La traduzione degli atti processuali è, ancora una
volta,oggetto di una innovativa quanto rilevante decisione della Suprema Corte
che ha stabilito che anche l’avviso di conclusione delle indagini preliminari
deve essere tradotto, a pena di nullità, se l’indagato non comprende la lingua
italiana. La Corte di Cassazione ha, infatti, affermato, nel
pregevole provvedimento, che l’omessa traduzione dell’avviso di conclusione
delle indagini preliminari destinato all’indagato che non comprende la lingua
italiana,ne determina la nullità d’ordine generale ed a regime intermedio,che
si riverbera anche sulla conseguente richiesta di rinvio a giudizio. Tuttavia,secondo la stessa decisione, tale nullità
può essere sanata, a norma dell’art.183,comma 1 lett. a), Cpp,dall’acquiescenza
prestata dall’imputato con la proposizione della richiesta di giudizio
abbreviato. La decisione appare,invero,innovativa e destinata a
modificare il precedente orientamento della stessa Suprema Corte (Cass. Pen.
sez. II, sent. n. 45645 del 25 novembre 2003) che aveva ritenuto,in una ipotesi
simile, come "in conformità sia del dettato costituzionale,sia dell’articolo
6, lettera e), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo 4 novembre 1950,
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955 n. 848, il diritto di difesa nei
confronti dell’imputato straniero alloglotta,fosse assicurato dall’assistenza
dell’interprete solo limitatamente agli atti orali,dovendosi escliudere
l’obbligo di traduzione degli atti processuali nella sua lingua ma dre,in virtù
della regola generale sancita dall’articolo 109, comma 1, Cpp, e con l’unica
eccezione costituita dall’articolo 169, comma 3,dello stesso codice,che
riguarda la traduzione dell’invito,notifi-cato all’imputato residente
all’estero,a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato”. La Corte aveva,in conseguenza,rigettato con il
provvedimento il ricorso del cittadino straniero che aveva dedotto la nullità
del giudizio per difetto di traduzione nella sua lingua di tutti gli atti del
procedimento, compre so anche l’atto di appello del P.M. (Cass. pen., sez. II,
10 agosto 2000, Lu Hai e altri). Con la stessa decisione,inoltre,la Corte aveva
disatteso il contenuto di altre sentenze emesse dallo stesso consesso,anche a
Sezioni Unite (Cass. Sezioni Unite 31 maggio 2000 n.12, JAKANI), non avendo le
stesse risolto esplicitamente la questione della obbligatorietà o meno della
traduzione degli atti del processo all’imputato alloglotta osservandoche anche
"l’interpretazione data dalla Corte Costituzionale all’articolo 143 del
Codice di Rito,con la sentenza interpretativa di rigetto numero 10 del 19
gennaio 1993, non aveva sopito, in sede di legittimità, il contrasto tra le
opposte tesi". Sul punto,la S.C. aveva,ancora,osservato che,se
“ratio” della citata decisione era stata quella di consentire una piena
consapevolezza dell’accusa, quale cristallizzata negli atti evocativi del
giudizio,tanto portava ad escludere dall’obbligo di traduzione sia l’avviso
previsto dall’articolo 415 bis Cpp,sia l’avviso di fissazione
dell’udienza preliminare, siccome atti propedeutici a tale cristallizzazione. Occorre,peraltro,ricordare come le Sezioni
Unite,sempre in relazione all’obbligo di traduzione degli atti processuali
riguardanti il cittadino straniero,abbiano,più di recente,stabilito che
l’ordinanza che dispone una misura cautelare nei confronti di uno straniero che
non conosca la lingua italiana debba essere tradotta, a pena di nullità, in una
lingua a lui nota (Cass. Sezioni Unite 9.2.2004 n.5052). Con la fondamentale sentenza, le S.U.hanno,di
fatto,risolto un analogo contrasto giurisprudenziale,come quello innanzi
segnalato, tra diverse sezioni della Suprema Corte in relazione alla traduzione
della ordinanza custodiale. In alcune decisioni,infatti,era stata affermata la
