Nel
numero del mese di maggio 2001 di questa rivista abbiamo riferito di un’interessante
ordinanza con cui il giudice di pace di Cesena, in data 6 novembre 2000,
trasmise gli atti alla Corte Costituzionale sollevando questione di legittimità
costituzionale dell’art. 171 del codice della strada nella parte dove
questa norma non prevede casi di esenzione dall’uso obbligatorio del
casco per i conducenti di veicoli a due ruote, analoghi ai casi previsti
dall’art. 172 lett. f) del codice della strada per l’obbligo di
usare le cinture di sicurezza, ossia relativi a particolari patologie che
costituiscano controindicazione all’uso del casco.
L’occasione era stata determinata dalla vicenda di una persona che,
sorpresa alla guida di ciclomotore senza casco (infrazione ex art. 171 del
codice della strada), aveva addotto di soffrire di nevrosi depressiva con
claustrofobia, in relazione alla quale l’uso di uno strumento costrittivo
come il casco sarebbe stato controindicato. Nel commentare l’ordinanza,
avevamo rilevato che entrambe le norme in questione, gli artt. 171 e 172
del codice della strada, contemplano ipotesi di esenzione tassative, in
quanto nessuna delle due richiama elementi generalizzanti, e che ad entrambe
è riconoscibile una eguale specifica finalità, la tutela della
sicurezza e della salute sulla strada. Avevamo anche sottolineato che sia
il casco che le cinture di sicurezza inducono costrizione, e sono strumenti
idonei a “risvegliare” patologie di tipo claustrofobico (con il
rischio tipico di un conseguente attacco di panico, patologia che da ormai
una decina d’anni la moderna nosografia psichiatrica ha classificato
e messo a fuoco, e la conseguenza di comportamenti incontrollabili, pericolosissimi
se chi ne è colto è alla guida di un mezzo).
La Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 348 del 5-6 novembre 2001,
ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione con una motivazione,
nella sostanza, ristretta a sei righe. Premettendo che le ragioni di tutela
poste a fondamento dell’obbligo di indossare il casco sono strettamente
legate alle caratteristiche strutturali del veicolo (a due ruote e non a
quattro), e che quindi divergono sul piano della finalità, la Corte
ha quindi affermato che non vi sono motivi per ritenere estensibile la disciplina
prevista per le cinture di sicurezza a quella che regola l’uso obbligatorio
del casco. In altre parole, per chi si pone alla guida di un veicolo a due
ruote, deve ritenersi bene prevalente la tutela dal rischio di traumi al
capo rispetto alla tutela dal rischio di crisi di panico e atti incontrollabili.
Ciò, diversamente da quanto accade per chi guida un’autovettura
dentro un abitacolo, il quale, comunque, protegge il capo dal contatto rovinoso
con l’ambiente esterno.
In altre parole, la Corte ha ravvisato un’applicazione particolare
del principio dell’indisponibilità del bene dell’integrità
fisica e della salute. A nostro avviso, però, restano dei dubbi.
Innanzitutto (e già lo avevamo fatto notare nel precedente intervento
su questa rivista), il rischio va valutato non solo in relazione a chi guida,
ma a tutti gli utenti della strada, che si trovano così esposti al
pericolo di incontrare sulla propria via una persona soggetta a rischio
di “convul-sioni” alla guida di un ciclomotore o di un motociclo.
Inoltre, anche se il capo resta protetto dal casco, in
caso di crisi di panico alla guida e perdita del controllo, il motorista
rischia comunque altri traumi assai invalidanti (alla spina dorsale, ad
esempio) e, in ogni caso, sempre la morte, legata alla multiforme e irripetibile
dinamica di qualsiasi evento infortunistico che si verifichi sulla strada
e alle tantissime relative componenti (velocità, presenza di altri
veicoli antagonisti, condizioni della strada, e via elencando). Questa pronuncia
sembra inoltre pregiudicare la evocabilità della scriminante dello
stato di necessità. Anche di questo risvolto avevamo parlato, dicendo
che non era possibile la sua configurazione, mancando il presupposto di
una situazione eccezionale, episodica, da neutralizzare con il comportamento
normalmente illecito (assenza di casco). La circolazione stradale, infatti,
in sé, non è un fatto eccezionale, ma ordinario, tipico della
vita quotidiana di ognuno (a meno che non vi sia una situazione eccezionale
che la determini, come, ad esempio, trasportare all’ospedale una persona
ferita). Ma a questo punto, la Corte ha risolto ancora più in radice
la questione delle ricorribilità dello stato di necessità.
Essendo prevalente il rischio di traumi al capo, e non potendo tale rischio
essere sopravanzato nemmeno da una patologia diversa e concomitante che
sconsigli l’uso di strumenti costrittivi come il casco, allora, non
v’è proprio nulla che possa legittimare l’elusione del
rischio di traumi e lesioni fisiche e neurologiche alla testa, rischio da
considerare preminente su tutto. Risultato finale: i claustrofobici che
temono che l’uso del casco faccia loro perdere il controllo del veicolo
è meglio che si astengano dalla guida di motocicli e ciclomotori.
Non sembra che possano poi invocare nulla a loro scusante. Quanto questo
risultato possa pesare su fattori edonistici e sull’importanza di tali
fattori è poi secondario.
In ogni caso, ci si può permettere un’ultima considerazione.
La libertà di locomozione è un aspetto della libertà
di movimento, la quale, a sua volta, è una libertà fondamentale,
costituzionalmente garantita. La salute, inoltre, è un bene personale.
Anche qui, di nuovo, in questa “piccola” questione, lo Stato interviene
arrogandosi la prerogativa di decidere quanto della propria integrità
psico-fisica e della propria salute il singolo possa sacrificare e possa
rischiare, a fronte della tutela di altri beni o di altri aspetti particolari
del medesimo bene (qui, la salute) che lo Stato stesso designa, unilateralmente,
come assolutamente prevalenti.
Ma queste considerazioni si iscrivono in uno scenario etico e giuridico
assai più vasto, quello del limite della libertà individuale,
quando l’espressione di questa libertà non comprometta un’eguale
sfera di libertà e di tutela di un’altra persona. E’ la
stessa problematica che, massimo grado, sfocia in grandi temi quale, ad
esempio, quello dell’eutanasia, dove ci si deve chiedere fino a che
punto possa spingersi la libertà del singolo e fino a che punto lo
si possa obbligare a tenersi una dimensione psico-fisica quando egli vorrebbe
“amministrarla” diversamente.
*G.I.P. Tribunale di Forlì
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