Piogge, temporali e danni da allagamento: chi ha la responsabilità
In questi anni stiamo registrando degli eventi climatici non consoni alle stagionalità. Questi eventi atmosferici causano diversi danni.
Gli allagamenti sono sempre presenti a causa delle copiose piogge che rendono le strade come acquitrini e nel contempo provocano un’emergenza alla sicurezza stradale. Gli enti periferici spesso non sono pronti e intervengono post “nubifragio”.
Non concordo che le tesi che affermano l’impreparazione da parte dei Comuni nell’affrontare l’emergenza pioggia. Basti pensare quanta pioggia è stata registrata alcuni giorni or sono su Milano. I tecnici hanno affermato che in 3 ore è scesa una quantità di pioggia pari a tuto il mese di maggio.
Oltre a questo aspetto, questi fenomeni “tropicali” innescano dei seri rischi per le abitazioni, magazzini e garage, soprattutto per quelli a piano terra o interrati. Da essi è inevitabile la procedura della richiesta danni. Ma chi deve risarcire i conseguenti danni, nella fattispecie giuridica di quelli che potevano essere evitati apportando dei correttivi alla rete viaria che in caso di fenomeni di allagamento non riesce a incanalare l’acqua nella tubatura o nei fossi limitrofi alle sede stradale.
Sappiamo che l’Ente proprietario della strada è spesso chiamato in “causa” per questi fatti, ma il codice civile prevede anche la possibilità, per le amministrazioni locali, di andare esente da colpe quando dimostri l’imprevedibilità e inevitabilità del caso, che in gergo tecnico si chiama “caso fortuito”.
Prima di analizzare una recente sentenza, è opportuna una riflessione sul Libro terzo del codice civile al titolo II, che parla della proprietà.
All’art. 812. Distinzione dei beni, rammenta che sono beni immobili il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo.
Sono reputati immobili i mulini, i bagni e gli altri edifici galleggianti quando sono saldamente assicurati alla riva o all’alveo o sono destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione.
Sono mobili tutti gli altri beni.
Le pertinenze sono dettate dell’art. 817, che prevede in capo alle pertinenze sono le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa.
La destinazione può essere effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi ha un diritto reale sulla medesima.
Il demanio pubblico è sancito all’art. 822, appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale.
Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti d’interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia, le raccolte dei musei, delle pinacoteche degli archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico.
L’art. 840, sottosuolo e spazio sovrastante al suolo, afferma che la proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene, e il proprietario può fare qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino. Questa disposizione non si applica a quanto forma oggetto delle leggi sulle miniere, cave e torbiere. Sono del pari salve le limitazioni derivanti dalle leggi sulle antichità e belle arti, sulle acque, sulle opere idrauliche e da altre leggi speciali.
Il proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad escluderle.
Per quanto attiene ai terreni soggetti a bonifica, in capo all’art. 857, il codice prevede che per il conseguimento di fini igienici, demografici, economici o di altri fini sociali possono essere dichiarati soggetti a bonifica i terreni che si trovano in un comprensorio, in cui sono laghi, stagni, paludi e terre paludose, ovvero costituito da terreni montani dissestati nei riguardi idro-geologici e forestali, o da terreni estensivamente coltivati per gravi cause d’ordine fisico o sociale, i quali siano suscettibili di una radicale trasformazione dell’ordinamento produttivo.
Il concorso dei proprietari nella spesa è normato dell’art. 860 che riconosce ai proprietari dei beni situati entro il perimetro del comprensorio sono obbligati a contribuire nella spesa necessaria per l’esecuzione, la manutenzione e l’esercizio delle opere in ragione del beneficio che traggono dalla bonifica.
Le opere di competenza dei privati sono normate dall’articolo successivo, che prevede in capo ai proprietari degli immobili indicati dall’articolo precedente sono obbligati a eseguire, in conformità del piano generale di bonifica e delle connesse direttive di trasformazione agraria, le opere di competenza privata che siano d’interesse comune a più fondi o d’interesse particolare a taluno di essi.
Le distanze per canali e fossi e sancito dall’art. 891, il quale afferma che chi vuole scavare fossi o canali presso il confine, se non dispongono in modo diverso i regolamenti locali, deve osservare una distanza eguale alla profondità del fosso o canale. La distanza si misura dal confine al ciglio della sponda più vicina, la quale deve essere a scarpa naturale ovvero munita di opere di sostegno. Se il confine si trova in un fosso comune o in una via privata, la distanza si misura da ciglio a ciglio o dal ciglio al lembo esteriore della via.
Le distanze per gli alberi, sono normate dell’art. 892 che afferma chi vuol piantare alberi presso il confine deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, dagli usi locali. Se gli uni e gli altri non dispongono, devono essere osservate le seguenti distanze dal confine:
1) tre metri per gli alberi di alto fusto. Rispetto alle distanze, si considerano alberi di alto fusto quelli il cui fusto, semplice o diviso in rami, sorge ad altezza notevole, come sono i noci, i castagni, le querce, i pini, i cipressi, gli olmi, i pioppi, i platani e simili;
2) un metro e mezzo per gli alberi di non alto fusto. Sono reputati tali quelli il cui fusto, sorto ad altezza non superiore a tre metri, si diffonde in rami;
3) mezzo metro per le viti, gli arbusti, le siepi vive, le piante da frutto di altezza non maggiore di due metri e mezzo.
