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Notizie brevi 13/03/2006

da Altalex - Custodia cautelare per il tossicodipendente: il nuovo regime dell’art.89 dpr 309/90 (rapporto fra art. 275 c.p.p. e l’art. 89)

Articolo di Carlo Alberto Zaina 06.03.2006

Il nuovo regime dell’art 89 dpr 309/90, così come modificato dalla L. 49 del 21 Febbraio 2006, risente dell’impostazione rigidamente rigoristica e dell’approccio prevalentemente punitivo e restrittivo che il legislatore ha dimostrato nella formulazione delle modifiche al testo sugli stupefacenti.

Non è, infatti, casuale che il nuovo testo della norma in parola sia stato radicalmente mutato nella sua essenza.

Si è passati, infatti, da una previsione, in forza della quale il tossicodipendente, inserito in un programma terapeutico, poteva ottenere anche la revoca della misura vigente, con l’unico limite dell’insussistenza di esigenze di eccezionale rilevanza, ad altra che, invece, ha posto come elemento di centralità della fattispecie, la misura dell’arresto domiciliare.

La cattività domestica si applica, pertanto, in favore di chi dovrebbe essere attinto da un provvedimento sancente la custodia in carcere e sia una persona tossicodipendente o alcooldipendente ed abbia già in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti, ovvero nell’ambito di una struttura privata autorizzata ai sensi dell’articolo 116.

La modifica introdotta non può non suscitare perplessità e dubbi di costituzionalità.

Con il comma 1° dell’art. 89[1] previgente, infatti, si era posto, un indiscutibile e chiaro limite all’uso della custodia cautelare in carcere, (forma estrema di privazione della libertà individuale).

La norma in questione aveva, non a caso, ripreso con froza e nettezza il principio che l’uso della misura custodiale estrema debba essere poggiante su motivi di assoluta eccezionalità.

La custodia in carcere non perdeva, così, quel connotato di scelta estrema, e la disciplina del’art. 89 si poneva in coerente sviluppo con il testo dell’art. 273 comma 3° c.p.p.[2], lasciando ampia libertà al giudice, il quale poteva discrezionalmente valutare la necessità di altra misura meno gravosa, o, addirittura, porre in libertà l’inquisito.

Ora, invece, è stato compiuto un chiaro passo indietro, in quanto tale prospettiva viene maggiormente e fortemente circoscritta, atteso che viene posta una sola chiara alternativa al carcere, la quale consiste nell’arresto domiciliare[3].

Tale misura gradata, stando al tenore letterale del testo normativo (“il giudice, ove non sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, dispone gli arresti domiciliari”), viene adottata dal magistrato in modo automatico, cioè non quale diretta conseguenza di un processo delibativo di natura dicrezionale, e come tale contemperante i vari elementi che devono formare oggetto della valutazione de libertate (in special modo le esigenze di cui all’art. 274 c.p.p. ed il criterio di graduazione, proporzionalità ed adeguatezza della misura rispetto alla personalità dell’inquisito ed al fatto contestato).

Non pare, poi, sufficiente a compensare tale criticabile scelta la conferma del temperamento dato dalla verifica della sussistenza di cautele eccezionali, condizione che assume un carattere di assoluta prevalenza rispetto ad ogni altra circostanza e che, pertanto, non può subire alcun bilanciamento, spiegando efficacia assoluta.

Pare, infatti, che plurimi possano essere i profili di irragionevolezza della norma, che confliggerebbe sia con l’art. 3, che con l’art. 24 della costituzione.

1. Il nuovo art. 89/1° circoscrive, comprimendolo in maniera abnorme, il diritto dell’indagato/imputato, sottoposto ad un programma riabilitativo e di recupero, già in essere, al momento in cui il soggetto potrebbe essere attinto da una misura cautelare carceraria, precludendogli l’accesso a misure diverse e meno afflittive rispetto agli arresti domiciliari.

