(Foto Blaco)
In
un lucidissimo articolo apparso su la Repubblica del 14 maggio 2004
(“A scuola di violenza”), Mario Pirani si è occupato
del bullismo giovanile. A mio avviso, alcuni passaggi della sua
analisi (condotta con tanto di riferimenti bibliografici di prim’ordine)
devono essere recepiti ormai come punti fermi, per chiunque si ponga
con un minimo di serietà e onestà il problema della
devianza (giovanile e non) e dell’interpretazione delle sue
matrici sociali.
Pirani ha denunciato prima di tutto “una specie di rassegnazione
di fronte a un fenomeno quasi dipinto come un evento di natura,
una mutazione biologica dei giovani d’oggi, che li renderebbe
geneticamente diversi da quelli di ieri e, quindi, alieni da ogni
forma di disciplina imposta”. Ha alzato quindi l’indice
contro il “risultato catastrofico di scelte culturali ed educative,
nella scuola e nella famiglia… che hanno contribuito a destrutturate
e a delegittimare ogni idea di autorità, di disciplina, divieto,
sforzo e fatica nelle generazioni”. In altre parole, dice Pirani,
è stato “cancellato il senso del limite”, e questo
anche perché “il sistema scolastico ha praticamente
abolito la durezza degli esami, i voti negativi, il rinvio a settembre,
annullato la certezza e la generalità dei programmi, le bocciature,
le sospensioni, ridotto a zero l’efficacia dissuasiva del voto
di condotta”. Pirani, dopo avere toccato anche gli effetti
nefasti indotti dai videogiochi dalla violenza inaudita e dalla
televisione, ha poi affermato che i ragazzi dovrebbero essere invece
aiutati “ad affrontare con consapevolezza responsabile le difficoltà
della vita adulta”. Ciò non come slogan reazionario,
ma come “appello alla più elementare virtù civica”.
“Far credere a un bambino o a un adolescente che può
far tutto a suo piacimento, che non ha di fronte a sé divieti
né inevitabili frustrazioni…. sta devastando la formazione
etica, civile e scolastica dei cittadini di domani”. Ciò
che è grave, sottolinea l’autore, non è che una
regola venga violata, ma che “non ci sono regole e non esiste
il divieto”: certo, il divieto può anche essere infranto,
ma alla base ci deve sempre essere “la consapevolezza di compiere
un’azione proibita” (solo così l’infrazione
è assai meno diseducativa). Infine, Pirani ha concluso dicendo
che “l’assenza quasi istituzionalizzata di vincoli e divieti
facilita l’estendersi di fenomeni negativi”. Bene. Proviamo
a fare di queste incontestabili parole la premessa di una proiezione
su tutto quanto oggi avviene sulla strada. Ossia, proviamo a chiederci
come può degenerare questa non consapevolezza di vincoli,
regole, punizioni quando l’individuo non consapevole si pone
nel traffico, alla guida di un mezzo. Abbiamo detto l’individuo,
sia giovane che adulto, dato che la gioventù è una
categoria effimera e, come ogni passaggio a cui è interessato
il tempo, dovrebbe lasciare il proprio spazio ad altre coordinate
(qui, quelle dell’età adulta). Le ipotesi sono
due. La prima è che ci si scontri con un regime sanzionatorio
(il codice penale e il codice della strada, prima di tutto) che,
invece, recano in sé una risposta punitiva concreta, alla
quale il soggetto non è stato abituato. Si potrà sperare
allora in una interiorizzazione della deterrenza, se pur faticosa,
magari dopo un disadattamento iniziale.
La seconda è che, invece, la risposta sanzionatoria, anche
nella società, sia egualmente debole, inadeguata, ossia costituisca
la naturale prosecuzione di quella mancanza di senso del limite
a cui si è stati (dis)educati fin da piccoli. Cosa succede
oggi se un incensurato ammazza un proprio simile per una negligenza
o imprudenza, guidando un veicolo? Nella media (magari patteggiando),
viene condannato a qualcosa come sei, otto mesi di reclusione, con
la sospensione condizionale della pena. Cioè, a nulla. Addirittura,
se poi ci ricasca e ammazza qualcun altro, può fruire di
un’altra sospensione condizionale della pena (magari, sempre
patteggiando). Cioè, nuovamente, il suo trattamento sanzionatorio
concreto, attuale, immediato, è nulla. Solo se ammazza qualcuno
per tre volte si può cominciare a parlare di una punizione
effettiva.
