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Articoli 07/04/2003

La storia: Simona, poliziotta italiana in Kosovo

Vi raccontiamo di una donna forte che con la divisia della Polizia ha ricoperto un ruolo importante

La storia
Simona, poliziotta italiana in Kosovo
Vi raccontiamo di una donna forte che con la divisia della Polizia ha ricoperto un ruolo importante


di Lorenzo Borselli

L’agente scelto Simona Spinelli con il fuoristrada di servizio della Trafic Unit 

 

Dechani, Kosovo, provincia di Pec, 2002. La Toyota bianca e rossa delle Nazioni Unite sfreccia in quello che resta della carreggiata, sforacchiata come un groviera adagiato sull’asfalto, consumato dagli 88 millimetri della guerriglia. Piove, fa freddo, ma ancora non nevica. Il lampeggiante riluccica sui cartelli caduti, mentre la pioggia e il vento sferzano il parabrezza. La bandiera blu dell’Onu volteggia appesa all’antenna della radio, gioca con il vento, si arrotola e poi si dispiega. A bordo una ragazza, armata fino ai denti, coi lunghi capelli raccolti dietro in una coda che sbuca dal basco, anch’esso blu. Ë vestita come un "celerino", con la pistola bassa nella fondina cosciale, con il pass internazionale che sventola appeso alla lampo del giaccone in goretex. Il suo sguardo Ë teso sulla strada che di asfalto ha solo i bordi, mentre la pioggia rende tutto uniforme e i blindati saltati sulle mine della guerra appena finita fanno un sinistro capolino dalla nebbia dei fossati. Ë l’ultimo giorno alla sua Polizia Stradale, l’ultimo giorno della sua prima missione internazionale durata in tutto 20 mesi, alla testa di un manipolo di soldatacci dell’UCK, quelli che durante la guerra sfoggiavano alla CNN le lise mimetiche con le aquile rosse ricamate sulle spalle, cresciute con loro, imbracciando fieri il fucile mitragliatore più diffuso nel terzo mondo, il Kalaschnikov, baionetta in testa. Ora sono loro, la nuova polizia locale del Kosovo. Sono loro che tentano di saltare il fosso dalla guerra alla pace, dall’epoca dei cecchini a quella dei controlli. La ragazza Ë italiana, si chiama Simona Spinelli, di San Gimignano. Parla correntemente l’inglese e un paio di altre lingue, compresa quella locale. Spara come un soldato dei gruppi speciali ed Ë un’agente scelto della Polizia di Stato italiana. Viene dal Reparto Perevenzione Crimine della Toscana, che oggi Ë inglobato in quello del Lazio. Ha superato durissimi stage di selezione e addestramento. Oggi comanda i partigiani albanesi di ieri. Ë stata dura vincere la loro resistenza alla donna, ma alla fine ce l’ha fatta.

Ora Simona corre sulla strada di Junik, quasi rabbiosa, mentre la radio gracchia istruzioni nello slang americano di un altro comando di polizia internazionale nell’autunno della Ex Jugoslavia. O di ciò che di essa resta. L’arrivo alla caserma, le armi che tornano negli armadi, le mantelle intrise di acqua, gli anfibi pieni di fango. Ë una giornata come tante, scandite dal fragore dei caccia pattugliatori o degli elicotteri in avanscoperta. Ridacchiano i bambini nei campi, mentre giocano per imparare il mestiere della guerra. Li vedi entrare nella torretta di un T55 dell’ex armata rossa, uscire dalla coda squarciata da un missile anticarro, fare capolino dalla feritoia dell’armiere, mimare con i gesti il servente del pezzo, riprodurre il tonfo della cannonata, dal vivo di volata fino, fischiando, alla vecchia postazione serba sulla collina. A volte saltano sulle mine. Quando Ë scesa dall’Ercules dell’Aeronautica Militare non si aspettava tutto questo scempio. Di solito Ë solo fotografia o reportage, che comincia e finisce in mezz’ora, che entra ed esce dalle nostre case nel breve volgere di uno stacchetto musicale di una sigla. E vedi il giornalista col giubbotto antiproiettile e un bambino che corre dietro un parapetto per non finire terzo incomodo tra l’occhio, la tacca di mira ed il mirino di uno sniper appollaiato vigliaccamente in attesa della sua preda civile.

 


Simona Spinelli nel suo ufficio

L’agente scelto Simona Spinelli con un militare
del contigente italiano in Kosovo

 

