Giovedì 18 Luglio 2024
area riservata
ASAPS.it su
Notizie brevi 01/04/2016

Nuove depenalizzazioni tra privatizzazione della pena e pubblicizzazione del risarcimento

Sommario: 1. Il diritto penale come extrema ratio –  2. Depenalizzazione espressa o praeter legem? –  3. Reati depenalizzati solo in parte: problemi di diritto intertemporale – 4. Sanzioni amministrative e sanzioni civili. – 5. Sanzioni pecuniarie civili e  danni punitivi. – 6. Sanzioni pecuniarie civili e “pene private”. – 7. Che natura hanno dunque le sanzioni pecuniarie civili? – 8. I requisiti della pena nella giurisprudenza della CEDU: c’è stata davvero depenalizzazione? – 9. Conclusioni: possibili sviluppi e garanzie costituzionali.

1. Il diritto penale come extrema ratio

La legge delega n. 67/2014
ed i relativi decreti attuativi di “depenalizzazione” emanati nei primi giorni di quest’anno affondano le loro radici nell’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale degli ultimi trent’anni e segnatamente nei principi costantemente ribaditi dalla Corte Costituzionale e compendiati nella sentenza n. 487 del 25.10.1989 (in G.U. 2.11.1989 n. 44).

Nell’ambito di tale pronuncia, la Corte ha precisato che il principio costituzionale di riserva di legge in materia penale (art. 25 Cost.) dev’essere inteso come “mezzo per adeguate, ben definite e, pertanto, limitate scelte criminalizzatrici” e che “la criminalizzazione, costituendo l'ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte degli altri rami dell'ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire”[1].

La Corte ha inoltre evidenziato che le scelte legislative in materia penale debbono essere costantemente rispettose dei principi di i principi di sussidiarietà, proporzionalità e frammentarietà dell'intervento penale, i quali impongono che: a) il diritto penale intervenga soltanto allorché non venga offerta adeguata tutela a determinati beni da parte degli altri rami dell'ordinamento; b) sussista un rapporto di proporzione, ovvero di congruenza degli strumenti normativi rispetto alle finalità da perseguire; c) l’intervento penale abbia natura “puntiforme”, ovvero intervenga soltanto in presenza di seri e concreti vuoti di tutela.

Con la citata legge delega e, soprattutto, con i decreti legislativi nn.  7 e 8 del 2016, il Legislatore pare avere recepito i principi espressi dalla Corte Costituzionale ed ha dato corso ad un consistente programma di “sfoltimento” dei fatti penalmente rilevanti, abrogando definitivamente fattispecie ormai obsolete[2] e “derubricando” in illeciti amministrativi (o civili) fatti ormai non più sintomatici di un apprezzabile allarme sociale (si pensi, ad esempio all’appropriazioni di cose smarrite o alla guida senza patente).

In attuazione di tali principi, il legislatore delegato ha stabilito l’abrogazione di una serie di reati previsti dal codice penale o dalle norme speciali tassativamente indicati (artt. 1, 2 d.lgs 7/2016, artt. 1 c. 3, 2, 3 d.lgs. 8/2016) nonché una “norma di chiusura” secondo cui “non  costituiscono  reato  e  sono   soggette   alla   sanzione amministrativa  del  pagamento  di  una  somma  di  denaro  tutte  le violazioni per le quali è prevista  la  sola  pena  della  multa  o dell'ammenda” (art. 1 c. 1 d.lgs. 8/2016).

Tale complesso normativo dà attuazione alla disposizione dell’art. 2 l. 67/2014 (legge delega recante “Deleghe  al  Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del  sistema sanzionatorio.   Disposizioni   in   materia   di   sospensione   del procedimento  con  messa   alla   prova   e   nei   confronti   degli irreperibili”) e consente di chiarire come il criterio fondamentale applicato dal legislatore per mettere in atto il principio costituzionale dell’extrema ratio sia proprio quello di valorizzare il trattamento sanzionatorio, ritenendo cioè non meritevoli di rilievo penale quei fatti per i quali l’unica sanzione attualmente prevista dalla legge consiste nella sola pena pecuniaria.

2. Depenalizzazione espressa o praeter legem?

Un simile approccio argomentativo potrebbe – in ipotesi – condurre a ritenere che il legislatore abbia esplicitato una chiara volontà di escludere dal penalmente rilevante tutti quei reati che attualmente sono puniti con la pena pecuniaria, siano essi espressamente indicati in una norma abrogatrice delegata oppure no.

Si tratta della c.d. “immediata efficacia abrogativa” della delega di depenalizzazione, evocata da alcune pronunce (sempre e solo di merito) anche della giurisprudenza locale, che prende le mosse dalle argomentazioni della Corte Costituzionale circa la possibilità di escludere comunque il «rilievo penale a condotte apparentemente tipiche quando, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice esse risultino in concreto prive di significato lesivo» (Corte Cost. 333/1991 e 139/2014).

Facendo applicazione di tali principi, una giurisprudenza astigiana ha escluso la rilevanza penale delle condotte in allora punite dall’art. 2-bis d.l. 463/1983, ben prima dell’entrata in vigore dei decreti di depenalizzazione, sul presupposto che «non è più previsto dalla legge come reato, per “legge” intendendosi, nel solco della giurisprudenza CEDU, la combinazione ermeneutica del decisum di un organo superiorem non recognoscens quale la Corte Costituzionale e di una volontà popolare espressa e inequivoca»[3].

Seguendo tale approccio ermeneutico, si potrebbe ad oggi sostenere l’abrogazione, tra l’altro, del c.d. reato di clandestinità, punito con la sola pena pecuniaria ma escluso dai decreti delegati di recente emanazione.