L’applicazione automatica di tale misura (che formerà oggetto di valutazione autonoma successiva) dipende, quindi, dallo status di tossicodipendenza dell’interessato, condizione che diviene, pertanto, qualità soggettiva arbitrariamente differenziante rispetto, ad esempio, alla situazione personale di un coindagato che, invece, non vertendo in siffatta condizione, può ottenere anche un trattamento cautelare più favorevole e, comunque, diverso.

E’ proprio la diversità del possibile trattamento coercitivo, la quale non dipende da una scelta discrezionale del giudice, ma viene predeterminata ex lege, il fulcro della critica che si muove.

Viene prestabilita dalla legge una situazione di differenziazione, espropriando – come si vedrà infra – il giudice del potere valutativo specifico, ma soprattutto individuando esclusivamente in radice soluzioni automaticamente differenti a vicende fra loro del tutto tra loro omogenee.

Né si può obbiettare a queste osservazioni, sostenendo che, nella fattispecie non vi sarebbe traccia di irragionevolezza, in quanto la scelta criticata sarebbe espressione della discrezionalità politica del legislatore.

Va, infatti, sottolineato che, per giurisprudenza sia costituzionale, che di merito costante, il concetto di irragionevolezza si pone come elemento di confine, il quale acquisisce efficacia, rispetto all’esercizio di potere discrezionale (attribuito al legislatore), in presenza di compromissione della posizione di uguaglianza di soggetti versanti in medesime situazioni oggettive, che provochi una vera e propria discriminazione[4].

La disciplina che si contesta, appare, pertanto, rappresentativa di una incomprensibile scelta del legislatore orientata esclusivamente nel senso del rafforzamento delle ragioni di cautela, e come tale, non è accettabile la previsione di deroghe motivate da esigenze unicamente incentrate sulla pseudo tutela della salute dell’interessato.

Va, poi, sottolineato come, in ogni caso, la richiamata assoluta omogeneità dei termini posti a raffronto, induce a sospettare la norma di incostituzionalità, proprio sul piano della mancata considerazione della gravità del fatto e della pericolosità soggettiva.

E’, quindi, evidente che la disparità di trattamento cautelare, operata fra soggetto tossicodipendente e soggetto non tossicodipendente, non trova giustificazione, per due ordini di motivi.

A) Da un lato l’applicazione dell’arresto domiciliare, quale unica alternativa al carcere, appare, in assoluto, ictu oculi eccessivamente e paradossalmente vincolante per il tossicodipendente.

B) Dall’altro, emerge la sperequazione del trattamento coercitivo cautelare, posto che, mentre per l’indagato-tossicodipendente (che abbia in corso un programma) la misura è ab origine vincolata ed inderogabile, non lasciando alternative di sorta e mortificando il potere discrezionale del giudice, per l’indagato che non verta in condizione di assunzione di stupefacenti, in casi analoghi ed omogenei (o addirittura se concorrente nel medesimo fatto) è ammessa, invece, una piena e completa libertà ed alternatività nella scelta delle misure, le quali possono determinare, in concreto, situazioni più favorevoli o meno favorevoli sul piano personale.

Con il passaggio da un regime, nel quale la tossicodipendenza era condizione che legittimava, si, un trattamento minimamente differenziato, pur nel rispetto del potere del giudice di scegliere ed attingere alla gamma completa di tutte le misure codicisticamente previste, (potendo egli giungere anche alla totale remissione in libertà dell’inquisito), ad un sistema che si fonda su di una misura unica, vincolata e predeterminata per il solo tossicodipendente, il legislatore ha creato un incomprensibile ed arbitrario doppio binario cautelare.

2. Altro profilo di dubbio sorge da un’ulteriore osservazione concernente la scelta dell’arresto domiciliare, intesa quale unica opzione cautelare per il tossicodipendente che abbia in corso (od intenda da attuazione) ad un programma di recupero.

La misura della custodia domiciliare, infatti, secondo il dettato normativo, viene adottata sic et simpliciter.

Parrebbe, cioè, che il giudice possa giungere alla decisione de libertate, senza che si debba dare corso a quella preliminare valutazione delibativa, attinente alla sussistenza, persistenza e spessore delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p. .

