Giurisprudenza di
legittimità
Avverso
tale sentenza l’ufficio territoriale di Governo di Salerno, succeduto al
Prefetto, ha proposto ricorso per cassazione. Denunciando
violazione e falsa applicazione degli articoli 14 legge n. 689 del 1981, 200 e
201 d. l.vo n. 285 del 1992, 384 d.P.R. n. 495 del 1992, nonché difetto di
motivazione, in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ., deduce
che la decisione impugnata, ritenendo possibile un’immediata contestazione
dell’infrazione, si pone in contrasto con principi affermati dalla
giurisprudenza di legittimità, secondo i quali sono tipizzate, senza lasciare
alcun margine di apprezzamento in sede giudiziaria, le ipotesi in cui nel
verbale sia indicato, come nella specie è avvenuto, che l’accertamento
è stato effettuato con apparecchiatura che consentiva la rilevazione
dell’illecito in tempo successivo, ovvero dopo che il veicolo era già a distanza
dal posto di accertamento. Poiché il verbale conteneva tale indicazione, il
giudice di pace non poteva smentire la circostanza in mancanza di una specifica
impugnazione del verbale per difetto di veridicità. L’intimato
non svolgeva attività difensiva in questa sede. La
prima Sezione civile della Corte, con ordinanza 9 agosto 2004, n. 15396,
rilevava d’ufficio che sulla legittimazione ad
causam nei giudizi d’impugnazione dei processi verbali di contestazione di violazioni
del codice della strada la giurisprudenza di legittimità si era costantemente
pronunciata nel senso che l’organo legittimato a resistere in giudizio, e
quindi a proporre il ricorso per cassazione, fosse, non già il Prefetto, ma il
Ministro dell’Interno, quale organo di vertice dell’amministrazione dalla quale
dipende l’organo di polizia che aveva redatto il verbale. Nell’ordinanza si
dava, però, atto, di un contrasto esistente nella giurisprudenza della Sezione
circa le conseguenze dell’erronea
identificazione dell’organo legittimato, avendo alcune sentenze ritenuto, in
applicazione del principio contenuto nell’art. 4 della legge 25 marzo 1958, n.
260, che il vizio costituisca una mera irregolarità, potendo essere sanato ove
non eccepito dall’amministrazione nella prima udienza dinanzi al giudice di pace;
altre ritenuto la nullità o inammissibilità dell’opposizione, rilevabili
d’ufficio (salva La formazione del giudicato) e
sanabili solo nei casi e nei modi previsti dalla detta norma, in quanto
proposta e notificata nei confronti di soggetto non legittimato, con
conseguente mancata instaurazione del contraddittorio. La
Sezione rimetteva, quindi, il ricorso al Primo Presidente, che ne disponeva
l’assegnazione alle Sezioni Unite.
Circa
le conseguenze dell’erronea identificazione dell’organo passivamente
legittimato, e specificamente il Prefetto, anziché il Ministro dell’Interno,
l’ordinanza coglie i seguenti orientamenti giurisprudenziali: a) un
primo orientamento ritiene che il vizio di vocatio in jus costituisca
una mera irregolarità, sanabile, sia nel caso in cui la parte provveda, nel termine
assegnato dal giudice, a rinnovare la notifica nei confronti dell’organo
legittimato, indicato dall’Avvocatura erariale, sia se l’eccezione non è tempestivamente
formulata dall’amministrazione costituita, sia se la stessa è rimasta
contumace (sentenze 6 dicembre 1996, n, 10890; 6 agosto 1998, n. 8471; 19
dicembre 2001, n. 16031) ; b) secondo un diverso
orientamento, il vizio costituisce nullità sanabile, e pertanto dà luogo a
inammissibilità della domanda se non sanato nei casi e nei modi previsti
dall’art. 4 della legge 25 marzo 1958, n. 260; c) altre sentenze, sul presupposto della natura eccezionale
del citato art. 4, hanno ritenuto che l’erronea individuazione dell’organo
determini inammissibilità dell’azione, non emendabile attraverso rinnovazione ai
sensi dell’art. 4 della legge n. 260 del 1958, non trattandosi di errore che
investe la notifica, ma la parte del giudizio.