Occorre però ribadire che allo stato queste restano soltanto delle suggestioni argomentative, avendo la Cassazione costantemente e inequivocamente ribadito che l’effetto abrogativo può discendere solo e soltanto da un provvedimento espresso emanato dall’Esecutivo in attuazione della delega legislativa[4].

Occorre pertanto sgomberare il campo da possibili effetti abroganti ulteriori o impliciti dei decreti delegati e concentrarsi sull’elenco dei reati effettivamente depenalizzati.

3. Reati depenalizzati solo in parte: problemi di diritto intertemporale


A tal proposito è rilevante notare che, oltre a quelli espressamente nominati e quelli puniti con la sola pena della multa o dell’ammenda (art. 1 c. 1 d.lgs. 8/2016), la depenalizzazione opera anche per i reati previsti dal decreto “che, nelle ipotesi aggravate, sono puniti con la pena detentiva, sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria. In tal caso, le ipotesi aggravate sono da ritenersi fattispecie autonome di reato” (art. 1, co. 2).

Si ritiene che la disposizione sia stata introdotta per evitare gli effetti del principio generale desunto dalla giurisprudenza dall’art. 32, comma 2, l. n. 689/1981[5] per cui i provvedimenti di depenalizzazione, in mancanza di espressa disposizione, non coinvolgono reati punibili, nelle ipotesi aggravate, con pena detentiva, anche se congiunta o alternativa a pena pecuniaria (Cass. SU, 17/07/1995 n. 7930, rv. 201550; Cass. Sez. 3, 03/03/1997 n. 135, rv. 207890; Cass. Sez. 3, 05/01/2000 n. 3274, rv. 215348).

Con riferimento a tali ipotesi di reato (come pure per il secondo comma dell’art. 527 c.p.) va dunque verificata l’eventuale operatività del principio del favor rei per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore dei decreti di depenalizzazione nel caso di concessione di attenuanti.

In tali casi, infatti: a) il primo comma è depenalizzato; b) il secondo comma è trasformato da ipotesi aggravata a fattispecie autonoma punita con la medesima pena calcolando l’aumento oggi previsto.

La trasformazione da aggravante “ad effetto speciale” (ex art 63 co. 3) in autonoma ipotesi di reato comporta un concreto effetto nel caso di giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p., in quanto nella disciplina previgente l’equivalenza o la prevalenza delle attenuanti eventualmente riconosciute consentiva di determinare la pena sulla base di quanto previsto dal primo comma (sola pena pecuniaria).

Gli effetti maggiormente favorevoli della “vecchia” formulazione normativa, portano a concludere per l’applicabilità della disciplina previgente anche ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore dei decreti di depenalizzazione in presenza di un concreto bilanciamento fra circostanze.

Del resto la Corte Costituzionale ha costantemente ribadito che “la norma del codice penale deve essere interpretata, ed è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte (e da quella di legittimità), nel senso che la locuzione “disposizioni più favorevoli al reo” si riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato (sentenze n. 455 e n. 85 del 1998; ordinanze n. 317 del 2000, n. 288 e n. 51 el 1999, n. 219 del 1997, n. 294 e n. 137 del 1996)” (Corte Cost. n. 393/2006, in G.U. del 29/11/2006 n. 47)

Dunque, per i fatti commessi fino al 5 febbraio 2016, nel caso di giudizio ex art. 69 c.p. con equivalenza o prevalenza dell’attenuante, occorre fare applicazione  della normativa maggiormente favorevole al reo e pertanto determinare la pena partendo dalla pena base prevista dalla norma nella sua formulazione anteriore alla depenalizzazione (es. art. 527 c. 1 c.p.).

Del pari, può verificarsi che una fattispecie preveda la sola pena pecuniaria quale attenuante dell’ipotesi base punita con pena detentiva (sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria). Trattasi di ipotesi che, per quanto risulta, non sono ricorrenti. Ad esempio, nel codice penale (ferma restando l’esclusione dalla depenalizzazione delle ipotesi punite con la sola pena pecuniaria a eccezione dell’art. 726) non sembrano essere presenti. Sembra che in tale caso possa privilegiarsi un’interpretazione diretta a fare ritenere la disposizione non esclusa dalla depenalizzazione “generalizzata”. La volontà di esclusione di specifiche fattispecie punite con sola pena pecuniaria (comunque configurata, ipotesi autonoma o attenuata) è state espressa indicando espresse esclusioni (per materie e testi).

 

4. Sanzioni amministrative e sanzioni civili

Le norme di depenalizzazione hanno diviso in due grandi gruppi i fatti la cui rilevanza penale è venuta meno: quelli oggi puniti con sanzioni amministrative e quelli invece oggetto di “sanzione pecuniaria civile”.

Il nostro ordinamento aveva già conosciuto diverse stagioni di “depenalizzazione” caratterizzate dalla trasmigrazione di fatti illeciti dall’ambito del penalmente irrilevante a quello dell’illecito amministrativo, ma mai era stata utilizzata, in precedenza, la categoria della “sanzione pecuniaria civile”.

Potrebbe trattarsi del definitivo ingresso, nel nostro ordinamento, della figura propria del diritto anglosassone dei c.d. “punitive damages”, la cui funzione è stata individuata nella “coazione all’adempimento”, ossia una “sanzione per il responsabile, così che il profilo della coazione ad adempiere si configura con riguardo ad altri potenziali danneggianti o danneggiati”[6].

