Ho già avuto modo di presentare considerazioni assai critiche sul d.L. 14 marzo 2005, n. 35, di recente pubblicazione, mediante un pezzo in corso di pubblicazione sul portale poliziamunicipale.it. Soprattutto con riferimento a questo modo ormai consueto, d’intervenire su problemi forti del Paese, mediante il ricorso alla decretazione d’urgenza, nel caso di specie, o alla legge delegata, in altre circostanze; insomma, con chiare scelte di indirizzo politico e di interesse nazionale, non presentate direttamente nell’aula parlamentare - massimo organo rappresentativo dei cittadini e delle sorti della Repubblica - se non per una mera conferma dell’atto governativo o per una quanto mai astratta delegazione al Governo, a legiferare. Ma al di là di queste critiche che ormai si reiterano in molti nostri scritti, dubitando persino chi scrive dell’attuale ruolo del Parlamento e di altri organi che sembrano essere deputati a divenire baluardi storici, non della prima e neppure della seconda Repubblica, se non di quella che fu la Repubblica Italiana, una ulteriore critica, se non una valutazione di ambiguità, è oggi rivolta a quella "scheggia giuridica" che sembra essere sfuggita a quel Mastro Geppetto, che con tanto impegno, ha dato forma alla sua onirica creatura. Una sorta di Pinocchio che in sessanta giorni potrebbe veder bruciate le sue gambe, perché troppo vicine al fuoco, se non bruciarsi tutto; salvo vi sia una Fata Turchina che lo trasformi in bimbo buono e quindi, restituisca dignità legislativa ad un atto governativo che tutto rappresenta, fuorché la volontà del popolo italiano. Le mie origini toscane mi hanno spinto a ricordare i tempi che furono e la fiaba della mia infanzia; quella dove venivano esaltate le povere ma nobili speranze della gente semplice, proiettata verso il futuro, nella figura di un figlio; quella del burattino legato dai lacci e lacciuoli, nella sua condizione di mero prodotto economico; quella del suo far ricerca di ritrovare la sua dignità di persona, rispettata in quanto tale; quella della lotta che è necessario fare nella vita per affermare questa dignità... e di questo chiedo scusa. Ma certamente, parlare qui di "scheggia giuridica" ha un evidente significato concreto, giacché l’avere previsto una così breve, ma importante partizione, in questo "mostro giuridico", non può non essere definita in altri termini. Ne ho fatto ricerca allorquando i giornalisti ne annunciavano la pubblicazione; non l’ho trovata quando - seppur fugacemente - ho letto le leggi pubblicate in gazzetta; solo dopo alcuni giorni dalla pubblicazione, grazie al dialogo professionale, ne sono venuto a capo. E questo non è un fatto secondario. Questo perché nascosta tra i "trucioli legislativi" (mi sia consentito mantener la trasposizione fiabesca) di un testo di per sé assai complesso, anziché emarginata per essere meglio riconosciuta dagli addetti ai lavori. Parlo di "scheggia giuridica" perché come ogni scheggia rischia di ferire non solo coloro i quali la subiranno, ma, non da meno, chi la dovrà trattare. Ed ecco che come addetto ai lavori mi accingo a far il c.d. "avvocato del diavolo" giacché come ogni altra legge, ma più di ogni altra legge, tanti sono i significati che gli si possono attribuire. Certamente, per contrastare un fenomeno assai grave come la contraffazione (non di per sé, ma per l’attività criminale che il fenomeno sottende: sfruttamento della clandestinità, lavoro minorile, danno economico-sociale,...), ci sarebbe stato bisogno, soprattutto, di una norma chiara e molto meno ambigua di altri testi di legge; ci sarebbe voluta una legge dello Stato, piuttosto che un decreto legge che rischia di far venir meno tutta un’attività investigativa nel momento in cui non fosse convertito in legge o comunque sostanzialmente modificato in sede di conversione. Questo è quello che oggi abbiamo; questo è quello che a noi è dato di far rispettare. Ebbene, la prima impressione che ho nel leggere il comma 7 dell’art. 1 del d.L. 35/2005, è quella di rileggere l’art. 712 c.p. (acquisto di cose di sospetta provenienza) che, anziché punire il fatto con una sanzione amministrativa pecuniaria sino a 10.000 (e dico 10.000!) euro, punisce lo stesso fatto con l’ammenda non inferiore a 10 euro (e dico 10!). Certamente, se l’acquirente o l’intermediario acquistasse, ricevesse o accettasse con scopo di profitto lo stesso bene, nella piena consapevolezza che questo proviene da un qualsiasi delitto, il fatto sarebbe punito a titolo di ricettazione dall’art. 648 del codice penale. Ebbene l’incipit del comma 7 che stiamo