La regola di giudizio così formulata, quindi, impone al giudice di pronunciarsi in maniera del tutto svincolata sia dalla disamina del caso concreto, nonché sia della personalità dell’indagato e da un giudizio di pericolosità sociale del soggetto, che, soprattutto in relazione a specifici reati, non può essere pretermesso.

Si tratta, quindi, di un criterio inammissibilmente derogatorio al dettato codicistico, sancito quale lex generalis dall’art. 275 comma 1, 1 bis, 2 e 2 bis c.p.p. .

Viene, così, disatteso, il principio che sancisce la possibilità del giudice di scegliere la misura da adottare, in forza di criteri, che si ispirano alla tipologia delle esigenze da soddisfare nel caso concreto; si crea, inoltre, un patente conflitto fra disposizioni di legge che incidono sul medesimo oggetto, cioè la libertà personale.

La norma di cui all’art. 275 c.p.p. è, come affermato, portatrice di un principio di carattere assolutamente generale, in quanto, ”…nell’indicare i criteri in forza dei quali il giudice di merito deve scegliere la misura idonea a soddisfare le esigenze cautelari, gli attribuisce, nell’ambito di detti criteri, poteri discrezionali assai estesi nella scelta di quella ritenuta adeguata a soddisfare le esigenze cautelari e proporzionata al fatto concreto..”[5].

Il nuovo articolo 89, sul piano squisitamente processuale, introduce, quindi, un’irrazionale previsione, posto che l’automatica adozione della misura domestica, in vece della misura detentiva estrema, in favore del tossicodipendente, non postula affatto quell’indagine che il giudice deve compiere e che deve essere volta ad accertare l’adeguatezza o meno di quest’ultima.

La norma introdotta con la L. 49/2006, quindi, sancisce il superamento e l’accantomento di quel doveroso iter logico che, invece, appare necessario ed indifferibile, poichè presuppone l’individuazione delle esigenze cautelari da soddisfare e l’indicazione delle ragioni per le quali essa viene ritenuta, in ipotesi, non idonea allo scopo né proporzionata all’entità e gravità dei fatti in contestazione.

L’arresto domiciliare, concesso a vantaggio del tossicodipendente in stato di sottoposizione a programma di recupero, si viene a fondare, quindi, con la novella legislativa, sull’introduzione di una mera presunzione iuris et de iure, di adeguatezza di detta misura a tutte le problematiche cautelari del caso di specie, sia oggettive, che soggettive.

Tale criterio, che, come detto, è arbitrariamente svincolato, dalla generale regola di giudizio codicisticamente sancita, determina una evidente disparità di trattamento tra posizioni analoghe.

In buon sostanza, anche questo secondo profilo di dubbio costituzionale, evidenzia rilevanti ed immotivate distinzioni cagionate fra soggetti che possano essere concorrenti nel medesimo reato.

Emerge, come sottolineato in precedenza, l’esistenza di un duplice regime custodiale, formato da un lato da una decisione obbligata – quella dell’arresto domiciliare per il tossicodipendente - che viola qualsivoglia parametro valutativo, non essendo informata al principio di uguaglianza, e dall’altro dall’usuale regime discretivo sostenuto dal codice di procedura penale.

Viene disapplicato, così, in relazione ad una specifica categoria di indagati/imputati, il potere del giudice di decidere motivatamente e scegliere fra le plurime opzioni normative de libertate che sono previste dal codice di rito.

Il passo indietro rispetto al regime previgente, indubbiamente rispettoso del primato della più generale norma processulpenalistica ed informato alla tutela dell’indipendenza di giudizio del magistrato, è sotto gli occhi di tutti.

Il precedente testo dell’art. 89, si faceva preferire, in quanto non vincolava la scelta del giudice ad una unica e specifica misura, espropriandolo di poteri costituzionalmente garantiti, ma utilizzando il termine “revoca”, (che, per la sua ampiezza comprende nel suo alveo anche quello “sostituzione”) permetteva al giudicante di meglio armonizzare, in pari tempo, la scelta del regime coercitivo interinale con lo svolgimento del programma terapeutico, spaziando fra le varie opzioni del libertate ed individuando quella di maggiore pertinenza soggettiva ed oggettiva.