In pratica, quindi, il nostro sistema è congegnato come se
una persona avesse due buoni di consumo, prima di vedere davanti
a sé lo spettro di una reclusione (meglio, prima che se ne
parli, perché poi vi sono tutti i trattamenti alternativi
al carcere che possono surrogare la pena). Buoni di consumo che
sono la possibilità di ammazzare qualcuno. E’ chiaro
che, in questo modo, parlare di senso del limite, senso di responsabilità,
deterrenza, attenzione, prudenza, diventa molto aleatorio. A volte,
utopistico. Il vecchio slogan “tanto ti dànno la condizionale”
è d’uopo. E’ quasi umano. Tutto viene così
lasciato al senso di responsabilità del singolo (o alla sua
paura di farsi male, lui per primo).
Si potrà obiettare che la risposta sanzionatoria esiste comunque,
e risiede nella privazione della patente per un certo periodo. D’accordo,
ma è serio un sistema che affida la sua deterrenza a una
sanzione accessoria (per giunta, amministrativa e non penale)?.
La risposta è no, anche perché ci si deve allora chiedere
quale è il senso di un procedimento penale, se la pena effettiva
è quella amministrativa. Concordando pienamente con Pirani
(e non può essere altrimenti), ci si deve chiedere allora
anche quale sarà l’evoluzione sociale, sulla strada
e non, di una situazione in cui il senso del limite si sta perdendo
clamorosamente e su di esso non può non innestarsi un effetto
moltiplicatore di massa, quasi una nuova insensibilità sociale,
in cui l’individuo non si capacita di avere regole serie da
rispettare e lo Stato non punisce. E si ostina a non punire proprio
in un ambito, la strada, in cui tutti sono inseriti e interessati
e dove tutti possono dare sfogo a istinti primitivi di violenza,
impulsività, onnipotenza, frustrazione latente. Guidare un
veicolo può dare l’ebbrezza di identificarsi col suoi
motore, con le sue prestazioni, e indurre a spingere e gareggiare.
Oppure, può essere sentito come lo strumento con cui, finalmente,
si può osare di più, tanto si può speculare
sulla condizionale, che troppo spesso viene percepita come una sorta
di perdono giudiziale, sinonimo di impunità iniziale. Ebbene,
questo è anche offensivo e gratuito nei confronti delle vittime
e del loro dolore. Chi ha perduto un familiare per una “leggerezza”
altrui non saprà più, nella sua vita, cosa è
la leggerezza. Misurarsi ogni giorno, ad ogni risveglio, col proprio
lutto e con il lutto dei propri familiari superstiti resterà
una condanna improba, la rovina della propria esistenza. Non ci
sarà alcuna condizionale che consenta di soprassedere a questo.
Sarà come passare dalle fondamenta di una casa ai trampoli
di una palafitta. Ancora, quindi: sono bilanciati il trattamento
sanzionatorio leggero riservato a chi ha ammazzato sulla strada,
e l’inaudito peso esistenziale che deve portare chi ha subito
il lutto?
La risposta è no, perché la giustizia si regge,
innanzi tutto, su una condizione di reciprocità. Uccidere
qualcuno sulla strada significa stroncare una vita, ma anche distruggere
una famiglia, altre vite.
Forse, allora, già il rispetto dovuto al dolore delle vittime
della strada dovrebbe indurre a riformare il sistema delle pene
in caso di incidente stradale. Occorre più deterrenza, e
sarebbe una deterrenza sana, che verrebbe insegnata già ai
giovani, a chi sta perdendo il senso del limite e potrebbe invece
già tornare a rappresentarselo su questo versante della vita
quotidiana, la strada, a quattordici anni quando si pone alla guida
di un motorino, come a diciotto quando si pone alla guida di un’auto.
Sarebbe come riconoscere, finalmente, la giustizia alle vittime
(forse, l’unico lenimento possibile), giustizia intesa nella
sua essenza intima di equità, equanimità, proporzione.
Sarebbe un presidio educativo ai giovani, offrirebbe il senso del
limite all’uomo qualunque, nell’interesse di chiunque.
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G.I.P. presso il Tribunale di Forlì.
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