Vietato
attraversare sulle strisce pedonali di corsa. Non per il rischio di vedersi
appioppare la multa, ci mancherebbe, ma perché in caso di incidente
non spetterà nessun risarcimento al pedone. A sfatare il mito dell’intangibilità
del pedone, soprattutto quando attraversa la strada sui passaggi pedonali
segnalati con la zebratura sull’asfalto, è stata la Corte
di Cassazione (Sezione
III, Sentenza 18 ottobre 2001, n. 12751) non riconoscendo alcun diritto
al risarcimento del danno alla persona che, attraversando di corsa la
strada, ha provocato un incidente rimanendo, come si suole dire, vittima
di sé stessa. Insomma, per l’alta Corte, non è affatto
vero che il pedone è sempre l’utente della strada più
debole poiché, col suo comportamento, può essere lui a mettere
a repentaglio la sicurezza dell’automobilista. Detta
così sembra un paradosso, invece, dopo i canonici tre gradi di
giudizio, un automobilista che aveva investito un pedone sulle strisce,
se l’è cavata senza sborsargli nemmeno un euro di risarcimento. Del
resto, pagare pegno malgrado una guida esemplare, al limite di quella
che si pratica all’esame per la patente, aver rispettato tutti i
segnali, tenuto una velocità da corteo funebre, osservata ogni
cautela per evitare problemi a sé stessi e agli altri, sarebbe
stata una punizione, più che per la condotta, per la semplice appartenenza
alla categoria dell’automobilista ancorché scevro da censure
di sorta. Invece, in questo caso abbiamo un raro esempio, nel caotico
traffico delle nostre città, dell’incarnazione del principio
informatore della circolazione, contenuto nell’articolo 140 del codice
della strada che recita: "gli utenti della strada devono comportarsi
in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione stradale
ed in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale".
L’auto
procedeva ai trentacinque o quaranta chilometri orari, sul marciapiede
non c’era nessuno, nessun motivo consigliava al conducente di rallentare
ulteriormente nell’approssimarsi all’attraversamento segnalato.
Proprio quando il paraurti anteriore stava per tagliare la linea della
zebratura, però, sbuca fuori una persona di corsa che si lancia
nell’attraversamento della carreggiata senza controllare le condizioni
del traffico. L’impatto
è istantaneo, né avrebbe potuto essere evitato con una manovra
di fortuna. D’accordo
che poteva fare più attenzione, ma il pedone è sempre il
pedone: utente debole che, in quanto tale, pretende di essere risarcito
per la semplice constatazione di preponderanza e la assoluta presunzione
di vantaggio del veicolo a motore in quanto tale rispetto a chi procede
a piedi. D’altra parte questa vittimizzazione del pedone — spesso
più che fondata — rappresenta un’idea più che
diffusa nel comune sentire. Una
garanzia, anzi, idealizzata oltremaniera, se minimamente teniamo conto
che l’articolo 140 si applica all’automobilista come al pedone. Sì
perché la norma non parla restrittivamente di conducenti, ma in
senso più ampio di utenti, abbracciando attorno al principio della
sicurezza stradale tutti i fruitori di un bene pubblico — la strada,
appunto - essenziale per la realizzazione del diritto costituzionalmente
garantito alla libera circolazione. Il
punto sul quale è intervenuta la Corte, però, è un
altro, e verte in modo specifico sull’applicazione delle regole del
codice civile in tema di danni nella circolazione stradale. Per l’articolo
2054 del codice civile spetta al conducente che ha provocato l’incidente
dimostrare che non ne ha colpa, avendo osservato tutte le regole del codice
della strada ed i criteri più generali di prudenza e sicurezza.