inesistenza di alcun obbligo di traduzione dell’ordi- nanza di custodia
cautelare in base al rilievo che, nel caso l’indagato non conoscesse la lingua
italiana,«la tutela dello stesso fosse assicurata dall’adempimento
dell’obbligo, previsto dall’art. 94, comma 1 bis, disp. att. c.p.p., a carico
del direttore dell’istituto penitenziario di accertare, anche con l’ausilio di
un interprete, che l’interessato avesse precisa conoscenza del provvedimento
che ne disponesse la custodia e di illustrargliene, ove occorresse, i
contenuti» (vedi Cass., 5 maggio 1999, n. 2128;Cass., 10 maggio 2002, n 17829;
26 giugno 2000, n.3759). Le Sezioni Unite avevano, per contro,aderito
all’opposto indirizzo giurisprudenziale derivante dalla combinata lettura della
sentenza della Corte costituzionale n.10/1993,nella quale era stato affer- mato
in maniera esplicita come il diritto all’interprete di cui all’art. 143 C p p
,comprendesse il diritto alla traduzione del decreto di citazione a giudizio in
tutti i suoi elementi, e dell’art. 292 dello stesso codice,concernente l’elenco
di una serie di elementi che l’ordinanza cautelare deve enunciare a pena di
nullità,ed avevano così stabilito che anche quest’ultimo provvedimento deve
recare la tra duzione in lingua nota al destinatario, ove il provvedimento
custodiale sia emesso nei confronti di straniero alloglotta. In base a tali principi, le S.U. avevano ritenuto
come “anche l’ordinanza custodiale, alla pari del decreto di citazione a
giudizio,deve considerarsi un atto dal quale l’indagato straniero che non
comprenda la lingua italiana può essere pregiudicato nel suo diritto di
partecipare al processo libero nella persona, in quanto, non comprendendo il
relativo contenuto, non è posto in grado di valutare né quali siano gli indizi
ritenuti a suo carico, né se sussistano o meno i presupposti per procedere alla
impugnazione dell’ordinanza, a norma dell’art. 292, comma 2, c.p.p.» (v. in tal
senso Cass.. 21 marzo 2002, n. 11598;Cass. 23 settembre 1999, n 4841;Cass. 8
settembre 1999, n. 1527). Le Sezioni Unite avevano, in effetti,mutuato alcuni
principi fondamentali già enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza
10/1993 tra cui vanno annoverati:
Nell’ottica della Corte delle Leggi,tali principi
scaturivano dalla lettura della Legge Delega 16 febbraio 1987, n. 81,
laddove,all’art.1, prevede che «il codice di procedura, penale deve attuare i
principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali
ratificate in Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale»,
come pure dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali ed,infine,dal Patto internazionale relativo ai diritti
civili e politici, ricordando che l’art. 6, comma 3, lettera a), della
Convenzione stabilisce che «ogni accusato ha diritto a essere informato, in una
lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato della natura e dei motivi
dell’accusa elevata a suo carico». Il Patto contiene,pure,una norma pressoché
identica,disponendo all’art 14, comma 3, lettera a), che «ogni individuo
accusato di un reato ha il diritto, in posizione di piena uguaglianza, a essere
informato sollecitamente e in modo circostanziato, in lingua a lui comprensibile
della natura e dei motivi dell’accusa a lui rivolta». Inoltre, sia la Convenzione sia il Patto prevedono
espressamente che «ogni persona che venga arrestata deve essere informata al
più presto possibile e in una lingua a lei comprensibile dei motivi
dell’arresto e di ogni accusa elevata a suo carico» (art 5, comma 2, della
Convenzione) e che «chiunque sia arrestato deve essere informato, al momento
del suo arresto, dei motivi dell’arresto medesimo e deve al più presto avere
notizia di qualsiasi accusa mossa contro di lui» (art 9 comma 2, del Patto). Va,infine,ricordato che il diritto dell’indagato di