In pari tempo, dal punto di vista strettamente giuridico, il regime cautelare del preesistente art. 89 garantiva un’equiparazione piena e completa fra situazioni soggettive tra loro diverse.

Il tossicodipendente, pur fruendo di uno specifico favore e di una particolare tutela, era sottoposto in tema di misure cautelari al medesimo criterio valutativo, applicabile ad altri soggetti-indagati.

L’unico diverso e più favorevole limite era dato dalla non applicazione della custodia in carcere, in carenza di esigenze cautelari di rilevanza eccezionale.

Tal impostazione permetteva, quindi, di non scadere in situazioni di immotivata disuguaglianza fra soggetti che si trovino in situazioni simili.

Non può, pertanto apparire soddisfacente un scelta, che garantisce una residuale armonia solo con il più generale disposto dell’art. 275 comma 4° e seguenti del codice di procedura penale[6], in tema di divieto della custodia in carcere ed individuazione e scelta delle misure in relazione al caso concreto.

Ciò posto, va detto che l’esame ermeneutico delle altre parti della norma non presenta particolari problemi.

Emerge che l’arresto domiciliare può essere eseguito sia presso il domicilio dell’inquisito, che potrà seguire un piano terapeutico nelle forme del day-hospital, sia cpresso una struttura residenziale.

Se la persona interessata sia indagata od imputata per uno fra i delitti di cui agli articoli 628, terzo comma, o 629, secondo comma, c.p. e nell’ipotesi in cui, senza raggiungere un livello di eccezionalità, possano sussistere particolari esigenze cautelari, l’arresto domiciliare presuppone necessariamente (“è subordinato”) che il programma terapeutico venga svolto in una struttura residenziale.

Il giudice può stabilire, all’atto della sostituzione della misura o successivamente, eventuali forme di controllo necessarie, onde verificare se l’interessato segua effettivamente il programma di recupero.

Va rilevata la scelta della parola “recupero”, definizione che va al di là del significato lessicale del termine usato, al posto di “disintossicazione”, precedentemente usato.

Tale orientamento, induce a ritenere che si sia inteso superare l’idea di stutture pubbliche o private, tese solamente a favorire il superamento della dipendenza psicologica e fisica in senso stretto, per, invece, abbracciare l’idea che la riabilitazione coinvolga una serie di valori di gran lunga più ampi e che possa incidere sulla persona non solo contingentemente.

Va segnalato, poi, che il comma 1° novellato utilizza la locuzione “persona imputata”.

Si tratta dell’ennesima imperfezione terminologica del legislatore, la quale, nonostante l’evidente differenza giuridica fra indagato ed imputato, non pare, però, potere valere ad escludere dal campo di applicazione della norma i soggetti indagati.

Una soluzione opposta restringere abnormemente la fase processuale di intervento della disposizione legislativa, escludendo dalla stessa immotivatamente (ed ingiustamente) la fase delle indagini preliminari e riservando le possibilità previste solo in favore di chi fosse in fase dibattimentale o di udienza preliminare.

La norma perderebbe, così, gran parte della propria significatività.

Non sfugge, invece, alle perplessità in precedenza manifestate anche il comma 2° dell’art. 89, il quale prevede, sempre in favore delle persone già indicate al comma precedente (tossicodipendente o alcooldipendente), che si trovino sottoposti alla misura custodiale estrema, la possibilità di ottenere la sostituzione della misura estrema – in assenza di esigenze cautelari di natura eccezionale -, a condizione che l’interessato intenda sottoporsi ad un programma di recupero presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti, ovvero una struttura privata autorizzata.

Anche in questo caso è palese la riduzione delle opzioni de libertate, le quali si incentrano solo nell’arresto domiciliare.

