di Carlo Alberto Zaina
Si sono già esposti, con il commento globale al nuovo dettato dell’art.
89, gli articolati e plurimi dubbi che il testo in disamina prima facie ha
sollevato. Melius re perpensa, il costante monitoraggio esegetico della norma
suscita e provoca altro e diverso profilo di preoccupazione interpretativa. Non può, infatti, passare sotto silenzio il problema, (che ben
presto nella fase attuativa della norma si porrà quotidianamente), concernente
il contrasto che insorge fra l’art. 284 comma 5 bis c.p.p. e l’art. 89
novellato. La prima disposizione, infatti, vieta la concessione degli arresti
domiciliari a chi sia stato condannato per il reato di evasione nei cinque anni
precedenti al fatto per il quale si procede. Si tratta di una norma introdotta con l’art. 16 comma 4° d.l. 24
novembre 2000, n. 341, convertito con modifiche dalla L. 19 Gennaio 2001 n. 4,
ed è stata da subito oggetto di sospetti di incostituzionalità, peraltro,
fugati dalla Consulta, la quale ha ribadito la piena legittimità del divieto di
concessione degli arresti domiciliari, in luogo dell’automatica misura della
custodia cautelare in carcere, in caso di precedenti penali per il reato di
evasione (Corte cost. (Ord.), 16/04/2003, n.130, Riv. cancellerie, 2003, 566). Quis iuris, quindi, qualora il soggetto, il quale possa fruire del
regime previsto dall’art. 89 citato, versi, peraltro, nella condizione
soggettiva ostativa descritta dalla regola codicistica di cui all’art. 284/5°
c.p.p. ? Se è, pertanto, vero che la novità introdotta con la L.
49 del 2006, consiste nella cd. “centralità dell’arresto
domiciliare”, come si potrà armonizzare tale impostazione con il divieto
preesistente che vanifica, pertanto, lo svolgimento di un programma di recupero
fortemente condzionato dall’accesso alla cattività domestica ? Pare di dovere sottolineare che – stante l’attuale dizione
dell’art. 89 ed il mancato coordinamento fra tale previsione ed il comma 5 bis
dell’art. 284 c.p.p. – la soluzione da adottare in ipotesi del tipo di quella
indicata, debba essere indirizzata in senso negativo e cioè che colui, che si
trovi nella situazione di non poter fruire dell’arresto domiciliare per la
pregressa violazione dell’art. 385 c.p. (evasione), non possa godere di alcuna
deroga al dettato normativo e non possa accedere al regime del novellato art.
89. In buona sostanza, pare indiscutibile la considerazione che, nel
bilanciamento fra l’opzione riabilitativa e di recupero del singolo
tossicodipendente (consistente in un programma terapeutico da eseguirsi in
regime di arresti domiciliari) e la situazione personale dell’interessato,
fondata anche su circostanze contingenti e collegate con quello stato di
tossicomania, cui il programma dovrebbe ovviare, la prima è minusvalente
rispetto alla seconda. Si tratta dell’ennesima manchevolezza e dell’ulteriore
contraddizione legislativa, se è vero che uno dei fini della riforma portata
dalla l. 49/06 avrebbe dovuto essere quello di facilitare il recupero del
tossicodipendente, pur attraverso l’adozione di percorsi che postulano
necessariamente una evidente, quanto discutibile contrazione dello status
libertatis dell’interessato. In tale ottica, infatti, primaria preoccupazione – nell’elaborazione
del dettato normativo – sarebbe dovuta essere quella (una volta deciso
l’opinabile assioma fra programma terapeutico ed arresto domiciliare) di
eliminare ogni possibile asperità e irrazionalità normativa, inserendo una
deroga al divieto posto dall’art. 284/5° c.p.p. . Ciò non è avvenuto, sicchè si deve, pertanto, ritenere – in
colpevole carenza di una minima precisazione legislativa – assolutamente
prevalente, nell’ottica di un corretto inquadramento sistematico dell’isituto
in questione, ricorrere alle norme generali in tema di misure cautelari
personali, contenute nel codice di procedura penale. Tale impostazione del problema trova, poi, tranquillizzante
conferma in una recente pronunzia della Suprema Corte di Cassazione Cass. pen.,
(sez. II, 11/02/2003, n.20105, Tomasino, Riv. Pen., 2004, 126 Arch. Nuova Proc.
