Ha
diritto al risarcimento del danno il ciclista che taglia la strada all’automobile,
se il guidatore non prova di aver fatto "l’impossibile"
per evitarlo. L’ha affermato la Cassazione con una decisione (Cassazione
Civile, III Sezione, Sentenza 5 maggio 2000, n. 5671) che, imponendo
il massimo grado di prudenza a chi viaggia sulle quattro ruote, getta
uno spiraglio di luce sulla speranza di riscossa per una categoria di
utenti deboli - ciclisti e pedoni - sempre più spesso vittime
di incidenti gravi. Non solo, ma se il condannato, lette le sentenze
di primo e secondo grado, non dovesse condividere la ricostruzione dei
fatti, né le conclusioni fatta dai giudici circa la propria responsabilità,
non può nemmeno bussare al portone del palazzaccio trasteverino,
sede della suprema Corte, poiché la Cassazione su queste cose
ha le mani legate: non può entrare nel merito delle vicende accertate
dai giudici territoriali, salvo che le motivazioni delle sentenze siano
evidentemente irrazionali o illogiche. Per il resto quel che è
deciso è deciso. La vicenda giudiziaria trae origine da un brutto
incidente nel quale restano coinvolti, in corrispondenza di un incrocio,
un automobilista ed un ragazzino in bicicletta sbucato fuori all’improvviso,
quasi dal nulla, nell’oscurità della strada. Lo scontro
lascia un segno indelebile sul ragazzo: "lesioni cerebrali esitanti
in tetraparesi spastica e totale inabilità psichica". Insomma,
una tragedia irrimediabile. Al processo, le colpe vengono ripartite
al cinquanta per cento: secondo il Tribunale la responsabilità
è paritetica perché opera la presunzione dell’art.
2054 c.c. secondo cui, nel caso di scontro tra veicoli si presume, fino
a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente
a produrre il danno. Certo il minore aveva avuto la peggio, ma l’idea
di passare da una conclamata ragione ad un torto presunto non deve essere
affatto piaciuta all’automobilista: non c’è dubbio
che è stato il ragazzo ad omettere la precedenza finendo malamente
sotto le ruote del veicolo, perché allora accollarsi metà
delle responsabilità giuridiche e morali? Così, con la
proposizione dell’appello, l’automobilista tenta di far rivisitare
la questione per allontanare da sé ogni sospetto di negligenza
e di responsabilità. Anche presso il giudice di secondo grado
le colpe dell’automobilista rimangono tali e quali, salvo un leggero
ridimensionamento dell’entità del risarcimento dovuto. Il
punto di approdo della decisione del giudice resta il medesimo: è
vero che il minore era sbucato all’incrocio senza dare la precedenza,
ma è altrettanto evidente che l’automobilista non ha fornito
la prova liberatoria, idonea a superare la presunzione di "pari
concorso di colpa" secondo l’art. 2054 cod.civ. Come spesso
succede lungo i percorsi della giustizia, "fatto trenta si può
fare anche trentuno" ed in altre parole va da sé il ricorso
per Cassazione. Ma quale concorso di colpa? Lamenta nella sua istanza
il ricorrente: siamo di fronte ad un inconfutabile accertamento della
responsabilità del minore per omissione dell’obbligo di
dare la precedenza all’incrocio. Non ha senso, davanti a prove
così schiaccianti, a carico del ciclista, ritenere che l’automobilista
dovesse fornire da parte sua una prova liberatoria in merito alla propria
sua diligenza nella guida, né c’è ragione di pignolare
sull’efficacia del tentativo, in quei pochi attimi fatali, di evitare
l’incidente. In altri termini va bene ogni presunzione, ma non
esageriamo: dopo un accertamento così preciso sulle colpe del
ragazzino, sulla condotta dell’altra parte c’è ben
poco da presumere. Un’altra cosa, poi, l’automobilista proprio
non può accettare: il Tribunale ha data per certa, senza uno
straccio di prova in merito, la mancanza di attenzione alla guida ed
il difetto di una qualunque manovra di emergenza. Ma che attenzione
avrebbe dovuto avere e quale manovra di emergenza avrebbe potuto tentare
chi si vede sfrecciare davanti una bicicletta all’improvviso, senza
alcuna possibilità di avvistarla preventivamente? C’è
di più, il Tribunale addirittura ipotizza che il minore potesse
procedere contromano, in condizioni di scarsa visibilità. Uscire
da un processo condannati con simili ragioni, e con tanto torto della
controparte, sembrava davvero troppo, allo sfortunato automobilista,
senza tralasciare il dispiacere per quanto accaduto e pena per la vittima
del sinistro. La Cassazione, però, gli ha dato torto. Sì,
perché non va disatteso il principio generale per il quale, in
caso di scontro tra veicoli, l’accertamento in concreto di responsabilità
di uno dei conducenti non comporta il superamento della presunzione
di colpa concorrente sancito dall’art. 2054 c.c.. Significa che
se uno ha certamente torto non è detto che l’altro abbia
automaticamente ragione dato che nel nostro sistema, per evitare le
responsabilità, l’automobilista deve dimostrare di essersi
pienamente uniformato alle norme sulla circolazione ed a quelle di comune
prudenza, facendo tutto il possibile per evitare l’incidente. (Cass.