essere posto in grado di comprendere, in una lingua che conosca, il contenuto
degli atti è stato di recente riconosciuto dal nuovo art. 111 della Costituzione,che
stabilisce che la legge assicura che «la persona accusata di un reato sia
assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel
processo» e non può dubitarsi che la norma trovi applicazione anche nel
procedimento, in tutti i casi, cioè, in cui sia in questione, direttamente o
indirettamente, la libertà personale. Con la nuova sentenza in commento, la Suprema
Corte,estende ora tali principi essenziali anche all’avviso di conclusione
delle indagini preliminari benché la norma dell’art.415-bis,come afferma la
stessa Corte, “non contenga espresse indicazioni in proposito” Per invidivudra euna chiave di lettura appare
necessario,quindi,fare riferimento alle disposizioni contenute negli artt.109 e
143 del Codice di Rito in cui, sebbene l’art.109 preveda al comma 1, l’obbligo
di utilizzare a lingua italiana negli atti del procedimento,l’art.143,sempre al
primo comma, garantisce all’imputato alloglotta l’assistenza gratuita di un
interprete al fine di comprendere l’accusa contro di lui formulata e seguire il
compimento degli atti a cui partecipa. Da tale ultima disposizione si comprende - secondo
la Corte- come il Codice di Rito non attribuisca rilevanza alla cittadinanza
straniera dell’imputato ma al fatto che lo stesso non conosca la lingua
italiana e da questo scaturisca il diritto alla traduzione degli atti
processuali. Inoltre,secondo la Suprema Corte,benché l’art.143
Cpp sembrerebbe limitare l’ambito di assistenza dell’interprete agli “atti
orali” che vedono la partecipazione dell’imputato escludendo implicitamente un
obbligo di traduzione di quelli formati dal giudice o dal pubblico ministero
anche se vengano allo stesso comunicati,la norma vada interpretata in senso
favorevole all’imputato sino a ricomprendere anche gli atti scritti allo stesso
notficati, tra cui l’avviso ex art.415-bis.. Tale principio scaturirebbe,altresì,dalla lettura
dell’art.109,comma 2 e dell’art.169 Cpp,che concer- ne il contenuto dell’invito
spedito all’imputato straniero residente o dimorante all’estero,come pure
obblighi espressi di traduzione degli atti procedimentali si rinvengano anche
nella normativa internazionale, come,ad es.,nell’art. XII dell’accordo
integrativo in materia penale del 20/4/1959, stipulato tra l’Italia e la
Svizzera il 10/9/1998 che prevede l’obbligo della traduzione degli atti
notificati a persone residenti nei territori dei due Stati. Anche la Suprema Corte ritiene la chiave
interpretativa delle norme innanzi richiamate vada individuata nella decisione
della Corte Cost. n.10/1993,che ha sancito in maniera palmare il diritto
dell’imputato straniero di farsi assistere gratuitamente da un interprete e di
ottenere la traduzione,in tutti i suoi elementi,dell’avviso relativo alla
facoltà di richiedere il giudizio abbreviato ,del decreto di giudizio immediato
e del decreto di citazione diretta a giudizio a pena di nullità,come stabilito
in varie sentenze (Cass. Pen.Sez. IV, sentenza 5 Maggio 2004, Obwo). In conseguenza,la norma dell’art.143 del Codice di
Rito, così come interpretata dalla Corte Costitu zionale,sarebbe destinata ad
assicurare una garanzia essenziale al godimento dei diritti fonda mentali di
difesa e conterrebbe dunque una clausola generale,di ampia
applicazione,”destinata ad espandersi ed a specificarsi” di fronte al verificarsi
delle varie esigenze concrete che lo richieda- no,quale che sia il tipo di atto
a cui l’imputato debba partecipare ovvero il genere di ausilio di cui lo stesso
necessiti. Benché in altre sentenze sia stata negata la
configurabilità di un obbligo indiscriminato di traduzio ne degli atti, al di
fuori delle ipotesi espressamente previste dal Codice di rito (v. Cass.