Conferma nel prospettato senso deriva dalla sostituzione della parola “revoca” (della misura cautelare) con la parola “sostituzione”, scelta che significa la permanenza di un vincolo coercitivo in capo all’interessato.

Valgano, quindi, le osservazioni e le prospettazioni di incostituzionalità già mosse nei confronti del comma 1°.

La norma in esame riconosce, poi, anche alle strutture private accreditate ai sensi dell’art. 116 il potere, in precedenza conferito solo ai SERT, di attestare lo stato di tossicodipendenza del soggetto.

Il tipo di documentazione da produrre non ha, invece, patito siginficative modificazioni.

Vige anche in questa ulteriore ipotesi il vincolo, già esposto e collegato ad una presunzione di pericolosità del soggetto, a che l’inquisito accusato per i delitti di cui agli articoli 628, terzo comma, o 629, secondo comma, c.p. e, sempre, in situazioni in cui sussistano particolari esigenze cautelari, debba necessariamente essere inserito in una struttura residenziale, elemento che subordina l’accoglimento dell’istanza.

Resta, quindi vigente il principio che la verifica dei presupposti richiesti ex lege deve essere rigorosa e meticolosa.

La condizione soggettiva dell’inquisito è, pertanto, criterio di collegamento tra costui e la opportunità di ottenere l’attenuazione della pressione cautelare.

Ciò sta a significare che vige il principio della rigorosa connessione fra devoluzione al giudice della decisione ed iniziativa di parte.

Non può esservi, quindi, da parte del giudicante, provvedimento modificativo il regime cautelare in essere, in assenza di espressa istanza che può essere proposta dall’indagato, dal suo difensore o dal P.M. .

Va, poi, sottolineato come la modifica o revoca della custodia in carcere non può più comportare la immediata riacquisizione di uno stato di libertà piena e completa per l’indagato tossicodipendente.

Con tale scelta, quindi, si mira a creare un solido vincolo in capo ad un soggetto che spesso deve dimostrare capacità di autodeterminazione, di accettazione e di rispetto delle prescrizioni dell’Autorità giudiziaria, onde garantire una continuità del percorso riabilitativo, in quanto si intende fronteggiare una situazione di pericolo presunto e forte rischio recidivante, tramite un penetrante controllo dell’indagato/imputato.

A tali ragioni “istituzionali” si affiancano motivi di opportunità processuale, in quanto spesso si mira a che il periodo di tempo, percorso in comunità, possa essere computato come forma di “presofferto” in favore all’indagato, con detrazione di tale periodo dall’eventuale pena che venisse irrogata, atteso che l’arresto domiciliare è del tutto equiparato alla custodia in carcere, giusto il disposto dell’art. 284/4° cp.p.

E’ evidente che l’accesso alla misura coercitiva gradata domiciliare, impone, comunque, al tossicodipendente oneri che, se violati, impongono il ripristino della misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell’art. 276 c.p.p. (Cfr. Cassazione, Sez. II, 11 Febbraio 2003, n.20105, Tomasino[7]).

Per quanto, invece, concerne gli obblighi – misure di minore afflizione per l’inquisito, ma irrilevanti ed il cui periodo di sottoposizione ed applicazione non è scomputabile dall’eventuale pena – si deve osservare che l’art. 283 comma 5, condiziona la misura, ove si sia in presenza di un programma terapeuticodi recupero.

Le previsioni portate dai commi 1 e 2 novellati dell’art. 89 incontrano, un limite nel disposto del successivo comma 4° (anch’esso novellato)[8].

Tale ultima dispozione nega la possibilità di derogare al regime carcerario estremo, ove sussista la pendenza – a carico dell’interessato – di un procedimento avente ad oggetto uno dei delitti di cui all’art. 4- bis L. 26.7.1975 n. 354[9], fatta eccezione di quelli di cui agli articoli 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale purche´non siano ravvisabili elementi di collegamento con la criminalita` organizzata od eversiva.

Viene sostituita la previsione precedentemente vigente e che prendeva a parametro i reati ricompresi nell’art. 407 comma 2 lett. a), nn. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 c.p.p. .