A tal proposito, le norme degli artt. 3 e seguenti d.lgs. 7/2016 contengono una prima disciplina organica della sanzione pecuniaria civile nel nostro ordinamento, stabilendo in particolare:

- che i fatti illeciti oggetto di depenalizzazione, “se dolosi, obbligano, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita”  (art . 3);

- che si osserva la  disposizione  di  cui  all'articolo  2947,  primo comma, del codice civile, quanto al termine quinquennale di prescrizione della pretesa relativa all'inflizione della sanzione pecuniaria (art. 3 c. 2);

- i criteri di commisurazione delle sanzioni pecuniarie, stabiliti dall’art. 5 e mutuati in gran parte dall’art. 133 c.p., ossia:

a) gravità della violazione;

b) reiterazione dell'illecito; 

c) arricchimento del soggetto responsabile;

d) opera svolta dall'agente  per  l'eliminazione  o  attenuazione delle conseguenze dell'illecito;

e) personalità dell'agente;

f) condizioni economiche dell'agente;

- la disciplina per l'ipotesi di recidiva, denominata ”reiterazione dell'illecito” (art. 6);

- la disciplina processuale, individuata, in quanto compatibile, nel codice di procedura civile, con espressa indicazione del giudice competente in quello che conosce dell'azione per il risarcimento del danno: la sanzione punitiva civile può essere infatti irrogata solo sul presupposto che il giudice civile accolga la domanda di risarcimento del danno (art. 8);

- le modalità del pagamento della sanzione (artt. 9 e 10), demandando ad un decreto ministeriale di regolarne termini e modalità, fermo restando che: la somma è devoluta alla cassa delle ammende (e non pertanto al danneggiato), è possibile il pagamento rateizzato, non è ammessa alcuna forma di copertura assicurativa, l'obbligo non è trasmissibile agli eredi.

5. Sanzioni pecuniarie civili e danni punitivi

La disciplina della “sanzione pecuniaria civile” costituisce la novità di maggior rilievo introdotta dai decreti di depenalizzazione, soprattutto tenuto conto del precedente orientamento pluriconsolidato della Cassazione Civile, che aveva costantemente ritenuto “incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto dei danni punitivi”[7], per contrarietà all’ordine pubblico interno.

Vale la pena di sottolineare come la Cassazione, con la prima delle pronunce che avevano negato la delibazione di sentenze straniere contenenti una voce di condanna a danni punitivi, si era ampiamente ispirata alle argomentazioni addotte allo stesso fine da una sentenza tedesca del 1992, con la quale il Bundesgerichthof, nel negare l'exequatur a una pronuncia statunitense di condanna di un cittadino tedesco - che in primo grado era stata dichiarata esecutiva dal Landgericht di Dusseldorf - aveva affermato che la natura di «pena privata» dei punitive damages si pone in contrasto con i princìpi fondamentali dell'ordinamento tedesco, in quanto il Grundgesetz sancisce il monopolio del giudice penale in materia di sanzioni.

I punitive damages del diritto nordamericano per contro si collegano alla condotta dell'autore e si caratterizzano per un obiettiva (e non giustificata) sproporzione fra danno arrecato ed importo liquidato. Il che contrasta con il principio ordinamentale che nega al risarcimento un carattere punitivo, restando tendenzialmente indifferente le connotazioni della condotta causativa. Ciò vale anche per il danno non patrimoniale.

I danni punitivi (del diritto anglosassone) non tanto riparano i pregiudizi patrimoniali patiti dal danneggiato, ma costituiscono una punizione per la condotta del danneggiante, agendo il privato attore in una sorta di surroga alla potestà pubblica nel richiedere (ed ottenere dal giudice) una misura patrimoniale afflittiva nei confronti dell'autore dell'illecito, in funzione deterrente, con la non trascurabile singolarità che del sacrificio patrimoniale del condannato non beneficia la collettività, ma il danneggiato.

Fenomeno inammissibile per i principi generali nazionali, che non tollerano che l'illecito

costituisca occasione di locupletazione.

L'esercizio privato di una potestà pubblica assumerebbe connotazioni penalistiche e si porrebbe in contrasto con l'ordine pubblico italiano.

Peraltro anche la Corte Suprema degli Stati Uniti ha avuto modo di pronunciarsi negativamente nei confronti di una condanna a danni punitivi, sulla base del criterio dell'eccessività e della proporzionalità[8].

Quanto al profilo funzionale, la dottrina dominante ritiene che i danni punitivi assolvano ad almeno cinque differenti funzioni e che «each function [...] would have rules and limits that make no sense if one examines punitive damages through the prism of a different function». Fra le cinque funzioni[9], si propende per una netta opzione a favore della coesistenza tra deterrence e compensation.

Siamo quindi di fronte alla nascita, nel nostro ordinamento, di un “ibrido”, cioè una categoria giuridica che va a collocarsi al confine fra il civile ed il penale, mostrando caratteristiche tipiche dell’una e dell’altra branca del diritto? I decreti di depenalizzazione hanno veramente introdotto nel nostro ordinamento la figura dei danni punitivi, portando così ad un radicale ribaltamento dell’orientamento da sempre propugnato dalla Corte di Cassazione, con conseguente rivalutazione dei presupposti dell’ordine pubblico interno del nostro ordinamento (esplicitamente evocato dalla S.C. come limite al riconoscimento, in Italia, dei danni punitivi)?.

6. Sanzioni pecuniarie civili e “pene private”

Nello scandagliare i contributi degli autori che si sono occupati del tema della depenalizzazione e delle possibili alternative al sistema sanzionatorio penale, emergono con estrema attualità le parole di Franco Bricola.

L’autore, oltre trent’anni or sono, nel prendere atto della «sempre più vivace propensione alla depenalizzazione», manifestava il convincimento che «in tale ottica l'esistenza di sanzioni civili più adeguate, etichettate o meno come “pene private”, sembra auspicabile»; e osservava in particolare che «sul terreno dei diritti della personalità la tutela sanzionatoria civile, rafforzata secondo le tendenze “punitive emergenti”, potrebbe intervenire [...] addirittura con un ruolo esclusivo laddove la tecnica della tipicizzazione [...] del diritto penale finisce per lasciare scoperte zone che reclamano protezione»[10].