28.11.1994, N. 10156; Cass. 22.22.1995, n. 1953). Del resto il diritto
di precedenza non esonera il conducente, che ne fruisce, né dall’obbligo
di attenersi alle norme stradali, né dall’onere di generale
diligenza e prudenza. Tradotto nel nostro caso, la palese colpa del
ciclista, proveniente da sinistra, per non aver dato la precedenza al
conducente dell’auto proveniente da destra, non esclude l’affermazione
della colpa concorrente (Cass. 6.4.1978, n. 1593; Cass. 25.5.1987, n.
4689). Sono solo due le vie d’uscita dal tunnel della responsabilità:
dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno oppure
far emergere che, se anche il guidatore fosse stato attentissimo e prudentissimo,
l’incidente si sarebbe egualmente verificato a causa della condotta
colposa del ragazzo. D’accordo la prudenza, va anche bene il rispetto
rigoroso del codice stradale, ma quanto alla manovra di emergenza sembra
proprio che i giudici chiedano un di più. Infatti, sul punto
esiste un contrasto addirittura nelle decisioni della medesima Cassazione:
da una parte (Cass. Pen. 4.10.1989, Cass. Pen. 20.12.1991), le Sezioni
penali sostengono che chi, colposamente, crea una turbativa della circolazione
non può pretendere una manovra d’emergenza dell’altro
utente coinvolto suo malgrado nell’incidente, dall’altra parte
(Cass. 2.2.1995, n. 1240; Cass. 21.7.1989, n. 3439; Cass. 11.7.1979,
n. 4002), le Sezioni civili hanno ritenuto che i conducenti dei veicoli
coinvolti nell’incidente sono tenuti ad effettuare la manovra di
emergenza al fine di evitare la collisione. La divergenza deriva dall’ottica
diversa attraverso la quale la questione viene affrontata. In sede penale
la mancata manovra di emergenza da parte della vittima, pur traducendosi
in un concorso di colpa, e malgrado la conclamata responsabilità
dell’investitore, influirebbe sempre sulla determinazione della
pena (art. 133 c.p.), su possibili attenuanti (art. 62 bis c.p. e ricorrendo
il comportamento doloso, art. 62 n. 5 c.p.), nonché sulle statuizioni
civili. Per il giudice penale quindi pare più esatto ritenere
che i conducenti dei veicoli, comunque coinvolti nell’incidente,
siano tenuti sempre e comunque ad effettuare una manovra di emergenza
per evitare il sinistro. Tutto si conforma, tra l’altro, ad un
principio di solidarietà sociale, desumibile oltre che dalla
Costituzione (art. 2) anche da alcune norme del codice civile (art.
1175 c.c.), dalle quali si ricava che il conducente del veicolo antagonista
deve cooperare per evitare che il sinistro si verifichi, anche se abbia
rispettato le norme comportamentali. Se poi la manovra d’emergenza
è proprio impossibile, pazienza (Cass. 2.2.1995, n. 1240). Tornando
al nostro caso, la disposizione dell’art. 2054 cod. civ., è
stata, secondo la Cassazione, applicata con grande correttezza da Tribunale
e Corte d’Appello. Cosa resta per la Cassazione? Ben poco da dire:
la valutazione delle prove ai fini della ricostruzione delle modalità
di un incidente stradale e l’accertamento della dinamica è
riservata al giudice di merito e non è sindacabile in sede di
legittimità, salvo che sotto il profilo della motivazione (Cass.
23.5.1975, n. 2057; Cass. 28.1.1972, n. 238). Qui la ricostruzione del
sinistro, da parte della Corte di merito, si basa sulle risultanze della
consulenza tecnica. Non ci sono prove sul fatto che la bici procedesse
in concomitanza con un’altra non meglio identificata vettura superata
dal velocipede sulla sinistra proprio in corrispondenza dell’area
dell’incrocio. Non c’è prova del continuo defilarsi
del minore fino all’ultimo momento, né che il ragazzo pedalasse
ad una velocità eccessiva. Non c’è prova nemmeno
di una distrazione alla guida dell’automobilista, è vero,
ma proprio perché la fattispecie è regolata dall’art.
2054 c.c. e non dal 2043 c.c., spetta all’autista di fornire le
prove liberatorie, per il superamento della presunzione circa il suo
concorso di colpa. Non è mai detta l’ultima, quando si tratta
di incidente stradale. Quando credi di avere tutte le ragioni, l’art.
2054 ti dà torto: la colpa è di entrambi: chi ha la peggio
si deve rassegnare al proprio torto, ma anche l’investitore non
ne uscirà mai a testa alta se non provando di essere stato attento
e scrupoloso, di aver rispettato il codice ed i segnali stradali, di
aver tentato, in extremis, una manovra eccezionale di emergenza. Attenzione
però, queste briscole vanno giocate nel primo processo, in Tribunale,
perché anche la Cassazione, in carenza di prove nei giudizi di
primo e secondo grado, avrà le mani legate. Quando si tratta
di solidarietà della strada nemmeno il Supremo collegio può
violare le colonne del salomonico tempio dell’art. 2054.
*
Funzionario della Questura di Forlì
Comandante
della Polizia Municipale di Forlì
|