Danno
da "trappola stradale"
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Un passante cade inciampando in un tombino che sporge lievemente dal manto stradale. Due automobili collidono ad un incrocio in cui i segnali verticali di precedenza erano stati abbattuti e mai ripristinati dai cantonieri comunali. Il semaforo proietta luce verde in una direzione ma la lanterna dall’altra parte era fulminata: l’automobilista passa e succede il patatrac. Il fondo stradale è sdrucciolevole, le ruote perdono aderenza e l’auto sbanda. La ghiaia in curva toglie aderenza alle ruote: l’automobilista perde il controllo del mezzo e va per la tangente. Tutti casi di insidia stradale: tutte ipotesi dove si intravede lo zampino della pubblica amministrazione la quale, quindi, inesorabilmente viene chiamata a pagare i danni. Ma quando sussiste veramente la responsabilità della pubblica amministrazione? In quali casi concreti l’utente danneggiato può puntare l’indice sull’ente pubblico per vedere riconosciuto il risarcimento del proprio danno? Due recenti sentenze (Cass. civ., III, 13 febbraio 2002, n. 2074 e Cass. Civ., III,, 13 febbraio 2002, n. 2067) tornano su questo argomento dibattuto oramai da un secolo. Sì, perché è dal 1900, che la pubblica amministrazione viene chiamata a rispondere dei danni riportati dagli utenti, vuoi per la cattiva manutenzione delle strade, vuoi per il mancato ripristino o per l’omessa apposizione di segnaletica, vuoi ancora per la pericolosità di buche e cantieri stradali. Il problema, diciamolo, è vecchio quanto l’automobile o comunque quanto l’esplosione della mobilità intesa in senso moderno (nessun carrettiere si sarebbe rivolto allo Stato per la riparazione della ruota finita in un fosso). Non che il risarcimento competa solo all’automobilista, intendiamoci, poiché è piuttosto frequente che a rimanere vittime delle insidie dell’asfalto siano utenti deboli come pedoni e ciclisti. Ma procediamo con ordine per desumere, da queste ultime e dalle precedenti decisioni della Cassazione, alcune regole pratiche sul quando e sul come richiedere il risarcimento nei particolari casi in cui si prospetti la responsabilità dell’ente pubblico. Innanzitutto chiediamoci a quale titolo la pubblica amministrazione dovrebbe pagare. Su questo, nel tempo si sono definiti due diversi orientamenti dei giudici: per alcuni la responsabilità deriva dalla cattiva vigilanza sui beni di proprietà (le strade, appunto) per cui si configurerebbe una classica "responsabilità per i danni cagionati dalle cose in custodia" con la conseguente applicabilità dell’art. 2051 del codice civile; con il ricorso a tale articolo non è d’accordo però la giurisprudenza prevalente secondo la quale, invece, l’amministrazione pagherebbe solo quando non abbia osservato il generale principio del neminem ledere (non danneggiare gli altri), con la conseguente applicabilità dell’art. 2043 dello stesso codice. Questione di lana caprina ? Niente affatto: il ricorso all’una invece che all’altra norma comporta notevoli conseguenze sul piano pratico. Applicandosi l’art. 2051, la pubblica amministrazione si troverebbe a pagare, tutte le volte che obbiettivamente si rilevi un difetto di manutenzione, salvo che provi che il danno è frutto di un caso fortuito. Qui, il danneggiato non deve provare l’esistenza di una "insidia", così come non ha l’onere di provare la condotta commissiva (es. l’ente ha aperto un cantiere stradale senza segnalarlo) od omissiva (non ha ripristinato un cartello) del custode, essendo sufficiente che provi l’evento danno ed il nesso di causalità con la cosa (Cass. 22 aprile 1998, n. 4070; Cass. 20 novembre 1998; n. 11749; Cass. 21 maggio 1996, n. 4673). In parole più semplici, basta che provi l’esistenza della buca e di esserci caduto dentro. Applicandosi l’art. 2043, invece è l’utente che deve portare la prova del danno subito, della sussistenza di un pericolo, ma anche dell’esistenza di un "insidia" o di un "trabocchetto" in cui è caduto nonostante la propria attenzione e diligenza. Ecco il punto: l’insidia, ovvero il pericolo improvviso ed inaspettato; il trabocchetto, cioè il pericolo nascosto. Sostenere invece che la pubblica amministrazione - nell’esercizio dell’obbligo di custodia dei propri beni - debba conoscere e vigilare, palmo, palmo, le proprie strade per colmare buche e raddrizzare cartelli, anche nei posti più ameni, rappresenta una pretesa eccessiva. Per questo la Cassazione rifiuta l’idea che una norma come quella dell’art. 2051 (risarcimento del danno cagionato da cosa in custodia) possa applicarsi anche a quei beni che, seppure demaniali, per vasta estensione e soprattutto per la fruibilità e l’uso indiscriminato da parte dei cittadini utenti non sono effettivamente controllabili (Cass. 27 dicembre 1995, n. 13114; Corte Cost. 10 maggio 1999, n.156. inapplicabilità). Così, in qualche caso il risarcimento è stato attribuito, ma solo quando l’utente ha dimostrato di essere rimasto vittima di un pericolo non apprezzabile attraverso le normali cautele di chi circola. Volendone trarre un criterio generale, il comune, la provincia, l’Anas, non devono tradire