sentenza 10 Agosto 2000, cit.), la Corte, aderendo alla impostazione della
Corte Costituzionale,ritiene di poter affermare che l’obbligo di traduzione
debba ricomprendere anche l’avviso di conclusione delle indagini preliminari
posto che “l’atto è destinato ad informare l’indagato delle facoltà difensive
riservategli dalla legge nella fase della chiusura delle indagini
preliminari,il cui esercizio,per di più,è vincolato all’osservanza di un
termine perentorio”(gg.20 dalla notifica-ndr). In definitiva,secondo la Corte,all’avviso di
conclusione delle indagini vanno collegati quei poteri partecipativi
dell’imputato la cui possibilità di esercizio assume un ruolo scriminante fra
atti a traduzione necessaria ed atti residui. Secondo la decisione in commento, anche le stesse
Sezioni Unite,in una recente decisione (Cass.S.U. sentenza 24 Settembre 2003,
Zalagaitis), avrebbero condiviso tale impostazione,sostenendo come l’art.143
Cpp trovi applicazione in tutte le ipotesi in cui l’indagato,ove non possa
giovarsi dell’ausilio di un interprete, sarebbe pregiudicato nel suo diritto di
partecipare effettivamente allo svolgimento del procedimento. In conseguenza,l’omessa traduzione dell’avviso di
conclusione delle indagini determinerebbe la nullità di ordine generale ex
art.178 lett.c) Cpp,a regime intermedio,dello stesso provvedimento, nullità che
si riverberebbe, inevitabilmente, anche sulla conseguente richiesta di rinvio a
giudizio da cui è ontologicamente preceduto. Nondimeno,la Corte ritiene nella decisione che tale
nullità potrebbe essere sanata,a norma dello art.183 ,comma 1,lettera a) Cpp in
caso di acquiescenza,espressa o tacita,prestata dall’imputato, specie a seguito
della presentazione della richiesta di giudizio abbreviato. La Corte giudicante ritiene,infatti,che la
richiesta di giudizio abbreviato costituisca accettazione de gli effetti
dell’atto a contenuto probatorio inficiato da nullità a regime intermedio o
relativa ed abbia pertanto, efficacia sanante,in conformità di quanto statuito
dalla stessa in precedenti decisioni (v.Cass. sentenza 8 Gennaio
2002,Marchegiani Cass.24 Febbraio 1998,Greco). Va, ancora sottolineato,che non è,tuttavia,sufficiente
la traduzione dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari laddove
l’imputato straniero risieda all’estero posto che tale avviso deve contenere,
in conformità di quanto stabilito dall’art.169 Cpp,oltre alla indicazione della
autorità che procede,il titolo del reato e la data e il luogo in cui è stato
commesso,l`invito a dichiarare o eleg- gere domicilio nel territorio dello
Stato oltre all’espresso avvertimento che se nel termine di trenta giorni dalla
ricezione della raccomandata non viene effettuata la dichiarazione o l`elezione
di domicilio ovvero se la stessa è insufficiente o risulta inidonea, tutte le
notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore. E’ quanto ha,acutamente,osservato il G.U. del
Tribunale di Brindisi in relazione alla eccepita nullità da parte del difensore
del decreto di citazione a giudizio emesso nei confronti di un imputato stra-
niero residente all’estero e che è stata accolta dal valente magistrato che ha
dichiarato la nullità della vocatio in jus sul presupposto che il PM aveva
notificato all’imputato unicamente un avviso della conclusione delle indagini
preliminari tradotto ma privo dei contenuti voluti dall’art.169 del Codice di
Rito (v.Ordinanza Trib.Brindisi G.U. De Angelis del 6/4/2006 ,proc. pen.T.A.,
inedita). La necessità della traduzione degli avvisi
notificati all’imputato straniero è sata pure oggetto di una recente decisione
della Corte delle Leggi,emessa in relazione alla mancata previsione
dell’interpello dell’imputato, e dalla quale si evince chiaramente come tale
obbligo sia implicitamen- te riaffermato nella motivazione “poiché l’ordinanza
di remissione non riferisce se vi siano stati altri atti del processo e se
l’imputato abbia eventualmente fruito dell’assistenza di un interprete (art.
