Nessuna
sorpresa di fronte all’aumento degli incidenti. L’aspetto su
cui concentrarsi è un altro: è arrivato il momento di scegliere
se stabilizzare questi risultati o regredire al livello di partenza. A
tirare le somme di quanto accaduto finora e tracciare uno schema per il
futuro è Mario Sai, coordinatore della Consulta nazionale
sulla sicurezza stradale, che a luglio, in occasione dell’ultima
riunione plenaria, ha messo nero su bianco cosa serve al nostro paese:
un’iniezione di risorse per svoltare definitivamente verso la riduzione
della mortalità sulle strade.
"Siamo a un bivio", dice Sai. "A questo punto, se la sicurezza
stradale è vissuta come una politica importante e ha adeguati finanziamenti
può cominciare a dimostrare la sua efficacia, altrimenti, continueremo
a fare allarmi spot sui singoli incidenti e non riusciremo a dimezzare
la mortalità, come prevede il piano europeo. La Finanziaria per
il 2005 ci dirà come stanno le cose".
Intanto, i dati dell’estate non sono incoraggianti...
La situazione tende a tornare al punto di partenza: lo avevamo previsto.
Dove è stata sperimentata la patente a punti questo effetto si
è già avuto. In Francia, dopo 10 anni, si è ottenuta
una riduzione stabile degli incidenti intorno al 10 per cento. Il motivo
è che la patente a punti è un intervento puramente di controllo
e repressione: non agisce sulle situazioni oggettive che creano pericolo
di incidente, ma tende a ridurre i comportamenti illeciti. Continua a
funzionare, se c’è una fortissima azione di controllo e repressione,
come avviene sulle autostrade della Danimarca e in Gran Bretagna. Una
ricerca statunitense sostiene che un divieto è rispettato se c’è
almeno il 40 per cento di probabilità di essere sanzionati: in
Italia tale rischio per l’eccesso di velocità è nell’ordine
dell’1 per cento.
Allora, è tutto normale: dobbiamo accontentarci?
No, niente è normale. La Consulta ha sempre sostenuto che la patente
a punti è un buon intervento se è accompagnato da provvedimenti
che lo fanno apparire come una cosa seria e se è parte di tanti
altri interventi, a livello locale, perché l’80 per cento
degli incidenti e il 40 per cento dei decessi avvengono in area urbana.
Dopo un anno, però, la patente a punti non mostra tutti gli aspetti
di serietà: la banca dati centrale fatica a funzionare, le sanzioni
arrivano troppo tardi, il recupero dei punti decurtati o della patente
finisce per essere più una supermulta che un vero corso di insegnamento
a una guida più sicura e responsabile. In Francia, da quest’anno
nelle commissioni che riassegnano la patente o i punti c’è
uno psicologo specializzato nei comportamenti alla guida, che molte volte
riesce a intervenire sul problema del guidatore che causa l’incidente.
In Germania c’è una lista nera, con i nomi delle persone che
hanno una propensione agli incidenti e alle quali infine non si concede
più la patente. Da noi, si va in una scuola guida, si tirano fuori
200-250 euro e si riprende la patente. Si crede che la patente sia un
diritto, invece è un permesso. Non è un caso che in Italia
il tizio che ha ucciso due persone e ha fatto due mesi di galera, esce,
riprende la patente e ne uccide altre tre.
L’intervista
"Accade come il casco, la reazione positiva si allenta"
"Con la patente a punti stiamo assistendo allo stesso fenomeno che
ha accompagnato l’introduzione dell’obbligo del casco: la reazione
compatta registrata all’inizio col tempo si è allentata un
po’, specie nei piccoli centri e in alcune città, dove c’è
tolleranza". Il parallelo è immediato per Giancarlo Dosi,
ricercatore dell’Istituto superiore di sanità e autore
di una Guida alla sicurezza stradale, che recepisce tutte le novità
del Codice della strada e si propone come strumento per la formazione
degli studenti.
Al netto dell’assuefazione seguita all’entusiasmo iniziale,
la situazione complessivamente è migliorata per l’uso del
casco. Il sistema Ulisse dell’Istituto, che monitora l’uso
dei dispositivi di protezione (casco e cinture), testimonia che l’adesione
al nuovo obbligo riguarda ormai il 95 per cento dei ciclomotoristi, vale
a dire il 99 per cento al Nord, il 93 al Centro e l’87 nel Sud.
"Dire che il casco ti salva la vita è ormai un luogo comune,
anche i ragazzi lo sanno", dice Dosi. "Dall’indagine condotta
dall’Istituto intervistando 25mila studenti di 20 regioni
risulta che i giovani considerano utile il casco, ma che spesso non
lo indossano". Resta da capire il perché. "Il 60
per cento dei nostri ragazzi sale sulle due ruote a 14 anni, ma fino a
quell’età non riceve alcuna formazione", osserva il ricercatore.
"Come esempio hanno i genitori, che spesso guidano senza preparazione,
specie quando entrano in vigore le novità. Prendiamo le autostrade
a 3 corsie: pochissimi automobilisti sanno di dovere occupare la corsia
di destra, perché fino a poco tempo fa era riservata ai
veicoli lenti; quasi nessuno è consapevole del divieto di sorpasso
sulle corsie di introduzione a una strada principale e sempre meno
conducenti rispettano l’obbligo di dare la precedenza".