Live Matters: la vita conta. Ma ormai non vale più nulla
Abbiamo un problema. E stavolta la frase non arriva dallo spazio, pronunciata dal comandante John L. Swigert, pilota dell’Apollo 13. Arriva sempre da sotto il labaro americano, certo, ma sulla Madre Terra, più o meno da dove il messaggio dell’astronauta venne ricevuto, nel lontano 13 aprile 1970: tra Houston e Dallas, teatro dell’ultima tragedia americana, ci sono poco meno di 400 chilometri. Un’inezia, rispetto allo spazio siderale da cui giunse la richiesta d’aiuto dell’equipaggio di astronauti diretti sulla Luna.
Tra le tante differenze, anche il lieto fine che stavolta non c’è stato: non c’è stato e non se ne vede uno. Lucia Annunziata, nel suo pezzo sull’Huffington Post del 9 luglio, 46 anni dopo Apollo 13, prova a spiegarci perché. Sono vent’anni che l’America è in guerra, vent’anni di spari, di missili, di droni. Di uccisioni mirate, di bombardamenti chirurgici, di soldati sparsi un po’ dappertutto, nel mondo, a combattere contro un nemico che ora si scopre essere anche in casa, dietro le finestre anonime dei dormitori metropolitani, nei disagi di una “razza”, quella “non bianca” – scusate se usiamo questo termine –, che nonostante 8 anni di presidenza di colore, non trova pace. Si infervora di una religione che la spinge alla ribellione, alla guerra contro la libertà che liberi evidentemente non tiene nessuno, parte di una rivolta contro il sistema che una parte di umanità odia. A torto o a ragione, non spetta a noi dirlo, ma il problema c’è.
C’è perché la Casa Bianca (e detta così suona davvero male), non è riuscita in questi ultimi anni di Obama, a tenere fuori dai confini la guerra globale che insanguina il mondo intero, una parte del quale è ormai interdetto all’infedele mentre il resto è compromesso.
Anzi, forse quella guerra è oggi ancora più subdolamente sul suolo americano.
Perché fin quando a farsi saltare in aria o a massacrare centinaia di persone a colpi di mitra è il terrorista addestrato, in tunica e sandali, noi possiamo anche capire chi è il nemico, ma quando a imbracciare un fucile d’assalto è uno che fino a qualche giorno prima consideravamo uno dei nostri, ecco che cadono tutte le certezze.
E oggi, anche chi solo fino a ieri declamava la durezza della polizia americana chiamandola ad esempio di legalità, oggi non può far a meno di ricredersi. Oppure, non può far altro che rafforzare la propria certezza su chi sia il nemico: il nero.
Certo, l’America è ancora razzista e seguendo questa umile linea di ragionamento, lo è tutto il mondo occidentale : deve esserlo per forza, perché altrimenti non saremmo a questi punti.
Ma ne è consapevole? Probabilmente no. È del tutto colpa sua? Probabilmente no.
Se potessimo limitare l’analisi alla contemporaneità, potremmo semplicemente dire che “i neri” non ce la fanno: il loro continente, l’Africa, è straziato da guerre, più o meno “civili”, più o meno religiose. I tentativi bianchi, piuttosto maldestri, di pacificare i teatri sono puntualmente falliti e chi, tra i neri, è oggi “afro americano” o “afro europeo”, avrà anche il passaporto di uno stato che gli ha dato i natali, ma spesso il disagio nel quale si trova, l’impossibilità di divenire qualcuno (eccezion fatta per pochi esempi), ci dicono che a doversi dichiarato fallito è proprio il sogno americano, o europeo, che molti sono andati a cercare o che molti si sono trovati a dover vivere.
I social, nell’era della condivisione real-time di tutto, mostrano che la polizia americana spara con facilità, che in Europa non ci si integra, che nello Stato Islamico si tagliano teste (e le teste che rotolano o i rantoli degli sgozzati sono on-line h24, per tutti).