Si tratta di una deroga al principio secondo cui è il danneggiato
a dover provare in giudizio la colpa di chi gli ha arrecato il danno. In
sostanza, contrariamente alla generale regola, si presume sempre la responsabilità
di chi guida (o di entrambi i conducenti), salvo che non si scagioni con
quella che in senso tecnico si dice prova liberatoria. Ora, la Cassazione,
nella sentenza 12751 introduce una specificazione non affatto di secondo
momento: è vero che l’automobilista deve munirsi della prova
che lo liberi da responsabilità — sostiene la Corte - ma questa
prova non deve necessariamente essere fornita in modo diretto. Quando
risulta dagli accertamenti che il comportamento della vittima sia stato
determinante nel provocare il sinistro, l’automobilista non dovrà
provare un bel niente. Nel
caso di specie, se l’imprevedibile comparsa del pedone sulla propria
traiettoria di marcia ha reso inevitabile l’evento dannoso, tenuto
conto della breve distanza di avvistamento, se non c’era la velocità
pericolosa e non si rendeva possibile, nelle circostanze concrete, nessuna
possibilità di tentare manovre di fortuna, nessun giudice deve
attendere la prova diretta della diligenza da parte del conducente (Cass.
2.12.1986, n. 7113 e Cass. 16.6.1993, n. 6707). Il pedone, quindi, non
ha ragione per statuto anche se, a suo vantaggio, gioca una presunzione
di colpa del guidatore: quest’ultimo, infatti, non dovrà risarcire
il danno se dagli accertamenti sul sinistro emerga chiara la responsabilità
della vittima la quale attraversando pericolosamente la strada ha peraltro
impedito ogni possibilità di evitare l’investimento (Cass.
27.4.1990, n. 3554). Si
giunge a pretendere (Cass. 30.8.1984, n. 4737) che per evitare il danno
l’automobilista metta in atto manovre acrobatiche modello Munari,
che si cimenti in queste manovre con la massima perizia e diligenza ma,
se non c’è tempo e spazio per abbozzare anche il minimo colpo
di sterzo, quale rimprovero si potrebbe muovere al conducente? Chi guida
deve fare attenzione quando sorpassa un tram alla fermata perché
un passeggero potrebbe attraversare la strada sbucando all’improvviso
(Cass. 20.7 1993, n. 8066). Non ha ragione anche se prova che il pedone
ha attraversato col semaforo rosso, perché anche in questo caso
deve dimostrare che il soggetto, debitamente avvistato, non avesse fatto
intuire, con nessun gesto, l’intenzione di attraversare seppure abusivamente
(Cass. 7.7.1994, n. 6395). E’ tenuto a procedere a velocità
ancora più moderata quando in prossimità dell’attraversamento
sia collocato un ostacolo (tipo un camion o un cartello pubblicitario).
Deve fare tutto questo, però non si può pretendere una superdiligenza
tale da prevedere ciò che non è possibile ipotizzare. L’automobilista,
cioè, non deve dimostrare di aver tenuto una prudenza eccezionale,
essendo sufficiente provare di avere osservato tutte le cautele dell’uomo
di normale diligenza (Cass. 17.2.1987, n. 1724). Ecco
il valore dell’ultima decisione della Cassazione: oggetto della prova
liberatoria diviene allora, non la condotta del conducente come improntata
a criteri di particolare diligenza e prudenza, quanto il collegamento
causale con l’evento dannoso. In
sostanza la responsabilità del conducente viene esclusa ogni volta
che si accerti che l’investimento del pedone era imprevedibile ed
inevitabile anche se la vittima attraversava sulle strisce pedonali (vedi
anche Cass. 2.12.1986, n. 7113; Cass. 14.2.1987, n. 1633; Cass. 13.5.1987,
n. 4370; Cass. 16.6.1993, n. 6707; Cass. 29.7.1993, n. 8451; Cass. 2.12.1993,
n. 11928; Cass. 7.8.2000, n. 10352). Cade
il mito delle strisce pedonali, zona franca per il pedone utente debole
della strada. Non correte sui passaggi pedonali, invertirete una regola
del vangelo stradale per la quale il mezzo più grosso è
sempre sospetto in quanto potrebbe abusare della propria preponderanza
fisica ignorando i diritti del più debole. Quando
attraversate, occhio ai "limiti di velocità": nessuno
è più forte — quando si decide sul risarcimento del
danno - del pedone tartaruga.
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Funzionario della Polizia di Stato - Comandante
della P.M. di Forlì |