IL REATO DI CONTRAFFAZIONE L’art. 474 del codice penale, come risaputo,
punisce, a titolo di delitto, la detenzione di merci recanti marchi di fabbrica
contraffatto e, come più volte stabilito dalla giurisprudenza, è volto a
tutelare, non la libera determinazione dell’acquirente, ma la pubblica fede;
questa intesa come affidamento dei consumatori nei marchi, quali segni
distintivi della particolare qualità e originalità dei prodotti messi in
circolazione; ne consegue che non può parlarsi di reato impossibile (art. 49
c.p.) per il solo fatto che la grossolanità della contraffazione sia
riconoscibile dall’acquirente in ragione delle modalità della vendita (prezzo
eccessivamente basso rispetto a quello dei prodotti originali, vendita
effettuata in mercatini rionali o ambulanti), in quanto l’attitudine della
falsificazione ad ingenerare confusione deve essere valutata non con
riferimento al momento dell’acquisto, ma in relazione alla visione degli
oggetti nella loro successiva utilizzazione (Cass. Pen., Sez. II, 2 ottobre
2001, n. 39863).
Peraltro, per quanto con riferimento ad espressione di una minoritaria
giurisprudenza, chi scrive è portato a ritenere invece che non sussiste il
reato di commercio di prodotti con segni contraffatti, nel caso di imitazione
vile e grossolana di beni di lusso (nella specie borse elegantissime e famose),
mancando del tutto la possibilità di confusione con il prodotto originale, cui
i falsi, e per tipologia distributiva (commercio ambulante di extracomunitari)
e per prezzo intrinseco, si pongono in un mercato completamente diverso (Trib.
S. Remo, 1 ottobre 2001). Infatti, un marchio contraffatto può trarre in
inganno un compratore, così da integrare, in caso di vendita della merce, il
reato ex art. 474 c.p., solo se la provenienza prestigiosa del prodotto
costituisce l’unico elemento qualificatore o comunque quello prevalente per
determinare nell’acquirente di media esperienza la volontà di acquistare il
prodotto stesso. Qualora viceversa altri elementi del prodotto, quali la
evidente scarsità qualitativa del medesimo o il suo prezzo eccessivamente basso
rispetto al prezzo comune di mercato, siano rivelatori agli occhi di un
acquirente di media esperienza del fatto che il prodotto non può provenire
dalla ditta di cui reca il marchio, la contraffazione di quest’ultimo cessa di
rappresentare un fattore sviante della libera determinazione del compratore
(Cass. Pen., Sez. V, 17 giugno 1999, n. 2119).
Insomma, lo abbiamo già detto, ad oggi è ben difficile che un acquirente di
media esperienza non sappia che un prodotto che reca dei “marchi forti” ed è
venduto a prezzi stracciati (si fa per dire), lungo le strade o lungo le
spiagge, possa risultare un originale: dunque, si può ritenere che la fede
pubblica, non è affatto minacciata e chi acquista, sa che cosa acquista.
Peraltro, resta evidente che quel prodotto reca comunque un marchio di fabbrica
contraffatto.
Non a caso - e forse questa è anche la chiave di lettura della recente legge
sulla competitività (2) . - il legislatore prevede l’applicazione di una
sanzione amministrativa pecuniaria esemplare per chi acquista simili prodotti,
salvo che il fatto non costituisca reato.
Insomma, la riserva penale citata, evita così che possano essere colpite con
sanzioni amministrative, fattispecie penali rilevanti.
Chiaramente, chiunque acquista una borsa taroccata da un “abusivo” che la pone
in vendita sul selciato di una strada è ben consapevole che quel prodotto è un
falso: quindi, quell’acquirente finale, sa altrettanto bene che con
quell’acquisto contribuisce ad alimentare
il mercato criminale, senza con ciò rendersi partecipe dell’attività illecita.
Un comportamento riprovevole, questo, ch’è scoraggiato con una sanzione
amministrativa esemplare. Resta evidente che quel bene è comunque il corpo del
reato punito e previsto dall’art. 473 c.p. e come tale, oggetto di sequestro
finalizzato alla confisca per la successiva distruzione.
IL REATO DI RICETTAZIONE Diversamente, chi acquista quella medesima
merce e lo fa con lo scopo di procurare a sé o ad altri un profitto - dunque la
pone in vendita - commette il delitto previsto e punito dall’art. 648 c.p.
ovvero ricettazione.
Anche in tal caso il corpo del reato è posto sotto sequestro nei termini
anzidetti, ma per le modalità con cui è effettuata la vendita del prodotto
stesso, non essendo minacciata la pubblica fede, non sono applicabili le pene
previste per il reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti falsi,
punito e previsto dall’art. 474 c.p.
Diversamente, laddove le modalità di vendita o di offerta in vendita del
prodotto possono fare ritenere che tale prodotto sia provento di delitto, ma
non anche un falso (si pensi alla ipotesi di vendita per catalogo), i due
delitti concorrono, posto che le due fattispecie delineano condotte
ontologicamente e strutturalmente diverse. Infatti, da un canto la soggettività
si identifica, nel reato di cui all’art. 474 c.p, nella volontà di detenere
opere o prodotti industriali con marchio contraffatto per metterli in
circolazione, laddove nel reato di ricettazione l’elemento soggettivo attiene
alla volontà di ricevere o detenere, al fine di profitto, cose provenienti da
qualsiasi delitto. Inoltre, è diversa l’oggettività giuridica dei due delitti,
rappresentata nel primo caso dalla tutela della fede pubblica e, nell’altro,
del patrimonio; mentre distinti sono anche gli scopi, essendo l’art. 648 c.p.
volto ad impedire la generica circolazione di cose provenienti da delitto e
l’art. 474 c.p. ad offrire una protezione della pubblica fede commerciale.