Le parole di Bricola sembrano profetiche se lette ad oltre trent’anni di distanza: “è sufficiente sottolineare alcuni tratti salienti che ricorrono nella tipologia normativa e in quella che si auspica diventi tale: l’essere la figura di pena privata posta a tutela di interessi privati e destinata, salve talune eccezioni a tradursi a beneficio dei privato e non dell’erario (profilo, questo, che potrebbe assurgere a criterio distintivo nei confronti della sanzione pecuniaria penale e amministrativa); l’essere applicata, inoltre, tramite il filtro giudiziale e su iniziativa della parte danneggiata o esposta a pericolo (in contrapposizione con il principio di obbligatorietà dell’iniziativa pubblica operante, pur con la peculiarità delle ipotesi perseguibili a querela di parte, per l’illecito penale e per l’illecito amministrativo; ed infine, l’essere la pena privata — ed è un dato di sintesi — contrassegnata dal fine preventivo ed afflittivo, in forma esclusiva o prevalente, e non da una finalità meramente riparatoria”. Inoltre “la prospettiva di un incremento delle alternative (civilistiche) di tutela consente di dare corpo alla tendenza ad attribuire al diritto penale un ruolo di extrema ratio (concezione sussidiaria del diritto penale), nella convinzione che il diritto penale debba riacquistare il suo ruolo di strumento eccezionale per la tutela  frammentaria a di beni giuridici essenziali per l’esistenza e per lo sviluppo della comunità statuale. Il tema della sussidiarietà del diritto penale e delle relative tecniche sanzionatorie è stato prevalentemente, salvo alcune eccezioni, negli ultimi tempi sviluppato avendo presenti, come alternativa principale, le tecniche sanzionatorie di carattere amministrativo. A ciò hanno contribuito sia i lunghi lavori preparatori sia il varo della legge 689 del l981, la quale compie un primo tentativo di definire i principi generali sia dell’illecito depenalizzato e amministrativo sia delle relative sanzioni”.

Lo stesso Bricola metteva in guardia, già trent’anni or sono, dagli stessi pericoli che ancora oggi si annidano dietro alle “pene” civilistiche: “si è posto l’accento sulla maggiore duttilità delle tecniche di tutela civilistica, data anche la carenza di vincoli costituzionali in tema di illecito e di responsabilità civile. Assenza di vincoli in ordine alle fonti, meno accentuata esigenza di  tipicità  e di tassatività, possibilità di prescindere dal requisito della colpevolezza. mediante la possibilità di delineare forme di responsabilità imperniate sul  rischio” chiedendosi nel contempo se “i principi di legalità e di tassatività e di personalità della responsabilità (nel senso più ristretto o nel senso più ampio coincidente con il principio nulla poena sine culpa) divengono coessenziali (e in che limiti) ad una responsabilità civile così articolata?” specificando che “un decisivo peso nella soluzione del quesito prospettato potrebbe derivare dall’accoglimento dell’interpretazione diretta ad estendere la portata degli art. 25, 2 comma, e 27, 1 comma,

Cost. a tutte le sanzioni di stampo afflittivo e non meramente rivolte s ripristinare un equilibrio economico alterato dall’illecito. La legge 689 del 1981, nell’affermare il principio di legalità, il divieto di analogia e il principio di colpevolezza per l’illecito depenalizzato (e amministrativo), è stata considerata come una conferma di tale assunto Istituzionale.

Le premesse costituzionali legittimanti il concetto di «pena privata» potrebbero ravvisarsi, piuttosto che sul piano della portata estensiva degli artt. 25, comma 2, e 27 Cost., direttamente in un riferimento all'art. 23 Cost. È ancora Franco Bricola ad additare questa prospettiva interpretativa sostenendo che detta norma «potrebbe essere riferita alle forme di pena privata ovvero di sanzioni civili aventi a contenuto una prestazione patrimoniale non commisurata soltanto al danno o che dallo stesso prescinda».

7. Che natura hanno dunque le sanzioni pecuniarie civili?

Alla luce di quanto precede, occorre chiedersi quale natura (e conseguentemente quale disciplina) debba riconoscersi alle sanzioni pecuniarie civili di recentissima introduzione. Se cioè le stesse siano assimilabili ai danni punitivi della tradizione nordamericana ovvero a vere e proprie pene private.

La Suprema Corte, pur premettendo che i danni punitivi hanno finalità sanzionatoria e (appunto) punitiva (Cass Civ. Sez. 3, n. 1183/2007, cit.) aveva chiaramente indicato, fra i requisiti tipici dei danni punitivi quello dell’arricchimento del danneggiato in misura superiore al danno patito, con finalità punitive del danneggiante (Cass. Civ. Sez. 1, 1781/2012, cit.).

La dottrina nordamericana insiste per la coesistenza, nei punitive damages, delle funzioni di deterrence e compensation.

Il decreto n. 7/2016 prevede testualmente, all’art. 10, che “il provento della  sanzione  pecuniaria  civile  è  devoluto  a favore della Cassa delle ammende”.

Tale ultima previsione legislativa esclude chiaramente che le nuove sanzioni pecuniarie civili abbiano una funzione di “compensation” e che quindi le stesse esplichino la loro funzione “deterrente” o punitiva tramite un arricchimento del danneggiato in misura eccedente il danno patito.

Al contrario, la norma prevede he sia lo Stato ad “arricchirsi” a seguito del danno subito al cittadino, in quanto la sanzione pecuniaria civile viene devoluta (con modalità ancora da definire) a favore della Cassa delle Ammende.