quel ragionevole affidamento di chi guida sull’apparente regolarità della strada: di qui l’obbligo di eliminare per tempo o almeno segnalare tutte quelle anomalie che si rivelerebbero una brutta sorpresa per chi guida (Sent. Pret. Eboli 11.12.1989 - sent. Pret. Eboli 23.4.90). Non che questo affidamento sia tutto ai fini del coinvolgimento della pubblica amministrazione nella colpa del sinistro: diciamo che rappresenta solo uno dei numeri della combinazione che apre i forzieri dell’ente al risarcimento del danno. Gli altri numeri li deve fornire l’utente danneggiato dimostrando di aver circolato ad occhi aperti, evitando le più evidenti irregolarità del percorso. Può chiedere di essere risarcito dunque chi ha trovato l’asfalto particolarmente sdrucciolevole ed ha sbandato nonostante il rispetto dei limiti di velocità; chi ha incontrato profonde buche non segnalate, magari dopo una curva o passando dalla salita al pendio (Cass. sent. 16.5.1989); chi è rimasto vittima del cedimento del manto bituminoso stradale; chi ha slittato su un lastrone di ghiaccio presente da settimane e settimane e non rimosso dai cantonieri della strada (sent. Pretore Macerata 28.5.1992). Non ogni pericolo, quindi, può essere considerato insidia: questa si configura solo dalla combinazione dell’elemento obiettivo della non visibilità con quello soggettivo della non prevedibilità. E’ stata risarcita una signora che camminando sul vialetto del cimitero comunale di Milano è inciampata in un tombino appena sporgente (sent. Corte app. Milano 28.10.1980). Emblematico, per capire il concetto di trabocchetto, un vecchio caso oggetto di decisione da parte dei giudici di Brescia (sent. Corte app. Brescia 11.5.1971): cade copiosa la neve nella zona montuosa, le strade sono strette e tortuose, arriva uno spazzaneve con una benna addirittura più larga della carreggiata stessa. Raschiando il fondo stradale la benna crea una larga pista imbiancata. L’impressione è che la strada si sia allargata, ma in realtà la neve nei fossi laterali è stata spianata dando la visione di un’unica larga carreggiata virtuale. La prima auto che arriva allargando la curva si trova con le ruote nel fosso e rotola: l’autista è caduto nel trabocchetto creato dallo spazzaneve. Credeva di viaggiare sull’asfalto ed invece sotto c’era il fosso occultato dal leggero strato di neve depositato dal mezzo di soccorso. Non che la manutenzione della segnaletica stradale non sia, allo stesso modo, importante fonte di colpa della pubblica amministrazione. Con riferimento all’altro titolo di responsabilità (art. 2043 c.c.) diverso da quella per danno da cosa in custodia di cui all’art. 2051 cod. civ. la Corte di Cassazione ha individuato una situazione di insidia per gli utenti della strada (quale figura sintomatica di colpa costruita in base ad una valutazione di normalità) con conseguente responsabilità della pubblica amministrazione, in caso di segnali o cartelli erronei e contraddittori che pongano gli utenti nell’impossibilità di discernere tempestivamente il segnale o cartello valido in modo da regolare conformemente la propria condotta di guida (Cass. 12 marzo 1980, n. 1677); nel caso di impianto semaforico che ad un incrocio stradale segni verde per i veicoli provenienti da una data direzione e proietti luce intermittente o nessuna luce per i veicoli provenienti da direzione diversa, sussistendo entrambi gli elementi che caratterizzano la situazione di insidia e, cioè, quello oggettivo della non visibilità del pericolo e quello soggettivo della non prevedibilità di esso (Cass. 7 ottobre 1998, n. 9915; Cass. 28 gennaio 1981, n. 803); nel caso di mancanza di cartelli stradali, perché rimossi da terzi, e conseguente invisibilità di un cantiere aperto sulla strada per l’esecuzione di lavori in concessione dell’Anas (Cass. 25 settembre 1990, n. 9702; Cass. 23 novembre 1998, n. 11855). Il fattore comune ricorrente nelle situazioni anzidette è costituito da una situazione di contrasto tra le condizioni di transitabilità reali e quelle apparenti, non percepibile dall’utente della strada con l’uso della normale diligenza. Cosa diversa è quando la segnaletica è stata abbattuta ma è sufficiente ed idoneo a regolare la circolazione il rispetto del codice della strada. Tutto questo vale, però, a patto che il conducente non potesse evitare il danno attraverso una attenta condotta di guida. Sì, perché l’art. 1227, c.1, del codice civile stabilisce che il risarcimento non è dovuto per i danni causati al debitore dal suo comportamento colposo (Cass. 3 dicembre 1999, n. 13460; Cass. 22 maggio 1986, n. 3408). Insomma niente soldi se il guidatore, avendo avuto la possibilità di elidere o ridurre i danni, usando l’ordinaria diligenza, non l’abbia fatto (Cass. 20 febbraio 1984, n. 1203; Cass. 13 marzo 1987, n. 2655). Non sparate sulla pubblica amministrazione, dunque. Ognuno ci metta del suo. Percorrete la strada ad occhi bene aperti lanciati tutti in un grande slalom tra le insidie ed i trabocchetti, sulla pericolosa pista della mobilità moderna.
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Funzionario della Questura di Forlì |