Incidente a Verona, lo strazio della mamma di Francesca e Chiara Mercurio
Una madre lo sa. Lo sa prima che il gelo della sventura bussi alla porta con la divisa di un carabiniere o la faccia sconvolta di un parente. Questa donna, ancora giovane e già vestita di nero, rigida come una statua in mezzo al corridoio di una casa spoglia, sapeva. Si vede una casa ancora da finire, l’amore che la abitava e il posto che accompagna la nascita di una nuova famiglia. Ed è terribile come il freddo della sciagura entra e geli tutto, fermi le vite, sospenda i lavori da fare e come tutto si faccia testimone di morte. Lei sapeva. All’una e un quarto, quando il telefono di Francesca non rispondeva ha preso la macchina ed è corsa incontro a quel gelo, prima che arrivasse con la faccia del carabiniere o quella di un parente sconvolto. Si è messa la volante e ha fatto quei pochi chilometri che separano Ronco dalla frazione Pilastro. Da lì erano passati, da lì dovevano tornare, le sue due figlie Chiara e Francesca e il Luca, il fidanzato della maggiore. Ha guidato, ha visto il crocchio dei curiosi. La luce blu delle forze dell’ordine, l’ambulanza, si è fermata quando una paletta le si è parata e ha chiesto di passare con il cuore che le sobbalzava nel petto. Sapeva. Ha detto chi era e quando ha capito che i carabinieri non la trattavano come una semplice curiosa l’angoscia è esplosa. Davanti a lei c’era la macchina accartocciata di Luca.
I vigili del fuoco
I corpi erano ancora dentro e i vigili del fuoco stavano lavorando di pinze e tenaglie. Due carabinieri pietosi con i loro corpi le impedivano di vedere. Via Crosarona è alla periferia di Ronco. La casa dei Mercurio è l’ultima. Ed è sera quando tutto il paese già sa, così piccolo che il lutto ha fatto presto a prenderlo, viaggiando di bocca in bocca, abbassando le voci di questo sabato sera. Tacciono tre ragazzi su una panchina, sono amici di Francesca. Chiara la vedevano ogni giorno uscire di casa e prender il bus per la scuola Medici. Non hanno il coraggio di salire la breve rampa di scale esterne che dà al primo piano della casa, vorrebbero forse ma non sanno, «domani magari, non ora, non ce la facciamo». Arriva una macchina, ne scende una giovane coppia. Passa anche l’intruso perché le maglie larghe del dolore non si sono ancora chiuse ed è inerme e permeabile questo dolore che non chiede conto di nessuno e accetta la consolazione di tutti. Il nonno non ce la faceva più a stare in casa. È fuori, ai piedi della scala. Una rampa e un pianerottolo. La signora Mercurio è la statua di disperazione in fondo al corridoio. «Non mi hanno lasciato vedere. Non le ho neanche abbracciate questa mattina, troppe cose da fare alle 6 e mezza, mi sono uscite di casa e non le ho abbracciate». Le parole le escono con il respiro che cerca aria e quasi la soffoca. Lo ritrova, parla Rincorre e si aggrappa agli ultimi istanti, tutti incompiuti, banalissimi istanti, insignificanti fino a che la morte non ce li rende d’improvviso preziosi. È così che chi resta cerca una ragione nell’irragionevole e si dispera per averli lasciati andare senza averli fermati un attimo ancora, un gesto ancora. Luca, Luca lo ha visto un amico al bar della Mara, alle Cave. «Vado a prendere Chiara – ha detto – sai Chiara esce da scuola. Ci accompagna che vado con Francesca a fare una visita all’ospedale di Legnago».
Fidanzati
Erano fidanzatini, stavano insieme da qualche mese. Le famiglie erano d’accordo. Ci sono due ragazze su un muretto. Piangono, «abbiamo fatto le elementari e le medie con Francesca». Una madre arriva d’improvviso, chiede e se le porta via: «Non è il momento». Sabato sera, ultimi acquisti per la casa. Le madri che incontri per strada, le donne con meno di 40 anni hanno tutte un figlio o una figlia di quell’età, e tutte conoscevano i figli delle altre, tutte le madri di Ronco hanno l’ultimo pezzo di vita da raccontare insieme prima dello schianto. Per cui ogni madre rabbrividisce al pensiero dei propri figli vivi e agli istanti che ancora hanno la possibilità di fermare. Quei ragazzi sulla panchina hanno l’età della patente. Claudio la conosce bene quella curva. «Invita alla velocità ma ti frega perché l’asfalto è irregolare, ci sono delle cunette che ti fanno sbandare. Ci sono andato anch’io via di culo con la macchina». Stanno lì seduti e ancora non hanno deciso se salire quelle scale di dolore che portano al primo piano. Si diceva della casa da finire e di una famiglia che se la stava costruendo. È vero, la signora Mercurio l’aveva cominciata qualche anno fa con il nuovo compagno, carpentiere che ci lavorava i sabato e la domenica nel tempo libero, aggiungendo le piastrelle dove mancavano, il lampadario dove non c’era, un bravo ragazzo con un velo di barba che ora sembra incredibilmente giovane e che se ne sta in disparte dall’altro lato del corridoio. Fino a che, gentilmente, si scusa e accompagna l’intruso alla porta. Il padre biologico delle ragazze vive e lavora a Modena, «ho cercato di chiamarlo, volevo che lo sapesse dalla madre dei suoi figli ma un carabiniere mi ha detto che no, io non ero in grado, io non lo sono. So che è in viaggio, deve venire su da Modena». Ci sono dei cani in fondo scala chiusi dentro uno sgabuzzino, non abbaiano, latrano ed è come fossero impazziti di dolore anche loro. Don Davide nel pomeriggio ha indetto una veglia. Oggi è domenica e qualcun altro troverà il coraggio di andare dalle famiglie, questa di cui abbiamo rubato lo strazio e quella di Luca Verdolin, 23 anni, figlio unico per la quale per fortuna non abbiamo avuto il tempo né il cuore per andarla a visitare.
La cronaca di uno strazio. (ASAPS)