In tale elencazione rientravano:

1) delitti di cui agli artt. 285, 286, 416 bis e 422 del codice penale;

2) delitti consumati o tentati di cui agli artt. 575, 628, terzo comma, 629, secondo comma, e 630 dello stesso codice penale;

3) delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo;

4) delitti commessi per finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, nonche’ delitti di cui agli articoli 270, terzo comma, 270-bis, secondo comma, e 306, secondo comma, del codice penale;

5) delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo escluse quelle previste dall’art. 2, comma terzo, della legge 18 aprile 1975, n. 11;

6) delitti di cui agli artt. 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80, comma 2, e 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni.

Rispetto a tali previsioni l’art. 4 –bis citato prevede, inoltre i delitti di cui a) agli articoli 600, 601, 602 e 630 del codice penale,

b) all’articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43.

Si tratta in tutta evidenza di ipotesi di reato di particolare gravità e tali da suscitare un allarme sociale così rilevante, da giustificare l’ablazione e la compressione massima del diritto del singolo, anche a fronte di un status di tossicodipendenza in capo all’indagato.

Sotto questo profilo, quindi, si può tranquillamente affermare che non sono intervenute serie e sostanziali modifiche rispetto al passato.


[1] - Si riporta il testo dell’art. 89 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, senza le modifiche apportate dalla legge 49/2006:

«Art. 89 (Provvedimenti restrittivi nei confronti dei tossicodipendenti o alcooldipendenti che abbiano in corso programmi terapeutici). - 1. Non puo’ essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputata e’ una persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti, ovvero nell’ambito di una struttura autorizzata, e l’interruzione del programma puo’ pregiudicare la disintossicazione dell’imputato. Con lo stesso provvedimento, o con altro successivo, il giudice stabilisce i controlli necessari per accertare che il tossicodipendente o l’alcooldipendente prosegua il programma di recupero.
2. Se una persona tossicodipendente o alcooldipendente, che e’ in custodia cautelare in carcere, intende sottoporsi ad un programma di recupero presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti, ovvero una struttura autorizzata residenziale, la misura cautelare e’ revocata, sempre che non ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. La revoca e’ concessa su istanza dell’interessato; all’istanza e’ allegata certificazione, rilasciata da un servizio pubblico per le tossicodipendenze, attestante lo stato di tossicodipendenza o di alcooldipendenza, nonche’ la dichiarazione di disponibilita’ all’accoglimento rilasciata dalla struttura.
Il servizio pubblico e’ comunque tenuto ad accogliere la richiesta dell’interessato di sottoporsi a programma terapeutico.

3. Il giudice dispone la custodia cautelare in carcere o ne dispone il ripristino quando accerta che la persona ha interrotto l’esecuzione del programma, ovvero mantiene un comportamento incompatibile con la corretta esecuzione, o quando accerta che la persona non ha collaborato alla definizione del programma o ne ha rifiutato l’esecuzione.

4. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano quando si procede per uno dei delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6), del codice di procedura penale.
5. Nei confronti delle persone di cui al comma 2 si applicano le disposizioni previste dall’art. 96, comma 6.».

[2] L’articolo in oggetto recita testualmente “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata”.

[3] Il nuovo art. 89 recita:

1. Qualora ricorrano i presupposti per la custodia cautelare in carcere il giudice, ove non sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, dispone gli arresti domiciliari quando imputata e`una persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti, ovvero nell’ambito di una struttura privata autorizzata ai sensi dell’articolo 116, e l’interruzione del programma puo` pregiudicare il recupero (disintossicazione) dell’imputato. Quando si procede per i delitti di cui agli articoli 628, terzo comma, o 629, secondo comma, del codice penale e comunque nel caso sussistano particolari esigenze cautelari, il provvedimento e` subordinato alla prosecuzione del programma terapeutico n una struttura residenziale. Con lo stesso provvedimento, o con altro successivo, il giudice stabilisce i controlli necessari per accertare che il tossicodipendente o l’alcooldipendente prosegua il programma di recupero ed indica gli orari ed i giorni nei quali lo stesso puo`assentarsi per l’attuazione del programma.