Alcune
sentenze (ad esempio, 19 novembre 2003, n. 17546) hanno
osservato che, dato il carattere di specialità della disciplina contenuta nella
legge n. 689 del 1981, i predetti principi non possono essere applicati oltre
l’ambito ivi previsto. Per
tracciare un quadro più completo è opportuno
richiamare l’interpretazione, data da una giurisprudenza consolidata, dell’art.
4, secondo comma, del d.l.vo n. 113 del 1999 in materia di espulsione dello straniero,
secondo il quale «l ’autorità che emesso il decreto di
espulsione può stare in giudizio personalmente o
avvalersi di funzionari appositamente delegati». L’identità del tenore
di tale norma rispetto a quello dell’art. 23 della legge n. 689 del 1981 ha
determinato la giurisprudenza a riaffermare il prevalente orientamento
formatosi sull’interpretazione di tale articolo, e cioè la legittimazione del
prefetto in tutte le fasi del giudizio, compresa quella di legittimità, con
conseguente inammissibilità - non sanabile – del ricorso
per cassazione proposto nei confronti del Ministro dell’Interno. La ratio di tale legittimazione esclusiva viene
individuata nell’interesse pubblico ad un’immediata risposta in sede locale. L’applicabilità
dell’art. 4 - nei casi in cui non opera una speciale competenza
funzionale (come quelle sopra richiamate) e la
conseguente deroga al disposto dell’art. 11 del r.d. n. 1611 del 1933, comporta
che la mancata identificazione dell’organo abilitato a rappresentare lo Stato
non implica - secondo la giurisprudenza prevalente - un
difetto di legittimazione passiva, ma una mera irregolarità, non rilevabile
d’ufficio, bensì solo con le modalità e conseguenze previste dall’art. 4 (così
le sentenze 26 novembre 1996, n. 10457; 19 dicembre 2001, n. 16031; 19 novembre
2003, n. 16546. Ne consegue, altresì, che se nel giudizio
di primo grado è presente l’Avvocatura, ed essendo la
sentenza emessa nei confronti del Prefetto, senza che sia stato proposto un
motivo d’impugnazione al riguardo, resta definitivamente preclusa ogni questione
circa l’inesatta identificazione dell’organo abilitato a rappresentare lo
Stato. 3.2.
Le Sezioni Unite ritengono che debba essere seguita la via indicata
dalla giurisprudenza maggioritaria delle Sezioni semplici. Il
problema si risolve attraverso una corretta interpretazione dell’art. 4 della
legge 25 maggio1958, n. 260. A
tal fine non pare necessario uno sforzo di ricostruzione dogmatica del fenomeno
dell’individuazione di specifiche figure soggettive, senza personalità
giuridica ma aventi una propria legittimazione, nell’ambito di uno stesso ente
pubblico. Tale sforzo, infatti, si traduce spesso in questioni meramente
definitorie. Basterà, quindi, constatare che l’ordinamento, per evidenti
esigenze di carattere pratico, non si limita a riconoscere alle singole
articolazioni organizzatorie di un
ente rilevanza esterna, ma attribuisce alle stesse una specifica legitimatio ad causam, facendole diventare - pur essendo prive ex
definitione di personalità giuridica - soggetti
processuali, in relazione a rapporti giuridici di cui è parte
l’ente di pertinenza. Tale fenomeno, per quanto riguarda l’ordinamento statale,
ha da tempo comportato gravi difficoltà per l’individuazione della figura
soggettiva legittimata: già la tabella allegata al regolamento approvato con r.d. 25 giugno 1865, n.