L’hanno fatta ambientare pochi giorni e poi via a Dechani, nella provincia di Pec, dove una Trafic Unit aspetta il suo comandante. Una Trafic Unit da queste parti Ë di fatto un commissariato vero e proprio, dove la presenza di poliziotti internazionali serve a formare i poliziotti locali di domani, i primi che dovranno far rispettare le più elementari regole di convivenza imparando per primi quelle della sopravvivenza. Facile a dirsi. Simona arriva con un piccolo amico al guinzaglio. Si chiama "Corleone", ma non ci dice perchË. "Scorrazzava nel campo del comando KFOR - racconta malinconica - e l’ho adottato. Ë importante avere un amico, un affetto. Quel cagnolino Ë stato il primo sguardo dolce che ho incontrato in Kosovo. L’ho preso subito con me". Simona arriva e i locali si mettono a ridacchiare, a schernire quella donna dietro una divisa che non Ë di soldato, con un cagnolino al guinzaglio, armata come loro e destinata a comandarli. Il maschio si ribella, non vuole accettarla. Prima la ritiene inferiore, poi la teme, perchË Simona ha davvero uno sguardo di ghiaccio. Istruita, determinata, ha superato prove su prove, surclassando il sesso forte e imponendo la sua personalità, strappando complimenti alla commissione internazionale e meritandosi un ruolo di comando. Una settimana snervante, poi i subordinati comprendono e inizia il lavoro. Polemiche e tensioni vengono superate ed alla fine Simona guida un manipolo di nuovi poliziotti, coadiuvata da alcuni colleghi americani e tedeschi. Per 14 mesi quel distaccamento diventa un esempio di efficienza operativa, con pattuglie ventiquattrore su ventiquattro, con centinaia di sequestri e violazioni accertate. Tutto perchË una poliziotta italiana, con un cane, pulito e al guinzaglio, sempre insieme a lei in un paese ove i cani non sono animali domestici ma randagi, da prendere a calci o a cui sparare, rifiuta i compromessi, comodi e comprensibili, di una terra malata d’uomo crudele. E così Simona ferma la sua Toyota bianca e rossa quando, sola, incrocia lo sguardo beffardo di un boss locale, che parcheggia la sua pacchiana Mercedes blindata tutta vetri scuri, in mezzo alla strada principale di Dechani, attaccando bottone con i soliti al bar. Pochi minuti e quando il gorilla del capobanda gli porge i documenti del suo padrone il silenzio cala, perchË ora i mercenari, quelli che sgozzavano per diletto, hanno paura di una poliziotta italiana. Il boss finirà davanti al giudice della "Minor Cort", una sorta di ex Pretura italiana rappresentata da giudici nazionali kosovari, con l’accusa di insubordinazione all’autorità: se però "giustizia non Ë fatta", la commissione internazionale sposta tutto il dibattimento al "Prosecutor", il Pubblico Ministero internazionale. Quella sera "Corleone" non rispose più al fischio di Simona e inutili furono gli sforzi per ritrovare quel bastardino smarrito. Inutile anche la taglia di 100 marchi. Il segnale Ë chiaro, ma la squadra della Polizia Stradale costituita dalla collega italiana Ë ormai troppo affiatata e si susseguono gli arresti, le denunce, i sequestri penali e civili, i rinvenimenti di auto rubate e le notizie confidenziali all’Investigation. "Prendere di petto un allievo poliziotto locale - ci racconta Simona - sarebbe stato un errore. Così ho optato la strada dell’amica dura, con il caratteraccio ma comprensiva. Quando ho visto che rientravano pieni di lavoro fatto, ho capito di essere sulla strada buona. Non era però facile dire a un ragazzino di 13 anni che da un giorno all’altro non poteva guidare una macchina, che serviva la patente e che per prenderla bisognava imparare delle regole ormai dimenticate da anni. E chi aveva la patente ce l’aveva puntualmente falsa. Incredibile." In una terra così l’efficienza si mostra agli altri da sola finchË, un giorno, un portaordini dal casco blu consegna a Simona, proprio nella ricorrenza del suo 14° mese in Kosovo, il trasferimento alla Sottostazione di Polizia di Junik, un primo esperimento di Polizia locale autonoma e indipendente, ove Simona avrebbe dovuto semplicemente fare da supervisore. Un fallimento avrebbe significato il dover ripartire da zero. Ma qui i poliziotti avevano ripreso l’abitudine di risolvere le questioni a modo loro, pestando chi la pensava diversamente, abusando dei poteri loro conferiti, tornando a brandire armi per imporre il loro volere, per vendetta. "Qui Ë stata più dura ancora - racconta Simona - ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Gli ultimi due mesi li ho fatti a Giacova, ancora alla Stradale. Abbiamo dovuto riscrivere il codice della strada, trovare cartelli e convincere i poliziotti locali o i vigili del fuoco a non vendersi le macchine che gli venivano fornite dal comando KFOR. Mi porto a casa tanti bei ricordi e immagini terribili che non dimenticherò mai. Mi porto a casa una crescita professionale incredibile, dovuta al dover risolvere da sola i problemi più essenziali o dal contatto con la Polizia di tutto il mondo. Ë vero, ci sono colleghi che hanno in dotazione cose impensabili da noi, ma ho visto anche tanta superficialità da polizie famosissime nel mondo. Noi italiani ci siamo sicuramente distinti per la passione profusa". Così Simona Ë passata dal cielo minaccioso del Kosovo a quello azzurro e terso delle dolci colline tra Siena e Firenze, al clima più gentile, alla verdura e frutta fresca non più contaminata dall’uranio impoverito dei proiettili vomitati sulle città dagli F15 e dai Tornado. Guarda i tg con malinconia e prepara la valigia. Simona non resiste e parte per la Bosnia. Good Luck.



di Lorenzo Borselli

da "Il Centauro" n. 75
Lunedì, 07 Aprile 2003
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