Il che porta a concludere per una natura di vere e proprie “pene private” in capo alle sanzioni pecuniarie civili, con conseguente necessità di determinare il perimetro entro cui tale nuova formula sanzionatoria può districarsi.

Nulla poena (privata) sine praevia lege, anzitutto.

Il legislatore dovrebbe formulare regole chiare in tre direzioni.

Dovrebbe anzitutto chiarire che la regola all'uopo dettata ha funzione prettamente sanzionatoria: è sganciata da un diretto riferimento all'effettivo pregiudizio (eventualmente) subito dalla vittima dell'illecito, ma deve raccordarsi con la gravità dell'offesa arrecata e presuppone una condotta intenzionale dell'offensore.

Dovrebbe, altresì, procedere a una rigorosa tipizzazione dell'illecito o degli illeciti a cui intende riferirsi ed eventualmente indicare parametri prefissati di quantificazione, al fine di assicurare obiettivi di legalità e di certezza compatibili con i princìpi generali del diritto civile. Dovrebbe, infine, dettare criteri operativi per una corretta applicazione, caso per caso, della regola.

Potrebbe risultare utile a questo riguardo, prevedere un criterio di commisurazione della sanzione che faccia in modo di assicurare la funzione preventiva e deterrente dell’istituto, senza scadere in forme di “terrorismo” sanzionatorio che renderebbero l’istituto deteriore rispetto alla sanzione penale.

8. I requisiti della pena nella giurisprudenza della CEDU: c’è stata davvero depenalizzazione?

L’introduzione di sanzioni amministrative fortemente afflittive e sanzioni civili con eminente finalità punitiva portano a chiedersi se l’effetto della norma abrogata sia stato proprio quello di “depenalizzare” certi fatti, oppure si sia solamente realizzata una sorta di restyling, una cambiamento di denominazione, efficace dal punto di vista “estetico” ma non altrettanto dal punto di vista sostanziale.

Occorre premettere che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha costantemente ribadito il valore meramente indicativo della formale qualificazione giuridica di una sanzione come penale piuttosto che amministrativa[11], dovendosi invece fare riferimento ad indici concreti quali la natura dell’infrazione sanzionata, la gravità della sanzione, la durata, le modalità d’esecuzione della stessa, nonché il rischio di un “pregiudizio importante” in capo al sanzionato[12].

I principi enucleati dalla CEDU nel corso di un’elaborazione ultratrentennale sono compendiati nella sentenza emessa nel c.d. caso Grande Stevens, ove la Corte ha specificato che[13] “al fine di stabilire la sussistenza di una «accusa in materia penale», occorre tener presente tre criteri: la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest'ultima, e la natura e il grado di severità della «sanzione» (Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 82, serie A n. 22). Questi criteri sono peraltro alternativi e non cumulativi: affinché si possa parlare di «accusa in materia penale» ai sensi dell'articolo 6 § 1, è sufficiente che il reato in causa sia di natura «penale» rispetto alla Convenzione, o abbia esposto l'interessato a una sanzione che, per natura e livello di gravità, rientri in linea generale nell’ambito della «materia penale». Ciò non impedisce di adottare un approccio cumulativo se l'analisi separata di ogni criterio non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale» (Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, §§ 30 e 31, CEDU 2006-XIII, e Zaicevs c. Lettonia, n. 65022/01, § 31, CEDU 2007-IX (estratti)”.

Proprio nel citato caso Grande Stevens, la Corte è giunta ad una conclusione di estrema importanza, stabilendo che “il carattere penale di un procedimento è subordinato al grado di gravità della sanzione di cui è a priori passibile la persona interessata (Engel e altri, sopra citata, § 82), e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta (Dubus S.A., sopra citata, § 37). Per di più, nel caso di specie … le ammende erano, visto il loro ammontare, di una innegabile severità che comportava per gli interessati conseguenze patrimoniali importanti. Alla luce di quanto è stato esposto e tenuto conto dell'importo elevato delle sanzioni pecuniarie inflitte e di quelle di cui erano passibili i ricorrenti, la Corte ritiene che le sanzioni in causa rientrino, per la loro severità, nell’ambito della materia penale (si vedano, mutatis mutandis, Öztürk, sopra citata, § 54, e, a contrario, Inocêncio c. Portogallo (dec.), n. 43862/98, CEDU 2001 I)”[14].

La giurisprudenza europea pare quindi molto meno “sottile” nel distinguere le sanzioni penali da quelle amministrative, da quelle civili (o private) e fa sostanzialmente leva sui tre criteri (qualificazione giuridica della misura, natura della stessa, grado di severità della «sanzione») per identificare come “penale” una sanzione, ancorché meramente pecuniaria.

9. Conclusioni: possibili sviluppi e garanzie costituzionali

Un’applicazione di tali principi nel nostro ordinamento comporterebbe il necessario rispetto, anche da parte delle sanzioni pecuniari civili, dei principi dettati dalla Costituzione ed elaborati dalla Corte Costituzionale in materia penale: riserva di legge, tassatività, tipicità, personalità delle responsabilità, ragionevolezza (Corte Cost. 393/2006, cit.).

E soprattutto, irretroattività della norma deteriore, con conseguenti primi dubbi di costituzionalità in merito alle norme dei dd.lgs. 7 e 8/2016 che hanno sanzionato certi illeciti con “pene” amministrative o civili di molto superiori rispetto a quelle previste in precedenza, quando i fatti erano penalmente rilevanti (cfr. artt. 4 d.lgs. 7/2016, art. 1 d.lgs. 8/2016).

Alla luce di tutto quanto precede, il futuro riserva non pochi interrogativi all’operatore del diritto che verrà a confrontarsi quotidianamente con le nuove categorie introdotte dai decreti di depenalizzazione nn. 7 e 8 del febbraio 2016.