143 Cpp)né le ragioni ostative per il giudice a quo all’interpello
dell’imputato o all’accertamento, con altri mezzi, se questi conoscesse o meno
la lingua italiana “ (v.Corte Cost., Ordinanza n.121 del 23 Maggio 2005). Anche quest’ultima decisione,come quella in
commento introduce un elemento di novità in relazio ne ad un più esteso
riconoscimento di un effettivo diritto di difesa dell’imputato straniero posto
di fronte alla formulazione della accusa,contenuta nell’avviso di conclusione
delle indagini preliminari, dalla quale intenda discolparsi attraverso
l’esercizio delle facoltà difensive cui lo stesso abbia diritto. Si tratta di un notevole passo in avanti compiuto
dalla Suprema Corte nella interpretazione della,invero carente,normativa sul tema
contenuta nel Codice di Rito come pure nella auspicabile direzione della
affermazione del principio dell’obbligo della traduzione di tutti gli atti
processuali a carico del cittadino alloglotta connaturato con il considerevole
aumento dei procedimenti penali a carico di imputati e detenuti stranieri nel
nostro Paese,da sempre culla della civiltà e del diritto.
(Altalex, 17 maggio 2006. Nota di Mario Pavone)
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE IV PENALE Sentenza (ud. 24-11-2005) 03 marzo 2006, n.
7664
1. Con sentenza in data 9 novembre 2001, il Giudice
per le indagini preliminari del Tribunale di PARMA dichiarava, in giudizio
abbreviato, F.F. e E.P.A. colpevoli del reato di illegale detenzione di 11,558
chilogrammi di cocaina e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche,
ritenute le stesse equivalenti alla contestata circostanza aggravante
dell’ingente quantità, applicata la diminuente prevista per il rito, li
condannava alle pene di anni undici di reclusione e di lire 200 milioni di
multa; ordinava, altresì, la confisca della somma di denaro sequestrata a F.F.
perchè rinvenuta all’interno della sua autovettura. 1.1 Avuto riguardo agli specifici punti di gravame
formulati nei ricorsi presentati, vanno riepilogate alcune fasi del fatto e
della vicenda processuale, riportate nel testo della sentenza di primo grado,
richiamata e ampiamente condivisa, come più avanti si dirà (v. infra 2), da
quella di appello. Il 26 luglio 2000 la Polizia di Stato aveva
proceduto all’arresto di F.F., E.P.A. e S. S.. S. si trovava alla guida di una VW Golf; al suo
fianco c’era E.P.; F. li seguiva alla guida di una NISSAN Micra. Gli operanti erano intervenuti nel momento in cui
la VW Golf era entrata nel cortile dello stabile ove aveva sede la cooperativa
"La Buia" (in (OMISSIS)). All’interno della VW Golf erano stati rinvenuti
dodici pani rettangolari contenenti cocaina, sei dei quali nascosti nella ruota
di scorta e gli altri sei occultati "nello spessore delle due portiere
posteriori". I tre erano stati sottoposti a perquisizioni
personali; E. P. era stato trovato in possesso di banconote di diverse valute,
F. della somma contante di L. 5.300.000. Accertato che la VW Golf era intestata al cittadino
spagnolo V.P.E. e che questi alloggiava in quei giorni all’albergo (OMISSIS) di
(OMISSIS), gli agenti si erano posti alla ricerca dell’uomo. Lo avevano rintracciato (mentre si trovava in
compagnia del colombiano C.R.W. e della venezuelana G.A. C.C.), in piazza
(OMISSIS), nelle prime ore del (OMISSIS) e sottoposto a fermo. Soltanto il
giorno successivo la NISSAN Micra (che nell’immediatezza del fatto era stata
solo sommariamente ispezionata) era stata sottoposta ad accurata perquisizione. In nascondigli ricavati all’interno dei passaruota
posteriori, gli agenti della DIGOS avevano rinvenuto la somma contante di L.