Pen., 2004, 127), la quale ha affermato che l’unica deroga, che il t.u. sugli
stupefacenti ha previsto in materia cautelare, concerne solamente la
valutazione della misura coercitiva in rapporto ad esigenze che vengano
considerate come eccezionali[1]. Sicchè, la Corte di legittimità ha affermato che la violazione
degli oneri connessi al regime di arresti domiciliari, ricade nell’alveo
normativo del codice di rito, potendo il tossicodipendente – inadempiente alle
prescrizioni – patire la revoca della misura (ex art. 276 c.p.p) e
l’inasprimento del regime interinale, con ripristino della custodia in carcere. Se, pertanto, la prevalenza della normativa codicistica rispetto
ad ogni altra (in assenza di deroghe espressis verbis) concreta il riaffermato
e costante orientamento di principio del Collegio, non si vede perché tale
regola non debba tovare puntuale ed ineluttabile applicazione anche nel caso di
specie. Né, a parere di chi scrive, si ritiene che sia possibile, in
maniera efficace, invocare un difetto di costituzionalità della norma di cui
all’art. 284/5 c.p.p. (nel rapporto con l’art. 89 dpr 309/90), sotto il profilo
della asserita violazione degli artt. 3 e 27 Costituzione. Pare, infatti, di potere affermare che, al di là della censura
metodologica, relativa alla incoerenza e disarmonicità del substrato normativo
in questione, rispetto alle norme vigenti in materia di regolamentazione del
regime cautelare, le ragioni in base alle quali la Consulta rigettò illo
tempore – come detto in precedenza – ogni questione di legittimità
costituzionale, mantengano tuttora la loro inalterata valenza.
Non è, pertanto, affatto irragionevole, che sia prevista ex lege
la preclusione all’accesso ad un beneficio od ad un regime intermedio di natura
cautelare nei confronti di colui che abbia fornito prove negative, e si
dimostri inidoneo a sottoporsi a misure che presuppongono nel soggetto sia la
capacità di essere munito di spinte criminorepellenti, sia la volontà di
operare una revisione critica delle proprie pregresse condotte, per il tramite
dell’assoggettamento incondizionato alle prescrizioni imposte dal giudice.
La persona che aspira ad un’attenuazione della pressione cautelare
deve, quale regola generale, (a prescindere, quindi, dalla propria condizione
personale), dimostrare sempre e comunque di essere soggetto dotato di capacità
di autodeterminazione rispetto ad ipotetiche pulsioni criminogene, nonchè di
specifica consapevolezza della portata degli obblighi che una cautela
intermedia comporta, di percezione della inderogabile doverosità della condotta
processuale che egli assumerebbe in caso di attenuazione della pressione custodiale.
[1] Poiché la legge speciale in materia di repressione del traffico di
stupefacenti, D.P.R. n. 309 del 1990, non contiene alcuna disciplina generale
derogatoria del codice di procedura penale al tossicodipendente che ha in corso
un programma di recupero, se viola le disposizioni degli arresti domiciliari,
può essere ripristinata la misura della custodia cautelare in carcere ai sensi
dell’art. 276 c.p.p. Infatti la norma di cui all’art. 97 del D.P.R. n. 309 del
1990 prevede una deroga al codice di procedura penale per il momento in cui
deve essere intrapreso il programma di recupero, costituendo ostacolo solo
esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, ma non quando si siano violate nel
corso del programma le disposizioni della detenzione domiciliare.
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