2361, conteneva un elenco degli organi amministrativi dotati di legitimatio
ad
causam in relazione
alle loro specifiche competenze. Si consideri, inoltre, la regola dettata in
materia di giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, coerente con
la natura impugnatoria di tale giurisdizione, secondo la quale parte necessaria
del giudizio e sempre l’autorità che ha emesso l’atto o provvedimento impugnato
(art. 36 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, e 21 della legge 6 dicembre
1971, n. 1034). Nel
variegato panorama degli organi dello Stato forniti di capacita a rappresentare
quest’ultimo in giudizio, r.d. l. 30
ottobre 1933, n. 1611 non aveva risolto le difficoltà d’individuazione di
quello legittimato, con evidente aggravio dell’esercizio della tutela
giurisdizionale. Tali difficoltà non erano risolte attraverso l’applicazione,
richiamata dall’art. 52 del citato r.d., della tabella annessa al già
menzionato regolamento 25 giugno 1865, i cui aggiornamenti, imposti dall’evoluzione
dell’organizzazione amministrativa, erano spesso inadeguati per consentire una
corretta individuazione dell’organo competente. Tale difficoltà comportava una
frequente dichiarazione di nullità insanabile della citazione, anche nei casi
in cui l’Avvocatura dello Stato si era costituita, stante la formazione di un
consolidato orientamento giurisprudenziale in tal senso, che non aveva seguito
l’isolata indicazione della sentenza delle Sezioni Unite del 4 luglio 1949. La
legge n. 260 del 1958 venne emanata con l’evidente scopo di semplificare
l’individuazione dell’organo competente a rappresentare lo Stato, indicando lo stesso
nel Ministro competente e prevedendo,
inoltre, un regime di sanatoria nei casi definiti come errore della persona cui
la notifica deve essere fatta (art. 4) Appare
evidente che tale norma, nel quadro delle esigenze di una più rapida ed
efficiente tutela, non può essere letta in modo riduttivo, e quindi riferita ai
casi di erronea identificazione della persona fisica titolare dell’organo o ad
esso addetta, ma proprio all’errore nell’identificazione dell’organo
legittimato. Senza
entrare negli specifici problemi sollevati in relazione alla tutela nei
confronti dell’ordinanza-ingiunzione e nei provvedimenti di
espulsione dello straniero, che non costituiscono oggetto della decisione di
cui le Sezioni Unite sono investite, appare chiaro che una visione riduttiva
del regime di sanatoria introdotto con la legge 260 del 1958 ha non poco
influito su un’interpretazione particolarmente rigida del regime d’invalidità
conseguente all’erronea individuazione dell’organo fornito di legittimazione. Una
corretta interpretazione di tale regime non può comunque, qualunque fosse la
reale intenzione del legislatore al tempo della sua introduzione, prescindere dai
vincoli derivanti dai principi costituzionali di pienezza ed effettività della
tutela giurisdizionale, ulteriormente rafforzati dal nuovo testo dell’art. 111 Costituzione.
A ciò si aggiunga che, nei campi in cui si chiede la tutela giurisdizionale di
diritti derivanti dall’ordinamento comunitario - divenuti
assai numerosi - il principio di effettività osta ad una
disciplina processuale che renda eccessivamente difficile l’esercizio di tali
diritti. Si
consideri, ancora, l’indicazione della giurisprudenza della Corte
Costituzionale (sentenza n. 189 del 13 giugno 2000) per
un’interpretazione, se necessario
adeguatrice, del sistema processuale nel senso
di restringere le ipotesi di inammissibilità dei rimedi
giurisdizionali. Il
risultato di tali indicazioni, provenienti da norme o ordinamenti di rango
superiore, è un vero e proprio effetto di irraggiamento nei confronti della disciplina
legislativa che regola i modi di esercizio della tutela giurisdizionale. Tale
effetto adeguatore del sistema normativo, allorché sia in gioco la tutela di
diritti fondamentali, è stato riconosciuto dalla giurisprudenza
di questa Corte proprio in materia processuale (Sezioni
Unite, sentenza del 2 dicembre 2004, n. 22601). Pertanto,
l’espressione «errore nella persona che deve
ricevere la notificazione» deve
essere, quindi,
letta, come «errore nell’indicazione dell’organo legittimato», intendendosi
per persona il soggetto
(e cioè la specifica articolazione dell’organizzazione statale) fornito
di legittimazione. Non si tratta, pertanto, di estensione analogica della
norma al di
là dei casi da essa contemplati. Del resto, la stessa lettera dell’art. 52
del r.d. n.