299.500.000 (oltre ad un esiguo quantitativo di cocaina). 1.2 Il fermato e gli arrestati erano stati
interrogati nell’udienza di convalida. V. aveva dichiarato di essere stato incaricato di
trasportare la cocaina da MADRID a PARMA, dove era giunto la notte del
(OMISSIS); poco dopo il suo arrivo, era stato chiamato da un certo A. al quale,
seguendo le istruzioni ricevute prima della partenza, aveva consegnato le
chiavi della Golf. E.P. aveva negato ogni addebito, affermando che, al
momento del suo arresto, non si trovava a bordo della Golf; era, tuttavia, in
possesso delle chiavi della stessa perchè le aveva trovate "per caso in
terra". F. si era dichiarato, a sua volta, del tutto
estraneo ai fatti. Aveva affermato di essere partito da PALERMO la
sera del 25 luglio allo scopo di avere contatti di lavoro e che la somma di
denaro contante sequestratagli doveva servirgli per acquistare la
partecipazione in una società che non intendeva, però, nominare "per non
creare ulteriori problemi". S. aveva spiegato che dal maggio 2000 svolgeva
servizio civile presso la cooperativa "La Buia". Lì lavorava anche un detenuto in semilibertà, P.S.,
del quale era diventato amico. Il 25 luglio, P. gli aveva chiesto di reperire un
garage dove poter ricoverare l’autovettura di certi suoi amici che sarebbero
giunti dalla SPAGNA. Nel pomeriggio dello stesso giorno, aveva personalmente
portato la Golf presso il garage di un suo amico ( GA.Mi.). Nel primo pomeriggio del giorno successivo, P. lo
aveva chiamato, chiedendogli di andare a prendere la Golf perchè i suoi amici
dovevano ripartire. Intorno alle ore 16,30 si era recato
all’appuntamento con il P., che in quel momento si trovava in compagnia di E.
P., di F. e di un’altra persona che non parlava italiano (il V.). Insieme a E.P. e a F., con la NISSAN Micra condotta
da quest’ultimo, erano andati a ritirare la Golf, dopo essersi fermati
brevemente presso un albergo per recuperare le chiavi dell’autovettura. Ritirata la Golf, si era posto lui alla guida
perchè E.P. non aveva la patente. Secondo le istruzioni ricevute dal P., si era
portato presso la sede della cooperativa. Interrogato dal Pubblico Ministero in data 3 agosto
2000, S. aveva fornito ulteriori particolari della vicenda. Aveva spiegato che allorquando si era recato, la
prima volta, a ritirare l’autovettura, con il P. c’erano tre
"spagnoli", due uomini ( V. e C.) ed una donna (la G.), nonchè un
italiano di circa 45 anni che parlava con inflessione meridionale. Non era la prima volta che vedeva quell’uomo
perchè, in almeno un paio di occasioni, questi aveva fatto visita al P. presso
la sede della cooperativa. L’uomo aveva accompagnato lui ed il V. presso
un’autorimessa dove avevano prelevato la Golf. Lui e V. l’avevano, quindi, portata presso il
garage del GA.. S. aveva riferito, poi, che quando, il giorno
successivo, P. lo aveva incaricato di ritirare la Golf dal garage del GA.,
aveva potuto osservare il F. mentre prendeva sotto braccio il P. e gli parlava
con la "bocca accostata all’orecchio". S. aveva aggiunto che, dopo avere ritirato la Golf,
lui stesso aveva invitato il F. a seguirlo con la NISSAN Micra. Il (OMISSIS), S., in sede di individuazione
fotografica, aveva riconosciuto tutte le persone coinvolte nella vicenda. Il (OMISSIS), S. aveva chiesto di essere sentito
dal Pubblico Ministero; nell’occasione, si era ricordato che l’amico italiano
del P., che lo aveva accompagnato a recuperare la Golf il giorno precedente
l’arresto, si chiamava D.. Sulla base delle indicazioni fornite dallo S., si
era giunti all’identificazione di L.D.. Questi, interrogato il 2 marzo 2001, aveva rivelato
al Giudice per le indagini preliminari che da anni collaborava con la Polizia
di Stato, segnatamente con l’Ispettore CE.. Pertanto, quando P. gli aveva raccontato che stava
organizzando l’importazione dalla SPAGNA di cocaina che avrebbe venduto
"ad un imprecisato siciliano", aveva confidato la circostanza al CE.. L’Ispettore lo aveva allora invitato a collaborare
in cambio di una ricompensa in denaro. Sulla base delle istruzioni ricevute dal CE., L.
