessione avrebbe dovuto instaurarsi nelle immediate adiacenze dell'abitazione dell'imputato (la copertura di rete di un normale router domestico non supera, normalmente, i 20 metri) e da parte di un soggetto che conosceva le abitudini e il cellulare della vittima: circostanza che rende inverosimile l'ipotesi, posto che in questo caso si sarebbe dovuto trattare di un soggetto appostato a ridosso della casa dell'imputato e, quindi, a lui ben noto. Priva di logica e di aderenza al senso comune è stata correttamente ritenuta, infine, l'affermazione che autore dei reato possa essere stato il fratello dell'imputato o uno dei figli di quest'ultimo: per quanto riguarda il primo, perché non è dato sapere se abitava nella stessa casa del N. e quale interesse avesse a diffamare la ex-cognata; per quanto riguarda i secondi, perché è effettivamente inverosimile che ragazzini, poco più che bambini, possano aver tenuto comportamenti tanto gravi nei confronti del genitore cui eran affidati.

Segue il rigetto dei ricorso atteso che i motivi proposti, pur se non manifestamente inammissibili, risultano infondati per le ragioni sin qui esposte; ai sensi dell'art. 592 c.p.p., comma 1, e art. 616 c.p.p il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché a quelle di difesa della parte civile, che si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenuta dalla parte civile, che liquida in euro 2.000, oltre accessori come per legge.
 
 
 
Lunedì, 26 Ottobre 2015
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