di Lorenzo Borselli*
A.A.A.: cercasi autista da sfruttare, necessarie patenti superiori e capacità sovrumane per lavoro h24, 7 giorni su 7
Il “caporalato” non è solo raccolta di pomodori in Campania e Puglia: i “caporali” imperversano anche al Nord e sono un rischio per la sicurezza stradale
(ASAPS) – “Caporalato” nell’autotrasporto. Possibile? La Polizia Stradale di Busto Arsizio, in particolare l’Unità di Polizia Giudiziaria che si occupa di sviluppare e investigare sulle attività dei pattuglianti, ha dimostrato di sì, abbattendo una barriera prima di tutto ideologica, oltre che geografica. Eh sì, perché quando parliamo di “caporalato” siamo portati ad immaginare campi assolati di pomodori e lavoratori “in nero”, maestranze attinte alle corti dei “caporali”, spesso ex schiavi a loro volta oppure criminali alle prime armi, avviati alla gavetta del crimine organizzato in Campania o Puglia.
Invece, no: a metà gennaio di quest’anno, gli investigatori della Specialità della Sottosezione Autostradale di “Busto Arsizio-Olgiate Olona”, piantata in mezzo alla A8 a contrastare i traffici della Milano “nera” (si susseguono, in quell’avamposto, le operazioni di polizia con sequestri di droga, veicoli rubati e tanto altro ancora…), hanno suonato al campanello di un cittadino pakistano, da anni residente in Italia e che nel nostro Paese ha avuto un discreto successo: 46 anni, permesso di soggiorno a tempo indeterminato, un buon tenore di vita e la carica di presidente di una società cooperativa di trasporti nella vicina Cairate.
Eppure, dietro il sorriso smagliante di un uomo di successo – ma sì, quello dell’uomo che arriva da lontano, che parte dal nulla e riesce in ciò che fa e che per giunta aiuta anche agli altri assicurando loro un posto di lavoro, e quindi nella società – i poliziotti hanno visto ben altro.
La barriera è rotta da un altro straniero, che nel febbraio 2017 si presenta da loro e racconta che quell’uomo venuto da lontano, con quel sorriso così rassicurante, è in realtà un aguzzino, un disonesto, un grassatore. Un caporale.
E che faceva questo caporale?
Intanto, faceva lavorare tutti i suoi “soci” – perché nella cooperativa tutti dovrebbero essere più o meno uguali – “almeno” venti ore al giorno: l’autista, disperato, aveva raccontato ai poliziotti di Busto Arsizio che tra una giornata lavorativa e l’altra i “soci” potevano riposare più o meno dalle due alle tre ore, con inizio alle quattro del pomeriggio e ritorno l’indomani tra le 13 o le 14. Il tempo di una doccia e poi via di nuovo.
Si, okay, ma c’è il cronotachigrafo no?
Essere c’è, lo sappiamo tutti, ma l’ordine del “caporale” era preciso: allo scadere della nona ora, estrarre la scheda personale dal crono digitale o il “disco” da quello analogico: in quest’ultimo caso, il vecchio disco andava immediatamente distrutto. Ah, dimenticavamo: niente scarico dati dal sistema digitale, se non sporadicamente.
E i controlli?
Già. Il caporale aveva pensato anche a questo, e se capitava che qualche pattuglia della Polizia Stradale avesse pizzicato lo “schiavo” a “fare il furbo”, comunicando magari all’Ispettorato del Lavoro la necessità di approfondire la violazione, c’era una denuncia di furto o di smarrimento delle registrazioni, pronta da sporgere.
A chi si rifiutava, a chi crollava per la stanchezza, a chi rivendicava i propri diritti, il caporale applicava vere e proprie sanzioni, stabilite, in cuor suo, sulla base della perdita dei viaggi.
Esempio: proprio il primo coraggioso ribelle, aveva fermato il camion in area di servizio per fare la regolare “pausa”, provocando un ritardo nella tabella di marcia stabilita dal capo della cooperativa, il quale reagì decurtando al proprio “socio” autista quasi duemila euro. Praticamente un mese e mezzo di lavoro.
È quando si imbocca un’indagine di questo tipo che si comprende l’importanza di tenere vivo il fuoco della Polizia Stradale: di autisti costretti a lavorare in queste condizioni, ce ne sono purtroppo molti e quando non sono dipendenti di qualche azienda senza scrupoli (siamo sicuri siano poche) o soci di qualche cooperativa come quella finita nel mirino delle investigazioni, sono i piccoli artigiani, i cosiddetti “padroncini”, che per far fronte alla concorrenza sleale di un sistema che appare compromesso non solo dalla mancanza di regole che “uccidano” l’illecito, ma anche di controllori qualificati e in numero adeguato, costretti a loro volta a lavorare al di fuori della legge.