aveva convinto il P. a fare arrivare la droga a PARMA, anzichè a MILANO. Una sera,
uno sconosciuto straniero lo aveva chiamato sul cellulare, dicendogli che la
cocaina era arrivata a PARMA e che bisognava mettere al sicuro l’autovettura
nella quale era stata occultata. Su suggerimento dell’Ispettore CE., aveva
ricoverato il veicolo nel box - autorimessa di suo fratello. Si era, quindi, recato presso l’albergo di PARMA
indicatogli dall’ignoto interlocutore. In luogo aveva conosciuto il V. e con lui si era
recato presso il box del fratello. Avevano lasciato lì la Golf e V. si era tenuto le
chiavi. Il giorno dopo si era incontrato con l’Ispettore
CE. e con il sovrintendente CI., per pregarli di non intervenire immediatamente
al fine di non suscitare nei trafficanti sospetti sul suo conto. Aveva, poi, raggiunto il P. e gli aveva chiesto di
spostare altrove l’autovettura per evitare che suo fratello potesse scoprire
qualcosa. P. gli aveva riferito che aveva un amico disposto a
custodirgli il veicolo. Pertanto, nel pomeriggio dello stesso giorno,
insieme a V. e a S., era tornato presso il garage del fratello ed aveva
consegnato il veicolo ai due, dopo avere preavvertito CE., che aveva così avuto
il tempo necessario per predisporre, insieme al CI., l’ennesimo servizio di
osservazione. Aveva così avuto modo di vedere che quando S. e V.
erano ripartiti con la Golf, diretti al nuovo garage, CE. li aveva seguiti.
Interrogato dal Pubblico Ministero in data 6 marzo 2001, L. aveva confermato le
precedenti dichiarazioni rese, offrendo altri particolari della vicenda. 1.3 Nel prosieguo delle indagini il Pubblico
Ministero era pervenuto ad accertare che il sequestro della cocaina non era
scaturito, come appariva dai primi atti di polizia giudiziaria, dalle
intuizioni del CE., ma era stato il frutto di una laboriosa operazione,
originata dalle confidenze del L.. CI. e CE., successivamente sentiti, quest’ultimo
quale indiziato di reato, avevano confermavate la veridicità del racconto di
L.. Il sovrintendente CI. aveva riferito in ordine a
tutti i servizi di osservazione eseguiti fino al momento degli arresti. S. ed E.P. erano stati bloccati nel cortile dello
stabile in cui aveva sede la cooperativa; F., che li aveva seguiti, e si era
fermato all’esterno, era stato arrestato dagli agenti CA. e T.. Dal L. avevano, poi, appreso che all’interno della
NISSAN Micra era stata nascosta una somma di denaro e ciò spiegava perchè,
soltanto il giorno successivo all’arresto, avevano proceduto ad un’accurata
perquisizione del veicolo. L’ispettore CE., interrogato in qualità di
indiziato di reato, aveva reso analoghe dichiarazioni, spiegando che negli atti
di polizia giudiziaria, da lui redatti, non aveva ritenuto opportuno di
menzionare il nome dell’informatore e, di riflesso, aveva dovuto anche tacere,
almeno inizialmente, il nome del P.. 2. Sull’appello degli imputati, la Corte di Appello
di BOLOGNA, con sentenza in data 22 ottobre 2002, confermava la sentenza
pronunciata nei confronti di E.P. e riduceva ad anni otto di reclusione ed Euro