La distanza deve essere però di un metro, qualora le siepi siano di ontano, di castagno o di altre piante simili che si recidono periodicamente vicino al ceppo, e di due metri per le siepi di robinie.
La distanza si misura dalla linea del confine alla base esterna del tronco dell’albero nel tempo della piantagione, o dalla linea stessa al luogo dove fu fatta la semina.
Le distanze anzidette non si devono osservare se sul confine esiste un muro divisorio, proprio o comune, purché le piante siano tenute ad altezza che non ecceda la sommità del muro.
L’art. 893, Alberi presso strade, canali e sul confine di boschi.
Per gli alberi che nascono o si piantano nei boschi, sul confine con terreni non boschivi, o lungo le strade o le sponde dei canali, si osservano, trattandosi di boschi, canali e strade di proprietà privata, i regolamenti e, in mancanza, gli usi locali. Se gli uni e gli altri non dispongono, si osservano le distanze prescritte dall’articolo precedente.
Per le distanza, in capo all’art. 894 Alberi a distanza non legale prevede che il vicino può esigere che si estirpino gli alberi e le siepi che sono piantati o nascono a distanza minore di quelle indicate dagli articoli precedenti.
La comunione di fossi è normata dell’art. 897, che sancisce: ogni fosso interposto tra due fondi si presume comune.
Si presume che il fosso appartenga al proprietario che se ne serve per gli scoli delle sue terre, o al proprietario del fondo dalla cui parte è il getto della terra o lo spurgo ammucchiatovi da almeno tre anni.
Se uno o più di tali segni sono da una parte e uno o più dalla parte opposta, il fosso si presume comune.
Art. 913 parla dello scolo delle acque.
Il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente, senza che sia intervenuta l’opera dell’uomo.
Il proprietario del fondo inferiore non può impedire questo scolo, né il proprietario del fondo superiore può renderlo più gravoso.
Se per opere di sistemazione agraria dell’uno o dell’altro fondo si rende necessaria una modificazione del deflusso naturale delle acque, è dovuta un’indennità al proprietario del fondo a cui la modificazione stessa ha recato pregiudizio.
La riparazione di sponde e argini è in capo all’art. 915, qualora le sponde o gli argini che servivano di ritegno alle acque siano stati in tutto o in parte distrutti o atterrati, ovvero per la naturale variazione del corso delle acque si renda necessario costruire nuovi argini o ripari, e il proprietario del fondo non provveda sollecitamente a ripararli o a costruirli, ciascuno dei proprietari che hanno sofferto o possono ricevere danno può provvedervi, previa autorizzazione del tribunale, che provvede in via d’urgenza.
Le opere devono essere eseguite in modo che il proprietario del fondo, in cui esse si compiono, non ne subisca danno, eccetto quello temporaneo causato dalla esecuzione delle opere stesse.
La rimozione degli ingombri, dettata dall’art. 916, prevede che le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche quando si tratta di togliere un ingombro formatosi sulla superficie di un fondo o in un fosso, rivo, colatoio o altro alveo, a causa di materie in essi impigliate, in modo che le acque danneggino o minaccino di danneggiare i fondi vicini.
All’art. 917, norma le spese per la riparazione, costruzione o rimozione.
Tutti i proprietari, ai quali torna utile che le sponde e gli argini siano conservati o costruiti e gli ingombri rimossi, devono contribuire nella spesa in proporzione del vantaggio che ciascuno ne ritrae.
Tuttavia, se la distruzione degli argini, la variazione delle acque o l’ingombro nei loro corsi deriva da colpa di alcuno dei proprietari, le spese di conservazione, di costruzione o di riparazione gravano esclusivamente su di lui, salvo in ogni caso il risarcimento dei danni.
In capo all’art. 1033, vi è l’obbligo di dare passaggio alle acque.
Il proprietario è tenuto a dare passaggio per i suoi fondi alle acque di ogni specie che si vogliono condurre da parte di chi ha, anche solo temporaneamente, il diritto di utilizzarle per i bisogni della vita o per usi agrari o industriali.
Sono esenti da questa servitù le case, i cortili, i giardini e le aie ad esse attinenti.
Per la manutenzione del canale, l’art. 1090 prevede che nella servitù di presa o di condotta d’acqua , quando il titolo non dispone altrimenti, il proprietario del fondo servente può domandare che il canale sia mantenuto convenientemente spurgato e le sue sponde siano tenute in istato di buona manutenzione a spese del proprietario del fondo dominante.
Questa disamina per rammentare che nel codice civile vi sono diversi obblighi anche da parte dei privati, oltre al diritto civilistico, vi sono i vari regolamenti locali che spesso non sono ottemperati dai proprietari dei fondi limitrofi.
