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Articoli 18/01/2006

Quattro anni di reclusione a chi parcheggia in doppia fila


C’è da spostare una macchina? Ci pensa il Procuratore della Repubblica. Si, perché una sosta in doppia fila ed il rifiuto di cedere lo spazio di manovra per l’uscita, è condotta da codice penale. Parola della Cassazione che, con la sentenza n. 24614 del 4 luglio 2005, ha intravisto gli estremi della violenza privata, di cui all’art. 610 del codice penale, nel comportamento di chi sosta "selvaggiamente" a danno degli altri utenti della strada. La storia, certo dal sapore di provincia, si è invece verificata sulle caotiche strade della capitale. Tutto molto semplice: nella penuria degli spazi di parcheggio che la metropoli offre e non offre, c’è chi, magari per la fretta, parcheggia in seconda fila. Non è detto, però, che chi ha parcheggiato regolarmente non abbia altrettanta fretta di andarsene, nonché il sacrosanto diritto di arrabbiarsi se non ci riesce per colpa dell’altro. E’ così che nascono quei qui pro quo cui non tutti sanno reagire con diplomatica flemma inglese. Il diverbio stradale, generalmente si risolve, poi, con l’intervento dei vigili, con la multa più o meno salata ed al limite col carro attrezzi che libera la via d’uscita. Nel nostro caso, invece, è partita una denuncia alla Procura della Repubblica. Ipotesi di reato: la violenza privata, secondo le previsioni dell’art. 610 del codice penale. Magari la difesa si aspettava un’archiviazione. Del resto dove sta la violenza? Dove si intravede la minaccia? Qui l’imputato non ha fatto proprio nulla, non si è mosso: ha lasciato la sua macchina dov’era, tutto in perfetto stato di quiete. La vicenda giudiziaria però non è andata come i difensori pensavano, giungendo alla conclusione dopo una giostra di condanne ed assoluzioni, che solo l’intervento della prima sezione penale della Cassazione ha fermato con la definitiva sentenza. Troppo rigore? Una sentenza sensazionale? Nemmeno per sogno: si tratta anzi di una posizione più che consolidata della Corte di legittimità. Non è mancata qualche decisione di orientamento opposto, è vero: era stato per esempio assolto il conducente di un trattore che, del tutto intenzionalmente, aveva bloccato una macchina sbarrandole la strada. In quel caso, la Cassazione non aveva ravvisato gli estremi della violenza privata perché, se costrizione c’era stata, mancavano però i presupposi della violenza o minaccia necessari ad integrare la fattispecie penale (Cass. Sez. V pen., sentenza 30.9.1998). In altre parole, sosteneva la Cassazione: come si fa ad essere violenti, nel momento in cui non si agisce, si rimane inerti, non si fa nulla? Logico quanto volete, ma non è l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità.  Giuridicamente, lo si capisce, la questione ruota intorno alla possibilità di qualificare la coazione indiretta come vera e propria violenza. C’è da dire che il requisito della violenza, senza il quale la nostra ipotesi di reato cade, si identifica con qualsiasi mezzo idoneo a privare la vittima della libertà di autodeterminazione. E non c’entra nulla la durata: siamo di fronte ad un reato istantaneo che si consuma, quindi, nella stessa azione od omissione. Non importa nemmeno la gravità della costrizione: non deve necessariamente trattarsi di una forza compulsava, invincibile, una vis maior cui resisti non potest.  Secondo la Cassazione (Cass. Sez. V pen. Sentenza 17.12.2003), anche trattenere una persona per le spalle, impedendole di entrare in una cabina telefonica, integra gli estremi dell’art. 610 del codice penale. Però, qui siamo di fronte all’uso di una forza che per quanto necessita comunque di un contatto diretto con la vittima. Per arrivare al riconoscimento della sufficienza di una coazione indiretta, alcune sentenze hanno riconosciuto che il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare la persona della libertà di determinare autonomamente il proprio comportamento. Anche chiudere un cancello con un lucchetto, per impedire ad un tale di rincasare, pur non prefigurando una diretta azione sulla vittima, costituisce violenza privata (Cass. Sez. V sentenza 27 febbraio 1998). Quindi, come è reato serrare il cancello, allo stesso modo è condannabile chi sbarra l’uscita ad un veicolo. In altre parole, si supera il concetto di violenza intesa come impiego di energia fisica, di violenza propria, che è la forza bruta, per abbracciare il concetto di violenza impropria, la quale ricomprenderebbe ogni sorta di pressione - diversa dalla minaccia - idonea a comprimere l’altrui libertà. Certo, come osserveranno i cultori del diritto, non è un’interpretazione che lascia del tutto tranquilli, poiché in questo modo, l’art. 610, si trasforma in una fattispecie a forma libera, realizzabile con qualsiasi strumento, anche non violento, che però concretamente determini la costrizione della vittima. Ma allora perché la legge, nel descrivere il precetto della violenza privata ha parlato di violenza? E perché, quando si tratta del reato di esercizio arbitrario delle private ragioni, ha distinto tra violenza sulle cose e violenza sulle persone, mentre l’art 610 parla di violenza tout curt? Tante ipotesi dove è presene la costrizione assumono così valenza penale creando un super lavoro per le Procure e per i Tribunali, in situazioni che, in fondo, sono risolvibili con il ricorso al codice della strada e se proprio vogliamo esagerare alla giustizia civile. Una violenza indiretta può essere vinta anche dal carro attrezzi dei vigili urbani, e quattro anni di reclusione, sostituiti da una multa salata. Se c’è da spostare una macchina, dunque, non chiamate il Pubblico Ministero.
                                                                                               * Funzionario Polizia di Stato

di Ugo Terracciano
Dal Centauro n. 100 - Novembre/Dicembre 2005
La Cassazione condanna chi volontariamente impedisce l’uscita dell’auto parcheggiata regolarmente.
Mercoledì, 18 Gennaio 2006
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