Il Centauro, dunque, come
allegoria della doppiezza umana, della gracile ed esplosiva commistione fra il
bene e il male, che, come intuì con terribile lucidità Nietzsche, nell’uomo non
sono entità distinte, ma sono, sempre e pericolosamente, intimamente
intrecciati. Nella storia, soprattutto
ai tempi delle invasioni barbariche, abbiamo avuto esempi di guerrieri che, per
la loro tecnica, l’abilità e l’efferatezza, si sono avvicinati al mito del
Centauro. Su tutti, forse, i Mongoli. La loro calata in Europa, nella metà del
tredicesimo secolo, e soprattutto la loro ritirata unilaterale, è l’esempio di
come noi occidentali abbiamo potuto prosperare, crescere, civilizzarci (e poi
arrivare a certe degenerazioni odierne) solo per un imprevisto della sorte, che
ci ha favorito. Senza quell’imprevisto, forse avremmo vissuto in schiavitù per secoli.
La storia è questa. Sotto la guida di Batu
Khan, grande condottiero, all’incirca nel 1240 i Mongoli, seguendo il loro dilagante
disegno di espansione imperiale (legittimo, forse: non l’avevano già fatto
Romani, Macedoni, Cinesi, Arabi, Ottomani?) sbaragliano le truppe russe,
devastano la Galizia, l’Ungheria e giungono alle soglie di Vienna e nei pressi
dell’Adriatico. Le potenze europee cercano di coalizzarsi, ma inutilmente. La inaudita.
Fino a quando, alle loro spalle, si presenta un messo che, diligentemente, ha
attraversato tutte le steppe dell’Asia e reca un messaggio della moglie del
Khan. Il Khan è morto. Bisogna rientrare alla base per accordarsi sulla
successione. I terribili guerrieri mongoli levano le tende, girano il loro caratteristico
muso di nuovo verso est e se ne vanno. Non torneranno mai più, almeno in
Europa. Se ciò non fosse successo, ci sarebbe stato un Rinascimento? L’età
delle Signorie? E tutto ciò che dopo ne è derivato, rivoluzione francese compresa?
Forse no. La particolarità che forse rendeva invincibili i Mongoli era la loro
capacità, unica, di cavalcare in piena velocità a briglia sciolta e,
contestualmente, di girarsi con estrema facilità e scagliare frecce, come di
avvicinarsi all’avversario in fuga, placcarlo, trafiggerlo, dilaniarlo nel
corpo a corpo. Riuscivano, cioè, a fondersi perfettamente con il cavallo, a
costituire un entità integrata fra il corpo equino e il guerriero. Erano
Centauri, insomma. Con i Mongoli, forse anche i mitici Centauri della Tessaglia
avrebbero avuto seri problemi. Ma
torniamo ai centauri in letteratura. Sappiamo tutti che la parola “centauro”,
oggi e da tempo, nel suo significato volgarizzato, indica il guidatore spericolato
e virtuoso, abile a maneggiare una moto potente e veloce. Vasco Pratolini (“Cronache
di poveri amanti”), ad esempio, ne tratta quando narra di un sidecar, “stella
cometa che annunzia il diluvio agli uomini di buona volontà. Lo guida un San
Giorgio di due metri, a testa nuda, le labbra tra i denti e gli occhi fissi all’orizzonte:
un centauro mitologico che indossa una giacca operaia”. Si affacciano qui i
nostri tempi e altri miti. Come dimenticare, allora, il grande film “I diari
della motocicletta”, sulla giovinezza del Che, centauro a spasso per le lande
del Sudamerica in un viaggio catartico di iniziazione alla maturità? Ma veniamo proprio ai nostri tempi, a quelli
di adesso, o almeno degli ultimi dieci anni. Abbiamo detto cosa scriveva
Machiavelli, richiamando la figura del centauro nella sua metafora del potere. Scriveva
che “bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura”, di “uno mezzo
bestia e mezzo uomo”. Normale. La folla, la moltitudine, si sa, è sempre stata
come una donna, vuole essere presa, con tutti i mezzi, spicci e anche un po’ brutali,
perché un po’ di violenza non guasta. Dà fascino, almeno all’inizio. Oggi, però, non è più così, oggi che il potere
nasce e si struttura con l’insinuazione e la presenza mediatica. Oggi il
principe non deve essere più mezzo uomo e mezzo bestia. Magari, forse, deve
essere mezzo uomo e mezzo virus. E gli unici centauri restano quelli della
motocicletta. *Gip presso il Tribunale di Forlì |
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