Il dettato di cui all’art. 2051, Danno cagionato da cosa in custodia, prevede che “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.
È sottinteso che nel caso di allagamento di una strada comunale, la responsabilità è in capo all’ente in quanto custode o proprietario di un bene, come una strada pubblica, deve risarcire tutti i danni da esso provocati, come appunto l’allagamento.
La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 5877/2016 datata 19/05/2016, ha sentenziato il caso in esame riguarda la richiesta di risarcimento da parte di una società nei confronti di un condominio e dell’Amministrazione comunale per i danni subiti a causa dell’allagamento dei locali, in occasione di un forte temporale, sia per esondazione di un vicino sottopasso. La parte chiedeva all’amministrazione comunale la condanna al risarcimento dei danni subiti in seguito all’allagamento (verificatosi in occasione di un forte temporale, sia per esondazione di un vicino sottopasso, sia per precipitazioni da un tubo pluviale del condominio) di due locali condotti in locazione da essa attrice.
Interessante sono le citazioni riportate nella sentenza:
La Corte d’appello, di converso, ha ritenuto sulla base di un sillogismo evidentemente privo delle necessarie premesse – che anche un sistema di deflusso che fosse stato realizzato e avesse funzionato nel pieno rispetto di tutte le norme tecniche e di ordinaria diligenza non sarebbe stato idoneo a contenere la furia delle acque e ad evitare il danno.
E’ tale affermazione ad apparire, nella sostanza, sfornita di motivazione, mentre è evidente che l’accertamento di una sicura responsabilità in capo all’ente tenuto alla manutenzione avrebbe dovuto imporre un più accurato esame della fattispecie, allo scopo di valutare se, come ed in quale percentuale l’esecuzione dei lavori a regola d’arte e il regolare funzionamento del sistema di pompaggio sarebbero stati in grado, se non di evitare, almeno di ridurre l’entità dei danni.
Questa Corte ha già in più occasioni riconosciuto, anche in relazione agli obblighi di manutenzione gravanti sulla P.A., che la discrezionalità, e la conseguente insindacabilità da parte del giudice ordinario, dei criteri e dei mezzi con cui la P.A. realizzi e mantenga un’opera pubblica trova un limite nell’obbligo di osservare, a tutela della incolumità dei cittadini e dell’integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e regolamenti disciplinanti detta attività, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza, con la conseguenza che dall’inosservanza di queste disposizioni e di dette norme deriva la configurabilità della responsabilità della stessa pubblica amministrazione per i danni arrecati a terzi (tra le altre, Cass. 9 ottobre 2003, n. 15061 e 11 novembre 2011, n. 23562).
E’ appena il caso di aggiungere, infine, che ogni riflessione, declinata in termini di attualità, sulla prevedibilità maggiore o minore di una pioggia a carattere alluvionale, certamente impone, oggi, in considerazione dei noti dissesti idrogeologici che caratterizzano il nostro Paese, criteri di accertamento improntati ad un maggior rigore, poiché è chiaro che non si possono più considerare come eventi imprevedibili alcuni fenomeni atmosferici che stanno diventando sempre più frequenti e, ormai, tutt’altro che imprevedibili.
La Corte territoriale ha ritenuto che l’esimente del caso fortuito predicata con riferimento alla responsabilità del comune giustificasse ipso facto una pronuncia di assoluzione da responsabilità anche per il condominio così immotivatamente rigettando l’istanza di ammissione di prove per testi sulla circostanza che l’allagamento verificatosi al piano terra dei locali condotti in locazione dalla ricorrente fosse stato determinato anche da acque provenienti da un tubo di scarico pluviale rotto o disconnesso, in relazione al quale lo stesso tecnico della compagnia assicuratrice aveva formulato un’offerta risarcitoria,- limitandosi sotto altro profilo a riportare un’affermazione del CTU che, peraltro, faceva acriticamente propria una circostanza contenuta nel fascicolo di parte del condominio.
Osserva correttamente la società ricorrente che la Corte d’appello ha erroneamente escluso dall’operatività della garanzia assicurativa non soltanto i danni al seminterrato, ma anche quelli al piano terra (la cui risarcibilità era stata negata in prime cure non per inoperatività della garanzia stessa – la cui validità, sia pur parziale, era stata viceversa riconosciuta -, ma per carenza di elementi probatori, pur in assenza di appello incidentale da parte della compagnia), ed ha, altrettanto erroneamente, omesso del tutto di valutare la doglianza relativa al comportamento concludente della compagnia, volto al sostanziale riconoscimento dell’operatività in parte qua di tale garanzia, corrispondendo un indennizzo, sia pur “per spirito conciliativo“.
Anche tale profilo della controversia dovrà pertanto costituire oggetto di riesame da parte del giudice del rinvio.
Il ricorso è pertanto accolto, e il procedimento rinviato alla Corte di appello di che, in diversa composizione, si atterrà ai principi di diritto sopra esposti.
Pertanto la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di Cassazione, alla Corte di appello di Milano in altra composizione.
Circostanze purtroppo sempre più frequenti. (ASAPS)