In particolare, ci si dovrà chiedere se abbia avuto luogo una vera depenalizzazione, se quelle introdotte sotto l’etichetta di “sanzioni pecuniarie civili” siano in realtà sanzioni o delle vere e proprie pene, se a tali strumenti sanzionatori debbano applicarsi (e se sì in che misura) le garanzie costituzionali del principio di legalità e di personalità della responsabilità.

Ci si dovrà inoltre chiedere se l’applicabilità retroattiva delle sanzioni civili (e di quelle amministrative) sia compatibile con i principi costituzionali e sovranazionali in materia di irretroattività delle norma penale deteriore.

La sensazione è che per dare risposta a tutti (o a qualcuno) di questi interrogativi ci vorrà tempo e occorrerà “produrre” ed analizzare un’ampia e variegata casistica, con la conseguenza che per i prossimi anni occorrerà raggiungere un livello di formazione e approfondimento ancora superiore a quello attuale.

 

 

 
 

[1] Vale la pena riportare, per esteso, uno stralcio della motivazione della Corte, secondo cui : “Il punto di partenza è costituito dal significato positivo del principio di riserva di legge penale: se, infatti, quest'ultimo, nella Costituzione, non fosse mezzo per adeguate, ben definite e, pertanto, limitate scelte criminalizzatrici, non sarebbe in grado di costituire strumento d'effettiva ed efficiente garanzia. A ben riflettere, anche la capacità ad excludendum della riserva di legge penale, il suo significato "negativo" (evitare gli abusi da parte di "altri" organi dello Stato) suppone ed implica giusti, limitati usi, soltanto rispetto ai quali è dato ipotizzare abusi.

Né va dimenticato che l'ideologia illuministica in tanto esaltò la legge statale in quanto quest'ultima, attraverso l'intervento dell'organo rappresentativo di tutta la società "unita per contratto sociale", era in grado di positivizzare i principi razionali ed immutabili di "giustizia": sin dal periodo illuministico, dunque, si pose, anche se fu inizialmente risolto in maniera utopistica, il problema della "giustizia" della legge.

La Costituzione ha, certamente, "superato" l'eccessiva, illuministica fiducia nella legge; tal superamento è testimoniato, fra l'altro, in previsione di eventuali abusi del legislatore, dai controlli costituzionali sulle leggi. Ma è proprio la Costituzione a "credere" ancora nella legge statale: e ciò perché ritiene che soltanto attraverso quest'ultima possano avverarsi "giuste", opportune, limitate scelte criminalizzatrici.

La Carta fondamentale accoglie e sottolinea il principio illuministico per il quale il "di più" di libertà soppressa costituisce abuso. Tutto sta, oggi, a precisare questo "di più" in relazione alle misure limitative della libertà strettamente necessarie ad assicurare libertà, uguaglianza e reciproco rispetto tra i soggetti. Si tratta, cioè, nelle scelte criminalizzatrici, di limitare la libertà solo per quel tanto strettamente necessario a garantirla.

Il diritto penale è sistema che, nell'atto in cui autorizza la difesa sociale attraverso le sanzioni più gravi per la libertà e dignità umana, limita la difesa stessa attraverso precise, puntuali determinazioni di scopi, modalità e contenuti di fattispecie. Il diritto penale è, particolarmente (e la Costituzione lo svela all'evidenza) sistema di limiti sostanziali al legislatore; ed è mirato, soprattutto, al rispetto di questi ultimi il monopolio statale nella produzione della legge penale, la riserva di legge penale.

La criminalizzazione comporta, anzitutto, una scelta tra tutti i beni e valori emergenti nell'intera società: e tale scelta non può esser realizzata dai consigli regionali (ciascuno per proprio conto) per la mancanza d'una visione generale dei bisogni ed esigenze dell'intera società.

L'altro, ancor più importante, limite sostanziale garantito dal principio di riserva di legge penale è il fine della scelta innanzi indicata. Tale scelta va, appunto, operata in funzione d'un fine da raggiungere ed è strettamente limitata dallo stesso fine.

Si suol ripetere che il diritto penale tutela interessi, beni e valori giuridici; tale tutela, frutto, conseguenza della preindicata scelta tra beni e valori emergenti, meritevoli di garanzia penale, è affidata alla discrezionalità vincolata del legislatore. La predetta "scelta" va fatta in funzione d'un unico scopo: l'assicurazione delle condizioni "minime" del vivere democratico e cioè delle condizioni di libertà, uguaglianza e rispetto reciproco tra i soggetti. Anche i beni giuridici, anche i valori costituzionalmente significativi, divengono, pertanto, mezzi di volta in volta scelti (o "sacrificati" rispetto ad altri valori) per l'assicurazione, in una data concretezza storica, delle predette condizioni democratiche del vivere civile. Sono queste a costituire il vincolo finalistico della c.d. discrezionalità del legislatore, a garanzia di tutti i cittadini.

Vanno, inoltre, particolarmente ricordati, a proposito di limiti sostanziali del legislatore nelle scelte criminalizzatrici, i principi di sussidiarietà, proporzionalità e frammentarietà dell'intervento penale, costituenti, quanto meno, direttive di politica criminale. Anche tali principi implicano il possesso d'una visione generale dei beni e valori presenti nell'intera Comunità statale e limitano ulteriormente, nell'atto in cui le fondano, le scelte criminalizzatrici: la realizzazione di tali principi, che costituiscono garanzia dell'intera comunità, rende impossibile affidare alla legge regionale la più importante e difficile tra le funzioni statali.