1611 del 1933 («le notificazioni alle
Amministrazioni dello Stato debbono essere fatte alla persona che le
rappresenta nel luogo ove risiede l’autorità giudiziaria che sarebbe competente
secondo le norme ordinarie della procedura civile») si
riferiva chiaramente all’organo, pur attraverso la persona fisica che ne era
titolare. La
corretta interpretazione, conforme ai principi costituzionali e
a quelli derivanti dall’ordinamento comunitario, è, pertanto,
nel senso che l’erronea individuazione dell’organo legittimato non comporta la mancata
costituzione del rapporto processuale, ma mera irregolarità, sanabile attraverso
la rinnovazione dell’atto nei confronti di quello indicato dal giudice, la mancata
eccezione dell’amministrazione, o la mancata deduzione di specifico motivo di
cassazione. Nella specie, la stessa Avvocatura ha dedotto nella memoria di non
avere interesse a svolgere censure circa l’individuazione dell’organo
legittimato e ha concluso nel merito. 3.3.
Pertanto, risolta la questione nel senso di ritenere ritualmente
costituito, ai fini della validità della pronuncia sul merito, il rapporto
processuale, si deve passare all’esame del ricorso dell’Amministrazione. Le
censure meritano accoglimento. Secondo
una consolidata giurisprudenza della Corte, nel caso di violazione di
superamento dei limiti di velocità rilevata tramite «autovelox», l’indicazione
nel verbale dell’impossibilità di procedere ad immediata contestazione della
violazione nel caso in cui, come quello in esame, secondo la previsione
dell’art. 384, lett. e), del regolamento di
esecuzione al codice della strada, si tratti di un caso d’impossibilita
tipizzata, ancorché si tratti di formula di stile, dà adeguata ragione della
mancata contestazione immediata, e non è consentito al giudice
un apprezzamento consistente in un sindacato sulle scelte organizzative del
servizio, attraverso l’indicazione di modalità alternative, quali il
posizionamento di un agente in divisa o la predisposizione di apparecchiatura
che consentisse la rilevazione della violazione in tempo successivo, ovvero dopo
che il veicolo si trovava ad una certa distanza dal luogo dell’accertamento. Le
Sezioni Unite fanno riferimento, fra le altre, alle sentenze 28 gennaio 2001, n.
4571; 21 febbraio 2002, n. 4048; 1 agosto 2003, n. 11722; 7 novembre 2003, n.
16713; 18 maggio 2005, n. 944;
17 marzo 2005, n. 5861; 4 maggio 2005, n. 9222. Pertanto,
considerato che il giudice ha compiuto un indebito sindacato sull’esercizio
della potestà organizzativa dell’amministrazione, senza considerare che il
verbale conteneva sufficienti indicazioni per dare ragione della mancata,
immediata contestazione, la sentenza deve essere cassata. Poiché la cassazione
viene pronunciata per violazione di norme di diritto (art. 360,
n. 3, cod. proc. civ.) e non sono necessari ulteriori accertamenti
di fatto, la Corte, nell’esercizio del potere di decisione della causa nel
merito ad essa attribuito dall’art. 384, comma 1°, cod. proc. civ., rigetta l’opposizione. Ricorrono
giusti motivi per compensare le spese dell’intero giudizio.
accoglie
il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta
l’opposizione; compensa le spese dell’intero giudizio. Così
deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 15 dicembre
2005. Depositata in cancelleria
il 14 febbraio 2006 |
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