(Tribunale Milano, 18 dicembre 2003).
Ciò che più conta, nel delitto di contraffazione è previsto l’arresto
facoltativo e nel caso in cui l’autore del delitto non sia identificabile o
possa comunque darsi alla fuga od inquinare le prove, è possibile procedere al
fermo di p.g.
CONCLUSIONI Sarebbe eccessivo affermare che sto pensando
quello che altri non ancora hanno pensato. Ma certamente, un problema reale e
grave quale quello della vendita di prodotti falsi
necessiterebbe di una risposta adeguata alla gravità del fenomeno, anche tenuto
conto dei più gravi reati che sottende o nasconde, con evidente riferimento
allo sfruttamento della condizione di clandestinità. Certamente le pene che a
vario titolo possono colpire i c.d. “abusivi” hanno ben poca efficacia. I
processi prevedono tempi eccessivamente lunghi, le espulsioni comportano un
notevole dispendio di energia e di personale. Dunque, l’ipotesi più diretta e
che colpisce coloro i quali alimentano questo mercato, è quella
dell’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal c.d.
decreto legge sulla competitività n. 35 del 2005, convertito nella coeva legge
n. 80 (3).
Probabilmente, se tale sanzione venisse
applicata in modo sistematico, basterebbero ben pochi esempi per bloccare il
fenomeno, almeno su grande scala. Certamente si formerebbe un mercato
clandestino dell’abusivismo (mi si passi il termine). Ma in tal caso,
l’acquirente finale porrebbe senz’altro in essere un’attività penalmente
rilevante quale il favoreggiamento personale previsto e punito dall’art. 378
c.p.
Insomma, ancora una volta non sarebbe colpito il clandestino, quanto piuttosto
colui che favorisce realmente la clandestinità rimanendo sistematicamente
impunito.
In conclusione si tratta di fare una nuova scoperta: vedere tutto quello che
gli altri vedono e pensare come gli altri non vogliono pensare Un vitamina C
socio-economica che potrebbe far crescere meglio questo Paese.
*Ufficiale della Polizia Municipale, tecnico del
segnalamento attestato presso il Politecnico di Milano, iscritto all’albo dei
docenti della Scuola di Polizia Locale dell’Emilia-Romagna e referente ASAPS
per Forte dei Marmi.
La giurisprudenza citata è
tratta dall’opera su CD Juris Data di Giuffré Editore, Milano.
(2) Non nego
una mia iniziale aspra critica al decreto citato, con riferimento alla
fattispecie dell’incauto acquisto di merci palesemente contraffatte (cfr.
sezione articoli su ) . Del resto, continuano a restare ferme talune
perplessità in ordine alla qualità del testo ed al suo rapporto con altre
disposizione di legge, quali gli artt. 474, 517 e 648 c.p. Piuttosto, vorrei
poter cogliere in questa occasione legislativa, uno dei pochi momenti normativi
“forti”, comunque idonei a scoraggiare questo tipo di “mercato clandestino”
(più che con riferimento ai beni commercializzati, con riferimento a chi pone
in vendita detti beni). Ciò facendo, auspicherei anche una chiara presa di
posizione ministeriale che possa concretamente aiutare le forze di polizia ad
“osare”, muovendosi queste ultime su di un terreno assali paludoso ed impervio
_ soprattutto per la polizia municipale _ nell’ambito del quale le singole
sanzioni vanno a colpire la c.d. “gente per bene”.
Resto pur sempre dell’avviso, che a distanza di circa dieci anni dalla
pubblicazione di quell’articolo che «…per la peculiare caratteristica sociale
che fa capo alla polizia municipale, che l’organo di polizia locale dovrà
astenersi _ a mio modo di vedere _ da qualsiasi intervento di polizia, nel
senso più ristretto del termine ed invece conformarsi ad un comportamento
profondamente rispettoso delle esigenze dell’individuo, posto che quest’ultimo
continua a trovarsi oggi (N.d.A.) in un Paese ed una cultura straniera a quella
di origine ed in condizione di disagio sociale…» (G. Fontana, Spunti di
riflessione inerenti il soggiorno degli stranieri sul territorio italiano con
particolare riferimento al commercio su spazi ed aree pubbliche ed agli
illeciti penali ad esso correlati, Il Vigile Urbano, Maggioli Editore Rimini,
10/94, pag. 1148).
´3) L’art. 1, comma 7 del decreto citato prevede infatti quanto segue: Salvo
che il fatto costituisca reato, è punito con la sanzione amministrativa
pecuniaria fino a 10.000 euro l’acquisto o l’accettazione, senza averne prima
accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro
qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano
a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza
dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale. La sanzione di cui al
presente comma si applica anche a coloro che si adoperano per fare acquistare o
ricevere a qualsiasi titolo alcuna delle cose suindicate, senza averne prima
accertata la legittima provenienza. L’art. 517 c.p., come modificato dall’art.
1, comma 10 del decreto citato, prevede adesso quanto segue: (Vendita di
prodotti industriali con segni mendaci). Chiunque pone in vendita o mette
altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi,
marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti ad indurre in inganno il
compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto, è
punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge,
con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a ventimila euro.
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