Nel caso di cui stiamo parlando, i GPS montati dagli investigatori sui veicoli della cooperativa, i lunghi pedinamenti condotti da una parte all’altra del Nord Italia e i riscontri delle intercettazioni telefoniche, hanno permesso di svelare, in maniera parossistica, ciò che avveniva sulla strada, ciò che consentiva l’arricchimento di pochi e ciò che provocava la devastazione umana e professionale di tutti coloro che erano “costretti” a lavorare a tali condizioni.
Alla fine, i coraggiosi che si ribellano al caporale, diventano cinque.
Anticipiamo altra domanda del lettore: “ma non potevano licenziarsi?”
Certo, ma la gente per vivere onestamente deve lavorare, con l’aspettativa di farlo secondo regole precise e tutele garantite. È lo stato di diritto a garantirlo, è la nostra Costituzione a prevederlo, è la disciplina del lavoro a specificarlo.
Invece qui, chi si ribellava finiva a casa: “non c’è lavoro per te oggi”, perché all’esasperato che si rifiuta si sostituisce il disperato che deve portare a casa la paga, fino a quando l’esasperato non diventa disperato a sua volta, e tutto ricomincia, come il peggiore dei circoli viziosi.
Insomma: un bel quadro di situazioni che andava avanti da anni, senza soluzione di continuità, come il caso di un ragazzo dell’Est che lavorava h24 sul proprio camion, cambiando nome ogni volta che il disco del cronotachigrafo completava il giro della giornata, percorrendo mille e più chilometri al giorno senza lasciare traccia, se non qualche firma sui documenti di trasporto e un bel gruzzolo nelle tasche del “caporale” di cui siamo ben contenti di non poter fare il nome (non lo sappiamo), circostanza questa che ci evita l’ipocrita obbligo di definirlo “presunto” in attesa del grado definitivo di giudizio.
Prima di andare oltre, chiudiamo il cerchio sul nostro caporale: all’alba del 18 gennaio, i poliziotti della Stradale di Busto Arsizio, insieme ai Carabinieri dell’Ispettorato del lavoro di Varese, suonano al campanello dello sfruttatore che, lo speriamo vivamente, almeno per un po’ la smetterà di ridere smargiasso, dimostrando a chi ne ha poi denunciato la condotta che quando lo Stato vuole, “può”.
Onore al merito dunque alla Unità Operativa di PG di quella sottosezione Autostradale, ai Carabinieri specialisti che li hanno coadiuvati, al Giudice che ha avuto il coraggio di riconoscere l’ipotesi accusatoria, altrettanto coraggiosamente formulata dal Pubblico Ministero, sperando che le prove schiaccianti raccolte siano ritenute tali anche in giudizio.
Recita l’imputazione: “…
- reiteratamente [l’indagato-caporale] corrispondeva ai lavoratori retribuzioni non in linea alle disposizioni del CCNL e sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
- reiteratamente violava la normativa in materia di orario di lavoro, riposo e ferie, imponendo agli autisti di guidare gli autoarticolati per moltissime ore consecutive, in contrasto con la disciplina degli orari massimi di guida e dei riposi obbligatori, e di ricorrere ad artifici per eludere eventuali controlli di polizia;
- non rispettava la normativa in materia di sicurezza sul lavoro, omettendo del tutto la informazione e formazione dei lavoratori.
Con le circostanze aggravanti di aver reclutato più di tre lavoratori, di aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro”.
L’imputazione, che per il Pubblico Ministero costituisce il perno su cui si fonda e si muove l'accusa, promossa tramite l'esercizio dell'azione penale, è, come si può osservare, estremamente semplice: l’articolo contestato è il 603 bis del codice penale (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro), così come “rinovellato” dall’art. 1 della Legge 29.10.2016, n. 199 entrata in vigore il 04.11.2016.
In precedenza altri reparti di Polizia Stradale avevano tentato la strada del “caporalato”, ma la vecchia formulazione limitava fortemente la possibilità di operare in tale ambito, prevedendo la norma che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque svolga un'attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l'attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori…”: dunque, bisognava che per aversi una condotta di “caporale”, venisse accertata una condotta che fosse “violenta”, “minacciosa” o “intimidatoria”. Cioè, bisognava che un lavoratore sfruttato alzasse la testa, già questo difficile, e denunciasse, potendolo dimostrate, di essere stato sfruttato da soggetti violenti, minacciosi o intimatori.