Il principio di sussidiarietà, per il quale la criminalizzazione, costituendo l'ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte degli altri rami dell'ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire, implica, fra l'altro, programmi di politica generale, e criminale in ispecie, nonché giudizi prognostici che soltanto lo Stato può formulare.

Il principio di proporzionalità, inteso non soltanto quale proporzione tra gravità del fatto e sanzione penale bensì, anche e soprattutto, quale "criterio generale" di congruenza degli strumenti normativi rispetto alle finalità da perseguire, conferma che soltanto lo Stato è in grado, avendo piena consapevolezza di tutti gli strumenti idonei a compiutamente realizzare la direttiva in esame, d'effettivamente garantire, sotto questo aspetto, la comunità.

Ed infine, anche il principio di frammentarietà, inteso come intervento penale "puntiforme", che attua la garanzia "liberale" determinata dai necessari "vuoti di tutela", è adeguatamente rispettabile dall'organo statale di produzione legislativa: quest'ultimo, che appunto possiede la più generale visione di beni e valori presenti nella società, è particolarmente idoneo a confermare, con la determinatezza della legge penale, la concezione della libertà quale regola e dell'illecito penale quale eccezione.

Né va dimenticato che ulteriori limiti sostanziali vengono costituzionalmente imposti al legislatore, quale, fra i tanti, quello, fondamentale, della finalità rieducativa della pena (ex art. 27, terzo comma, Cost.): anch'esso fonda e nello stesso tempo limita l'intervento penale.

[2] Si pensi, ad esempio, alle fattispecie previste dagli artt. 652 c.p. “rifiuto di prestare la propria opera in occasione di un tumulto” o 661 “abuso della credulità popolare”

[3] Trib. Asti, sez. penale, sent., 27-6-2014, est. Corato

[4] Cass. pen., sez. 3, sent. 17-3-2015, n. 23944, (con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 659 c.p.). In termini Cass. pen., sez. fer., sent. 31-7-2014, n. 38080, (con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 2, co 1-bis, del d.l. n. 463/1983); Cass. pen., sez. 1, sent. 19-9-2014, n. 44997 (con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286/1998);

[5] L’attuale art. 1 d. lgs 8/2016 mutua sostanzialmente gran parte del testo dell’art. 32 l. 689/81, he qui si riporta: “Non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, salvo quanto disposto, per le violazioni finanziarie, dal [seguente] art. 39 … 2. La disposizione del precedente comma non si applica ai reati in esso previsti che, nelle ipotesi aggravate, siano punibili con pena detentiva, anche se alternativa a quella pecuniaria”

[6] La figura dei danni punitivi nel diritto anglosassone (e per certi versi anche in quello francese e belga) è stata ampiamente indagata da Cass. Civ, sez. I, 15/04/2015, n. 7613, che ha rilevato, circa un anno prima dell’entrata in vigore dei decreti in commento, come “si riscontra, dunque, l'evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente, sulla base di vari indici normativi (quali, ad esempio, il D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 125, sulla violazione di un diritto di proprietà industriale, o la L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 158, come sostituito dal D.Lgs. n. 140 del 2006, art. 5, sulla protezione del diritto d'autore, che determinano il danno anche tenuto conto degli utili realizzati in violazione del diritto), specialmente a fronte di un animus nocendi; pur restando la funzione risarcitoria quella immediata e diretta cui l'istituto è teso, tanto da restare imprescindibile il parametro del danno cagionato

[7] Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n. 1781 del 08/02/2012 (Rv. 621332), che ha testualmente rilevato che “Nel vigente ordinamento, il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non é riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive - restando estranea al sistema l'idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta - ma in relazione all'effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso, non essendo previsto l'arricchimento, se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all'altro. E’ quindi incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto dei danni punitivi. (Nell'affermare il suddetto principio, la Corte ha cassato per insufficienza e incongruità di motivazione la sentenza impugnata, la quale aveva accolto l'istanza di delibazione di una pronuncia statunitense ed argomentato nel senso che l'omessa motivazione di quella sentenza non ostava al riconoscimento, che nessun espresso riferimento la sentenza straniera conteneva circa la liquidazione dei "punitive damages" e che i danni subiti per infortunio sul lavoro dal danneggiato erano compatibili con la somma liquidata, sebbene di gran lunga superiore a quella richiesta nella domanda)”. Conformemente a tale pronuncia vedi anche Cass Civ. Sez. 3, Sentenza n. 1183 del 19/01/2007 (Rv. 596199)., secondo cui “La clausola penale non ha natura e finalità sanzionatoria o punitiva, ma assolve alla funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria, tant'è che se l'ammontare fissato nella clausola penale venga a configurare, secondo l'apprezzamento discrezionale del giudice, un abuso o uno sconfinamento dell'autonomia privata oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotta. Pertanto, deve escludersi che la clausola penale prevista dall'articolo 1382 del codice civile possa essere ricondotta all'istituto proprio del diritto nord-americano dei "punitive damages" avente una finalità sanzionatoria e punitiva che è incompatibile con un sindacato del giudice sulla sproporzione tra l'importo liquidato e il danno effettivamente subito