2. Se una persona tossicodipendente o alcooldipendente, che e` in custodia cautelare in carcere, intende sottoporsi ad un programma di recupero presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti, ovvero una struttura privata autorizzata ai sensi dell’articolo 116, la misura cautelare e`(revocata) sostituita con quella degli arresti domiciliari ove non ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. La sostituzione (revoca) e` concessa su istanza dell’interessato; all’istanza e` allegata certificazione, rilasciata da un servizio pubblico per le tossicodipendenze o da una struttura privata accreditata per l’attivita`di diagnosi prevista dal comma 2, lettera d), dell’articolo 116, attestante lo stato di tossicodipendenza o di alcooldipendenza, la procedura con la quale e` stato accertato l’uso abituale di sostanze stupefacenti, psicotrope o alcoliche, nonche´ la dichiarazione di disponibilita` all’accoglimento rilasciata dalla struttura. Il servizio pubblico e` comunque tenuto ad accogliere la richiesta dell’interessato di sottoporsi a programma terapeutico. L’autorita` giudiziaria, quando si procede per i delitti di cui agli articoli 628, terzo comma, o 629, secondo comma, del codice penale e comunque nel caso sussistano particolari esigenze cautelari, subordina l’accoglimento dell’istanza all’individuazione di una struttura residenziale".

[4] Cfr. ex plurimis Cons. Stato, 24/02/2004, n.714, P.V. e altri C. Presidenza del Consiglio, Foro Amm. CDS, 2004, 397

[5] Cass. pen., sez. IV, 19/11/2004, n.275, Chakhsi, Guida al Diritto, 2005, 15, 101

[6] Art. 275 (Criteri di scelta delle misure) – commi 1, 1 bis, 2, 2 bis, 2 ter e 3 omissis

4. Non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, ovvero persona che ha superato l’età di settanta anni.

4-bis. Non può essere disposta ne’ mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l’imputato e’ persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’articolo 286-bis, comma 2 , ovvero da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere.

4-ter. Nell’ipotesi di cui al comma 4-bis, se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e la custodia cautelare presso idonee strutture sanitarie penitenziarie non e’ possibile senza pregiudizio per la salute dell’imputato o di quella degli altri detenuti, il giudice dispone la misura degli arresti domiciliari presso un luogo di cura o di assistenza o di accoglienza. Se l’imputato e’ persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, gli arresti domiciliari possono essere disposti presso le unita’ operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unita’ operative prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell’assistenza ai casi di AIDS, ovvero presso una residenza collettiva o casa alloggio di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 5 giugno 1990, n. 135.

4-quater. Il giudice può comunque disporre la custodia cautelare in carcere qualora il soggetto risulti imputato o sia stato sottoposto ad altra misura cautelare per uno dei delitti previsti dall’articolo 380, relativamente a fatti commessi dopo l’applicazione delle misure disposte ai sensi dei commi 4-bis e 4-ter. In tal caso il giudice dispone che l’imputato venga condotto in un istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie.

4-quinquies. La custodia cautelare in carcere non può comunque essere disposta o mantenuta quando la malattia si trova in una fase cosi’ avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative.

[7] CED Cassazione, 2003

[8] Il comma 4 e` sostituito dal seguente:

"4. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano quando si procede per uno dei delitti previsti dall’articolo 4-bis della legge 26 Luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, ad eccezione di quelli di cui agli articoli 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale purche´ non siano ravvisabili elementi di collegamento con la criminalita` organizzata od eversiva ";

[9] Come già detto in altra parte si tratta di delitti di particolare gravità, in relazione alla commissione dei quali si deve accertare la pericolosità dell’autore, ma soprattutto, per ottenere l’accesso ai benefici dell’ordinamento penitenziario gli interessati devono collaborare con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter della L. 354/75.

 

 


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Lunedì, 13 Marzo 2006
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