Quando il lavoratore è un operatore del trasporto, quando cioè tali condotte criminali vengono poste in essere in contesti nei quali siano direttamente coinvolte figure professionali dell’autotrasporto, la Polizia Stradale è un’arma formidabile al servizio della sicurezza stradale, perché le conseguenze più dirette dello sfruttamento di conducenti professionali, sono la stanchezza, il colpo di sonno, l’incidente, la tragedia.
La classe politica però è purtroppo spesso “distratta” da altre forme di emergenza legate al caporalato, o più in generale al fenomeno migratorio, ma l’indagine di Busto Arsizio segna la fine della ricreazione perché si è codificato in indagine ciò che gli operatori della Specialità sospettano e sanno da sempre, dovendosi però limitare alla contestazione amministrativa: in molte delle cabine di guida si consuma da anni una schiavitù terribile, fatta di solitudine, di disagi, di inganni e di danni devastanti per l’economia del nostro Paese e per una parte dell’UE: eh sì, perché la vecchia Europa è letteralmente tagliata in due da quella che Churchill aveva profeticamente definito la “cortina di ferro”. Secondo la Confcommercio, negli ultimi 10 anni (2009-2018) i traffici gestiti dai trasportatori italiani sono scesi del 70%, mentre quelli gestiti dalle imprese dell’Est Europa è cresciuto 200%. È evidente che la connivenza tra imprese disoneste – come quella smascherata dall’indagine varesina – e committenti in cerca di prezzi al maggior ribasso, siano una circostanza che la crisi, tuttora in atto, ha favorito.
Tutti sanno che esiste un sottobosco di illegalità, in questo e molti altri ambiti: ma chi non opera secondo le norme che gli Stati si danno, gioca al ribasso sulla pelle di tutti. Il conducente sfruttato, che non riposa e che deve correre, altera ad esempio i sistemi di crono-registrazione, bypassa i limitatori di velocità, sorpassa dove è vietato, viaggia su veicoli che le aziende o le cooperative non manutengono, facendone bombe a orologeria sulle strade nelle quali ci muoviamo tutti noi, che dipendiamo da essi per i bisogni del quotidiano.
Sappiamo, e questo lo diciamo per prevenire eventuali critiche, che nel 2017 le vittime di incidenti stradali sono state complessivamente 3.378, di cui “solo” 163 rappresentate da conducenti o occupanti di veicoli commerciali, ma nulla sappiamo di quanti eventi letali o con lesioni fisiche siano stati da essi provocati.
L’Europa latita, in questo campo: manca, ad esempio, un codice della strada europeo, al quale tutti gli stati membri debbano adeguarsi. Ma ciò che manca, lasciatecelo dire, è la capacità italiana di poter controllare con regolarità ed efficienza il trasporto su strada: nulla da dire sulla capacità crescente in materia di molte polizie locali, ma sulle autostrade non vediamo più i posti di controllo coi Centri Mobili di Revisione delle MCTC e la Specialità, a nostro personalissimo avviso, risente pesantemente della perdita del proprio ruolo di guida del Caps di Cesena, che oggi forma, sicuramente in maniera impeccabile, anche gli specialisti della Ferroviaria, della Postale e della Frontiera.
Si dice che quando un una risorsa umana (una persona) muoia prima del tempo – ad esempio un incidente stradale – la perdita di benessere da parte della società in seguito al decesso corrisponda al valore dell’output che sarebbe stato prodotto se la “risorsa” fosse rimasta in vita. Si chiama “capitale umano”, come ci ricorda la bellissima pellicola di Paolo Virzì. Ecco: la Polizia Stradale, con il suo sostanziale ripiegamento, sta perdendo l’occasione, secondo noi, di partecipare attivamente non solo alla perdita di capitale umano sulle strade, ma anche di concorrere al miglioramento della vita di tutti facendo, di fatto, un passo indietro proprio quando tutti ci saremmo aspettati il contrario, passo in avanti consistente. Quali i passi indietro? Ad esempio, nei mancati rinforzi e nella progressiva diminuzione degli organici nelle squadre di PG, molte delle quali composte da una/due persone, con carichi crescenti in ordine a controlli amministrativi oppure nei servizi di contrasto alla contraffazione delle polizze RC, reato ormai inesistente oltre che di valenza giuridica pari a zero. Pensate, che ci giunge notizia di pattuglie delle squadre di PG inviati in moto civetta a contestare illeciti amministrativi in città…
Insomma, come ritirarsi dall’Iraq proprio quando l’Isis sembra sconfitto. (ASAPS)
*Ispettore della Polizia di Stato
Responsabile Comunicazione di ASAPS
Uno duro spaccato del nostro Lorenzo Borselli su un fenomeno sconosciuto ai più sempre più vasto cha ha implicazioni gravi sulla sicurezza stradale. (ASAPS)