E poi c’è purtroppo l’impunità, di cui sembrano godere gli autori di queste uccisioni.
Il caso di Philando Castile, in Louisiana, è esemplare: qui un agente bianco ha ucciso un americano di colore (perché afroamericano è un termine che dovrebbe essere cancellato, così come la locuzione “di colore”) che sembra volesse solo prendere i documenti dalla tasca: questo è solo l’ultimo di una lunga serie di eventi, videoripresi e postati all’istante, che hanno portato un’intera razza a pensare che di fatto poco o nulla sia cambiato dal “Civil Rights Act” del 1964 e dal “Voting Rights Act” del 1965 e che, alla fine, ogni nero ucciso dalla polizia equivalga a riammazzare Martin Luther King, freddato da un fucile calibro 30-06 nel 1968 imbracciato da James Earl Ray. Un bianco.
L’assurdità di tutte queste morti, l’estemporaneità con cui un filmato di 10 secondi documenta un’uccisione, la storia contraddittoria e ipocrita di un paese che ha liberato interi continenti in nome della libertà salvo poi dare l’impressione che la “Casa Bianca” si chiami così perché una sola razza, alla fine, deve essere quella che decide, dispone, ordina e soprattutto che vive bene, sono l’innesco di questa rivolta globale, che si organizza in nome di una religione, di una causa, di semplice follia, ma siccome il bersaglio è sempre lo stesso (il nostro “stile di vita”), ecco che sembra tutto collegato. E probabilmente lo è.
Chi conosce Lamerica (lo scriviamo così di proposito, tanto per ricordarci chi siamo e per un giusto omaggio al dramma raccontato da Gianni D’Amelio), anche per averci fatto un breve viaggio da turista, sa benissimo che è uno stato di profonde contraddizioni e che il disagio non è solo nero: ci sono anche poveri bianchi e neri ricchi, ci sono messicani che si fanno ammazzare al confine e cubani che fino a poco tempo fa tentavano la sorte attraversando il mar dei Caraibi fino all’opulenta Miami, quella che molti credono essere la modernissima città della superpolizia di C.S.I. o dei corpi affusolati e superfighi di Bay Watch.
Non è così e anche gli “americani stelle e strisce” dovrebbero saperlo.
Cos’è che non funziona, nella testa USA?
E ancora: cos’è che non funziona in Europa, perché non riusciamo a mettere al sicuro almeno i nostri territori?
Dovremo arrivare a pensare che tra il ricco e il povero c’è davvero un solco così profondo che non potrà mai essere colmato e che, dunque, dovremo sostenere una guerra tra classi sociali?
Perché un americano patriota, che sceglie di mettere la divisa e combattere per il proprio paese in Afghanistan, al ritorno dovrebbe scegliere di imbracciare un fucile e far fuori cinque poliziotti che, fino a prova contraria, difendono il paese e i cittadini esattamente come ha fatto lui?
E ancora: è l’ennesima tragedia provocata dalla lobby delle armi, in America, oppure è un atto di guerra del nemico, stavolta per mano di un traditore?
Cavoli quante domande. Ogni volta che ce ne facciamo una, ecco apparire la risposta, nella storia e nella geografia (quella politica). E ogni volta che arriva una risposta, ecco un’altra domanda.
“Togliamo le armi”, dice qualcuno. “Io voglio difendermi da chi le armi ce l’ha già”, risponde un altro. E mentre compri un fucile, qualcuno si arricchisce e quando lo usi, a torto o a ragione, ecco un altro che si arma per difendersi da quelli come te.
O era il contrario?
La nostra paura e che ci siamo spinti troppo in là. Siamo come un corpo malato: a un certo punto, la guarigione è impossibile.
Servirebbe solo un miracolo e purtroppo, i miracoli li fanno solo i vari Dio, Allah e via discorrendo.
Ecco fatto.
Una importante riflessione sui tragici fatti degli Stati Uniti che vivono ormai una guerra interna, esiste un serio problema sui metodi di ingaggio della polizia. (ASAPS)