[8] La stessa Corte americana si era così pronunciata: "Nel sistema statunitense, la clausola del due process, prevista nel quattordicesimo emendamento della costituzione, vieta agli Stati di imporre "danni punitivi" in misura eccessiva a carico del danneggiante (nella specie, l'illecito era consistito nella decisione di un distributore nazionale di automobili di non avvisare i suoi distributori e, quindi, i clienti finali, dei difetti di verniciatura dell'autovettura venduta come nuova quando il costo delle relative riparazioni fosse ammontato a meno del tre per cento del prezzo di vendita: i c.d. danni punitivi, concessi all'acquirente di una di tale automobili nella misura di due milioni di dollari, sono stati ritenuti in contrasto con il dettato costituzionale perché eccessivi)": così Supreme Court U.S.A., 20 maggio 1996, in Foro it., 1996, IV, 421.In seguito (e nonostante ciò), per una (impressionate) applicazione dei danni punitivi, si veda State jurisdictions [Usa] Florida, 14 luglio 2000, in Foro it., 2000, IV, 449: "Per verdetto unanime dei giurati, reso in merito ad un procedimento di responsabilità civile nei confronti dei produttori nordamericani di sigarette, la "Philip Morris" deve essere condannata ad un risarcimento per danni punitivi per settantatre miliardi e novecentosessanta milioni di dollari, la "Brown & Williamson Tobacco" per diciassette miliardi e cinquecentonovanta milioni di dollari, la "R. J. Reynolds" per trentasei miliardi e duecentottanta milioni di dollari, la "Lorillard Tobacco" per sedici miliardi e duecentocinquanta milioni di dollari, la "Ligget Group" per settecentonovanta milioni di dollari, il "Counsel for tobacco research" per un milione centonovantacinquemila duecentodieci dollari e il "Tobacco Institute" per duecentosettantottomila trecentotrentanove dollari").Segnaliamo da ultimo Supreme Court U.S.A., 7 aprile 2003, in Foro it., 2003, IV, 355 che - più equilibratamente – ha ritenuto irrazionale ed arbitraria la concessione, a titolo di danni puntivi, di una somma dieci volte o più superiore a quella accordata per il risarcimento del danno effettivo, con il che implicitamente ribadendo la legittimità dell'istituto, vincolata tuttavia a precisi criteri quantitativi.

[9] Owen, Products Liability Law cit., 1132 ss. Le cinque funzioni sono: Retribution, Education, Deterrence, Compensation, Law Enforcement.

[10] F. Bricola, La riscoperta delle «pene private» nell'ottica del penalista, ne Il Foro Italiano, 1985, vol. 108, n. 1 (gennaio 1985)

[11] La Corte,  nel noto caso Engel contro Paesi Bassi del 8.6.1976, ha rilevato che “ il importe d’abord de savoir si le ou les textes définissant l’infraction incriminée appartiennent, d’après la technique juridique de l’Etat défendeur, au droit pénal, au droit disciplinaire ou aux deux à la fois. Il s’agit cependant là d’un simple point de départ. L’indication qu’il fournit n’a qu’une valeur formelle et relative; il faut l’examiner à la lumière du dénominateur commun aux législations respectives des divers États contractants.  La nature même de l’infraction représente un élément d’appréciation d’un plus grand poids. Si un militaire se voit reprocher une action ou omission qui aurait transgressé une norme juridique régissant le fonctionnement des forces armées, l’État peut en principe utiliser contre lui le droit disciplinaire plutôt que le droit pénal. A cet égard, la Cour marque son accord avec le Gouvernement.  Là ne s’arrête pourtant pas le contrôle de la Cour. Il se révélerait en général illusoire s’il ne prenait pas également en considération le degré de sévérité de la sanction que risque de subir l’intéressé. Dans une société attachée à la prééminence du droit, ressortissent à la "matière pénale" les privations de liberté susceptibles d’être infligées à titre répressif, hormis celles qui par leur nature, leur durée ou leurs modalités d’exécution ne sauraient causer un préjudice important. Ainsi le veulent la gravité de l’enjeu, les traditions des États contractants et la valeur que la Convention attribue au respect de la liberté physique de la personne (cf., mutatis mutandis, l’arrêt De Wilde, Ooms et Versyp du 18 juin 1971, série A no 12, p. 36, dernier alinéa, et p. 42 in fine) 

[12] Più recentemente, la Corte di Strasburgo ha ulteriormente precisato che “La notion de « peine » contenue à l’article 7 possède une portée autonome. Pour rendre efficace la protection offerte par l’article 7, la Cour doit demeurer libre d’aller au-delà des apparences et d’apprécier elle-même si une mesure particulière s’analyse au fond en une « peine » au sens de cette clause (Welch c. Royaume-Uni, 9 février 1995, § 27, série A no 307 A, Jamil c. France, 8 juin 1995, § 30, série A no 317 B, et Uttley, déc. précitée). Le libellé de l’article 7 § 1, seconde phrase, indique que le point de départ de toute appréciation de l’existence d’une peine consiste à déterminer si la mesure en question est imposée à la suite d’une condamnation pour une « infraction ». D’autres éléments sont pertinents à cet égard : la qualification de la mesure en cause en droit interne, sa nature et son but, les procédures associées à son adoption et à son exécution, ainsi que sa gravité (Welch précité, § 28, Jamil précité, § 31, Adamson c. Royaume-Uni (déc.), no 42293/98, 26 janvier 1999, Van der Velden c. Pays-Bas (déc.), no 29514/05, CEDH 2006 XV, et Kafkaris précité, § 142). La gravité de la mesure n’est toutefois pas décisive en soi, puisque de nombreuses mesures non pénales de nature préventive peuvent avoir un impact substantiel sur la personne concernée (Welch précité, § 32, et voir Van der Velden, déc. précitée)” (CEDU, Sez. 5, 17.12.2009, M. contro Germania)

[13] CEDU, sez. II, 4.3.2014, Grande Stevens c. Italia, Numero del Ricorso: 18640/10 18647/10 18663/10 18668/10 18698/10, § 94 e ss.

[14] CEDU, Grande Stevens c. Italia, cit., §§ 98 e 99.


DA


Venerdì, 01 Aprile 2016
stampa
Condividi


Area Riservata


Attenzione!
Stai per cancellarti dalla newsletter. Vuoi proseguire?

Iscriviti alla Newsletter
SOCIAL NETWORK