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Articoli 31/03/2004

La Corte Costituzionale su casco e claustrofobia



La Corte Costituzionale su casco e claustrofobia
di Michele Leoni*

 
 

Nel numero del mese di maggio 2001 di questa rivista abbiamo riferito di un’interessante ordinanza con cui il giudice di pace di Cesena, in data 6 novembre 2000, trasmise gli atti alla Corte Costituzionale sollevando questione di legittimità costituzionale dell’art. 171 del codice della strada nella parte dove questa norma non prevede casi di esenzione dall’uso obbligatorio del casco per i conducenti di veicoli a due ruote, analoghi ai casi previsti dall’art. 172 lett. f) del codice della strada per l’obbligo di usare le cinture di sicurezza, ossia relativi a particolari patologie che costituiscano controindicazione all’uso del casco.
L’occasione era stata determinata dalla vicenda di una persona che, sorpresa alla guida di ciclomotore senza casco (infrazione ex art. 171 del codice della strada), aveva addotto di soffrire di nevrosi depressiva con claustrofobia, in relazione alla quale l’uso di uno strumento costrittivo come il casco sarebbe stato controindicato. Nel commentare l’ordinanza, avevamo rilevato che entrambe le norme in questione, gli artt. 171 e 172 del codice della strada, contemplano ipotesi di esenzione tassative, in quanto nessuna delle due richiama elementi generalizzanti, e che ad entrambe è riconoscibile una eguale specifica finalità, la tutela della sicurezza e della salute sulla strada. Avevamo anche sottolineato che sia il casco che le cinture di sicurezza inducono costrizione, e sono strumenti idonei a “risvegliare” patologie di tipo claustrofobico (con il rischio tipico di un conseguente attacco di panico, patologia che da ormai una decina d’anni la moderna nosografia psichiatrica ha classificato e messo a fuoco, e la conseguenza di comportamenti incontrollabili, pericolosissimi se chi ne è colto è alla guida di un mezzo).
La Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 348 del 5-6 novembre 2001, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione con una motivazione, nella sostanza, ristretta a sei righe. Premettendo che le ragioni di tutela poste a fondamento dell’obbligo di indossare il casco sono strettamente legate alle caratteristiche strutturali del veicolo (a due ruote e non a quattro), e che quindi divergono sul piano della finalità, la Corte ha quindi affermato che non vi sono motivi per ritenere estensibile la disciplina prevista per le cinture di sicurezza a quella che regola l’uso obbligatorio del casco. In altre parole, per chi si pone alla guida di un veicolo a due ruote, deve ritenersi bene prevalente la tutela dal rischio di traumi al capo rispetto alla tutela dal rischio di crisi di panico e atti incontrollabili. Ciò, diversamente da quanto accade per chi guida un’autovettura dentro un abitacolo, il quale, comunque, protegge il capo dal contatto rovinoso con l’ambiente esterno.
In altre parole, la Corte ha ravvisato un’applicazione particolare del principio dell’indisponibilità del bene dell’integrità fisica e della salute. A nostro avviso, però, restano dei dubbi. Innanzitutto (e già lo avevamo fatto notare nel precedente intervento su questa rivista), il rischio va valutato non solo in relazione a chi guida, ma a tutti gli utenti della strada, che si trovano così esposti al pericolo di incontrare sulla propria via una persona soggetta a rischio di “convul-sioni” alla guida di un ciclomotore o di un motociclo.
Inoltre, anche se il capo resta protetto dal casco, in
caso di crisi di panico alla guida e perdita del controllo, il motorista rischia comunque altri traumi assai invalidanti (alla spina dorsale, ad esempio) e, in ogni caso, sempre la morte, legata alla multiforme e irripetibile dinamica di qualsiasi evento infortunistico che si verifichi sulla strada e alle tantissime relative componenti (velocità, presenza di altri veicoli antagonisti, condizioni della strada, e via elencando). Questa pronuncia sembra inoltre pregiudicare la evocabilità della scriminante dello stato di necessità. Anche di questo risvolto avevamo parlato, dicendo che non era possibile la sua configurazione, mancando il presupposto di una situazione eccezionale, episodica, da neutralizzare con il comportamento normalmente illecito (assenza di casco). La circolazione stradale, infatti, in sé, non è un fatto eccezionale, ma ordinario, tipico della vita quotidiana di ognuno (a meno che non vi sia una situazione eccezionale che la determini, come, ad esempio, trasportare all’ospedale una persona ferita). Ma a questo punto, la Corte ha risolto ancora più in radice la questione delle ricorribilità dello stato di necessità. Essendo prevalente il rischio di traumi al capo, e non potendo tale rischio essere sopravanzato nemmeno da una patologia diversa e concomitante che sconsigli l’uso di strumenti costrittivi come il casco, allora, non v’è proprio nulla che possa legittimare l’elusione del rischio di traumi e lesioni fisiche e neurologiche alla testa, rischio da considerare preminente su tutto. Risultato finale: i claustrofobici che temono che l’uso del casco faccia loro perdere il controllo del veicolo è meglio che si astengano dalla guida di motocicli e ciclomotori. Non sembra che possano poi invocare nulla a loro scusante. Quanto questo risultato possa pesare su fattori edonistici e sull’importanza di tali fattori è poi secondario.
In ogni caso, ci si può permettere un’ultima considerazione. La libertà di locomozione è un aspetto della libertà di movimento, la quale, a sua volta, è una libertà fondamentale, costituzionalmente garantita. La salute, inoltre, è un bene personale. Anche qui, di nuovo, in questa “piccola” questione, lo Stato interviene arrogandosi la prerogativa di decidere quanto della propria integrità psico-fisica e della propria salute il singolo possa sacrificare e possa rischiare, a fronte della tutela di altri beni o di altri aspetti particolari del medesimo bene (qui, la salute) che lo Stato stesso designa, unilateralmente, come assolutamente prevalenti.
Ma queste considerazioni si iscrivono in uno scenario etico e giuridico assai più vasto, quello del limite della libertà individuale, quando l’espressione di questa libertà non comprometta un’eguale sfera di libertà e di tutela di un’altra persona. E’ la stessa problematica che, massimo grado, sfocia in grandi temi quale, ad esempio, quello dell’eutanasia, dove ci si deve chiedere fino a che punto possa spingersi la libertà del singolo e fino a che punto lo si possa obbligare a tenersi una dimensione psico-fisica quando egli vorrebbe “amministrarla” diversamente.

*G.I.P. Tribunale di Forlì


di Michele Leoni

Mercoledì, 31 Marzo 2004
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