commentando reca la classica formuletta del "...salvo che il fatto non costituisca reato...": dunque, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria che completa la partizione del mostro giuridico citato, se e solo se il fatto non costituisce reato. Allora, dobbiamo domandarci prioritariamente quando l’acquisto o l’accettazione di un bene di provenienza illecita determina la consumazione di un reato e quando si applichino, in concreto, gli artt. 648 o 712 del c.p. (salvo se altri). A riguardo, una prima considerazione va fatta proprio su ciò che distingue il reato di ricettazione, da quello di acquisto di cose di sospetta provenienza. Intanto, l’art. 648 del codice penale è un delitto contro il patrimonio, relativamente al quale non è sufficiente accertare il fatto, se non la partecipazione volontaria e cosciente dell’autore materiale del reato. Dunque, chi acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un delitto, lo deve fare con la consapevolezza di farlo e con lo scopo di ottenere per sé o per altri un profitto. Non da meno, la cosa che è stata acquistata, accettata od occultata deve essere necessariamente un provento di delitto, conseguendone anche la necessaria capacità dell’agente di riconoscere la cosa come tale. L’esperienza ci insegna che chi si rivolge ai c.d. "abusivi", è ben cosciente che l’attività posta in essere da questi soggetti non è certamente lecita; è ben cosciente, cioè, che il commercio su area pubblica avviene senza le necessarie autorizzazioni, che nell’esercizio del commercio non sono emesse fatture, ecc. Personalmente, ho assai meno certezze sulla consapevolezza dei "clienti del fine settimana" o quanto meno, su buona parte di questi, che i prodotti messi in commercio sono da considerare sempre e comunque merci protette dalle leggi sul diritto d’autore e la proprietà intellettuale. Ciò non è sempre dimostrato, nè sempre dimostrabile. Resta probabile che l’acquisto illecito di queste merci riguardi cose provenienti da un qualsiasi reato, così come invece recita l’art. 712 del citato codice. In tal caso, la fattispecie è punita a titolo di contravvenzione e dunque, la punibilità dell’azione, non necessita di un’attenta valutazione dell’elemento psicologico dell’autore giacché nelle contravvenzioni - lo ricordiamo - ciascuno risponde della propria azione cosciente e volontaria sia essa dolosa o colposa (art. 42, u.c. c.p.). Dunque, le merci oggetto di acquisto o di ricezione non necessariamente dovrebbero provenire da un’attività delittuosa, quanto piuttosto da una generica attività criminale, quale quella da riferire allo smercio di prodotti industriali con segni mendaci (art. 517 c.p.) oppure, come già si è detto, prodotti alterati o contraffatti (art. 474 c.p.), senza che, in questo caso, sia dimostrata la consapevolezza dell’agente circa la non genuinità del bene acquistato o ricevuto e la sua provenienza delittuosa. Certamente, con riferimento a quanto previsto dal comma 7, dell’art. 1 del d.L. 35/2005 (...salvo che il fatto non costituisca reato...) o si deve escludere che ci si trovi dinanzi al reato o si deve ipotizzare che la norma da ultimo citato, vada ad individuare una precisa fattispecie riconducibile al solo smercio di prodotti industriali dell’ingegno. Salvo l’ipotesi da ultimo citata, è ben difficile qualificare il fatto come illecito amministrativo, quando invece e con i medesimi criteri di valutazione dell’elemento psicologico (cfr. art. 3, comma 1, l. 689/81), si attaglia bene l’art. 712 c.p. più volte citato. Se si accoglie invece l’ipotesi della individuazione di una norma speciale (art. 9, comma 1, l. 689/81) ci troveremmo dinanzi ad una nuova ipotesi di illecito amministrativo, che potremmo (noi) rubricare "incauto acquisto di beni di proprietà intellettuale", da scorporare dal genere delle fattispecie criminose dell’acquisto di cose di sospetta provenienza. Ad un primo ordine di ambiguità oggettive, se ne aggiungono poi altre, di natura soggettiva. Infatti, a tutti noi - alcuni soddisfatti altri sorpresi - gli organi dell’informazione ci hanno propinato l’idea che con questa legge d’urgenza, si sarebbe colpito duramente il "mercato buono" della contraffazione; infatti, le sanzioni esemplari previste dal decreto più volte citato avrebbero attinto direttamente colori i quali con l’acquisto o l’accettazione delle merci, producono domanda di mercato e quindi alimentano il mercato stesso del crimine. Lo abbiamo sentito dire talmente spesso, tanto da esserne pienamente convinti. Ma io che voglio fare l’avvocato del diavolo e forse anche in ragione del fatto che mi trovo tra coloro i quali restano perplessi e poco convinti dell’efficacia di questa legge, me la sono riletta e non vedo perché la legge vada a punire solo gi acquirenti di queste merci. Infatti, come generalmente accade, il decreto non punisce chiunque pone in essere l’azione illecita ma, piuttosto, punisce l’azione in se stessa considerata: ...