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Definirla
notte da lupi, quella dell’8 dicembre, sarebbe un eufemismo.
Il vento sferzava i viadotti della Salerno-Reggio Calabria, dalle
parti di Lamezia Terme, mentre la foschia e una pioggia da diluvio
universale giocavano nell’aria gelida che piegava i fusti e
le chiome degli alberi fino a terra e poi di nuovo verso il cielo,
rotto dai lampi e dai boati tondi del temporale. I pochi avventurosi
che ancora si attardavano in quella notte da tregenda concentravano
lo sguardo su quella piccola porzione di strada che i fari riuscivano
ad illuminare, dietro occhi affaticati dai riflessi della nebbia
e dei vetri appannati, su cui insistevano, testardi, i tergicristalli.
C’è una pattuglia, nel sentiero della tempesta, che
percorre l’autostrada solitaria, come una motovedetta nella
mareggiata. A bordo ci sono due veterani, ragazzi che ne hanno viste
di cotte e di crude: Erberto Lomongiello e Giovanni Borreca. A bordo
dell’auto di servizio regna un silenzio irreale, e l’attenzione
è tutta in avanti, al di fuori del parabrezza, con gli stivali
puntellati in avanti e le mani salde su un appiglio sicuro. Era
come se i due uomini della Stradale se lo sentissero, che qualcosa
stava per accadere, e cercavano di godersi il microclima confortevole
dell’abitacolo istante per istante, come se sapessero che quello
poteva essere l’ultimo.
Sarà il sesto senso, sarà veggenza pura o tanta esperienza,
ma accade sempre.
La Marea esce dalla galleria e la folata di vento la investe come
una bordata partita da una corrazzata. Sbanda solo per un attimo,
prima che le mani salde dell’autista giochino con lo sterzo
e correggano la rotta. Ma la deviazione illumina il guardrail, che
appare sfondato. Ci siamo.
L’auto si ferma all’istante, lampeggianti accesi, luci
di emergenza tutte azionate. Gli agenti scendono dall’auto
e si avvicinano al bordo slabbrato della barriera, sospesi nel vuoto
a 130 e passa metri d’altezza. Troppo buio, troppo vento.
Il fascio della pur potente torcia muore dopo pochi metri, come
se dal buio del profondo qualcosa ricacciasse verso l’alto
la luce della Maglite.
Per un attimo, il raggio sembra vincere gli elementi e scende fino
agli alberi, fino a centrare per un attimo qualcosa che riflette
una luce rossa. Un diottro, forse, o un faro.
Scatta l’allarme, perché chi ha sfondato l’acciaio
non può essere rimasto in strada, e se è volato di
sotto, è ancora laggiù, inghiottito dal nero pece
di quel burrone.
Il COA annota l’orario della chiamata, le 2 in punto, mentre
un’altra macchina della Stradale, con a bordo Alberto Lacalamita
e Francesco Ruggiero, spinge il gas per dare manforte ai colleghi
e mentre una squadra dei Vigili del Fuoco parte da Cosenza per raggiungere
il luogo della chiamata.
Passano pochi minuti e arrivano. Le voci sembrano spegnersi ad ogni
colpo di bufera, poi tre agenti salgono su un’auto e schizzano
fuori dall’autostrada, per raggiungere la base del viadotto,
presidiato da un solo poliziotto e illuminato a giorno coi fari
della pattuglia.
Un faro, un punto di riferimento.
Così, mentre si cerca di capire cosa è successo, il
terzetto di soccorritori in divisa cerca di aprirsi un varco nelle
strade sterrate poderali, in quelle asfaltate e interrotte da una,
due fino a tre frane.
Il rendezvous con i Vigili del Fuoco avviene in aperta campagna,
dove è impossibile proseguire: tutti si caricano di corde,
mototroncatrici, divaricatori, kit di soccorso sanitario.
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In
fila indiana, come soldati in una jungla infestata di nemici, gli
eroi della notte di bufera, si inerpicano per tre chilometri sul
costone di un fiume in piena. Poi la roccia sbarra loro il passo,
e allora comincia una scalata, coi pompieri SAF che si avvantaggiano
nella boscaglia, ripida e scivolosa di fango, piena di rovi e vegetazione
crollata, e che stendono una corda per ritrovare la strada.
Sbagliano sentiero più volte, ma dopo il vicolo cieco tornano
indietro, più volte, seguendo la luce della pattuglia ferma
sul viadotto come farebbe un marinaio con la stella polare, fino
a quando l’ultimo colpo di ascia taglia l’ultima barriera
vegetale che li divide da un ammasso di lamiere. C’è
puzza di gasolio ovunque, e quel che resta della cabina di un tir
penzola pericolosamente sull’orlo di un altro burrone.
Forse gli albero ne hanno attutito lo schianto, perché un
angolo di cabina è ancora integro. Alberto La Calamita si
lega la corda in vita e si cala fino a entrare dentro la carcassa
di quel Tir.
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È
un inferno di detriti, di vetri rotti, di acciaio piegato. Una persona
è incastrata là dentro, immobile. L’occhio è
di quelli esperti, e Alberto capisce subito.
Non è bastato, stavolta, quel colpo d’occhio vigile
sul guardrail, non è stata sufficiente la testardaggine di
chi, per professione, soccorre.
Troppi, quei 130 metri di volo, anche se per un attimo la Provvidenza
pareva essere stata clemente, con un angolo di cabina scampata miracolosamente
alla violenza dell’impatto.
Così, i quattro angeli, nella notte della tempesta, si sono
prodigati per salvare una vita che ormai era fuggita. Hanno lavorato
sodo, da veri eroi quali sono, insieme ai Vigili del Fuoco, spiegando
con tristezza a Tommaso Azzarrito ed al loro comandante Francesco
Manzo, ciò che doveva essere accaduto.
Siamo vicini, noi della redazione, ai colleghi di Lamezia, e ringraziamo
il collega Azzarrito di averci raccontato questa tragica avventura
e di averci ricordato di quanta generosità siano capaci i
nostri ragazzi migliori.
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