è punito con...l’acquisto o l’accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza. Non solo l’acquisto ma anche la mera accettazione. Ora, se il momento dell’acquisto è verosimilmente da ricondurre all’acquisto in strada e dunque allo scambio economico tra bene oggetto di consumo e denaro, la mera accettazione è da ricondurre, probabilmente, ad un momento antecedente all’acquisto stesso e che potrebbe essere individuato nel mero atto di accettare il bene da parte dello stesso venditore che lo detiene per vendere. Oppure, come è più comodo pensare - ma ciò che è più comodo mal si concilia con ciò che è giuridicamente corretto affermare - il Governo ha voluto punire la mera accettazione, il mero atteggiamento di apertura e di disponibilità all’offerta che, si badi ben, può essere configurabile come un semplice atteggiamento sociale d’intesa che limita le libertà fondamentali dei cittadini e di tutti i cittadini, comunitari ed extracomunitari. La condizione di acclarata legittima provenienza del bene, è poi da ricondurre a tre disgiunte circostanze concrete: ...per la qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo. Anche in questo caso, il c.d. "vu cumprà" è esso stesso acquirente e accettante beni di provenienza illecita, ma non necessariamente consapevole della provenienza delittuosa del bene, giacché non necessariamente inserito nel contesto socio-economico europeo. Il secondo periodo del comma 7 più volte citato, ricalca sostanzialmente il secondo comma dell’art. 712 del codice penale ed individua l’attività di intermediazione nell’incauto acquisto, assoggettando tale attività illecita alla medesima sanzione amministrativa pecuniaria più sopra evidenziata. Tra l’altro, l’intermediazione per l’acquisto o l’accettazione di tali beni non deve necessariamente procurare profitto, giacché resta comunque sanzionata se e in quanto se esercitata a qualsiasi titolo. Questo per giungere a concludere che non vedo così folle ritenere che tale sanzione non sia da applicare al solo acquirente "buono" (che giustificato da un esclusivo bisogno edonistico, ostenta spesso una paternalistica bontà, forse tentando di rimuovere quel senso di colpa che dovrebbe invece indurlo ad astenersi da simili deleteri acquisti) del mercato clandestino, ma anche a quello "nero" (in senso lato e concreto, senza intenzione di offesa per alcuno), vanificando quanto invece è stato propinato dagli organi dell’informazione. Almeno per me, resta difficile decidere quale strada prendere, laddove comunque si lascia aperta una ipotesi criminale, la cui valutazione investe o dovrebbe investire soltanto l’organo deputato a valutare se esercitare o meno l’azione penale. Resta, infine, una questione di fondo, che riguarda invece l’etica professionale. Quella cioè da ricondurre ai metodi di applicazione della norma, comunque la si interpreti. C’è già chi pensa di realizzare appostamenti finalizzati ad applicare la sanzione nei confronti di chi acquista su strada. Sul piano operativo si tratta di porre in essere dei pedinamenti, degli appostamenti, per cogliere in fallo l’acquirente nel momento dell’acquisto: contestare l’illecito estinguibile con il pagamento in misura ridotta di euro 3.333,33 (art. 16 l. 689/81), cui conseguirà un probabile ricorso amministrativo e porre sotto il vincolo del sequestro la cosa con la quale è stato commesso l’illecito e quindi soggetta a confisca amministrativa (art. 13, 21 l. 689/81) e, qualora periziata, sequestrata quale corpo del reato, con una notizia di reato a carico degli "ignoti" contraffattori (artt. 24 l. 689/81 e 347, 354 c.p.p.), con apertura del relativo fascicolo e della relativa indagine preliminare finalizzata alla ricerca degli autori materiali del reato. Seguendo questa logica, il "vu’ cumprà", venderà e se ne andrà, giacché diversamente necessiterebbe un plotone di poliziotti che si dedichi a questo fenomeno e a tutti gli altri a questo collegato. Sdrammatizzando un po’ e confidando negli effetti del tempo e della ragione, sono portato a richiamare alla memoria il titolo di una "fiaba" più moderna dicendo: speriamo che io me la cavo!
* Ufficiale della Polizia Municipale del Comune di Forte dei Marmi (LU).
|