51.650,00 di multa le pene inflitte al F.. 2.1 Con riguardo alla posizione di E.P., la Corte,
richiamandosi alla "puntuale e minuziosa trattazione dei fatti"
contenuta nella sentenza di primo grado, si limitava a ribadire che l’imputato
era, nei momenti che avevano preceduto gli arresti, a bordo della Golf,
condotta da S., all’interno della quale era stata stivata la cocaina ed a
ricordare le dichiarazioni rese da S. e dal Sovrintendente della Polizia di
Stato CI. (v. supra 1.2 e 1.3); valutava, poi, come "incredibile e
comunque sfornita di prova" la versione dei fatti prospettata dall’imputato. La Corte Territoriale disattendeva, poi, la
riproposta eccezione di nullità dell’avviso di conclusione delle indagini
preliminari per omessa traduzione nella lingua conosciuta dall’imputato,
affermando che "nessuna pronuncia di legittimità ne prevede la nullità in
caso di mancata traduzione". Il giudice dell’appello concludeva affermando che
la pena irrogata all’ E.P. era da ritenersi congrua e che corretto era da
considerarsi il giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche. Rilevava, sul punto, che l’imputato aveva agito
quale emissario di un’organizzazione di narcotrafficanti colombiani, con un
incarico di responsabilità, quello di seguire il V. e di occuparsi del momento
più importante dell’operazione, lo scambio della droga con il denaro.
Stigmatizzava, altresì, la condotta processuale dell’imputato "improntata
a negazione dell’evidenza". 2.2 Con riguardo al F., la Corte di merito
affermava che la sua responsabilità era provata "in modo certo". Dagli atti di polizia giudiziaria e dalle
dichiarazioni di S. risultava, invero, che, il giorno dell’arresto, F., con la
sua NISSAN Micra, aveva accompagnato E. P. e S. a ritirare la VW Golf (nella
quale era stivata la droga) presso il garage nel quale era custodita; F. aveva poi seguito la Golf fino alla sede della
cooperativa. I movimenti dei tre erano stati seguiti, fino al
momento dell’arresto, dal sovrintendente CI.. All’interno della Micra era stata rinvenuta, oltre
ad una modica quantità di cocaina, la somma di circa trecento milioni di lire
in contanti "nascosta in vari alloggiamenti ricavati sulla vettura" (
F. aveva con sè altri cinque milioni di lire in contanti). Come affermato dal primo giudice, era ragionevole
ritenere che quel denaro fosse destinato al pagamento della cocaina. La tesi difensiva del F. (che quel denaro fosse
destinato a tale GA. di GRAVELLONA TOCE per l’acquisto delle quote di una
società) appariva destituita di ogni fondamento; F. non aveva, per sua stessa
ammissione, alcun appuntamento con il GA.; ciò nonostante, era partito dalla
SICILIA per recarsi a GRAVELLONA TOCE ed incontrarlo. L’imputato aveva
affermato, inoltre, di essersi fermato a PARMA per riposarsi e per mangiare, ma
non ricordava nè il nome nè l’ubicazione del ristorante; solo casualmente - a
suo dire - si era trovato sulla stessa strada della GOLF. Falsa era, infine -
secondo F. - l’affermazione degli operanti in ordine al fatto che il denaro
fosse stato nascosto in più punti del veicolo; esso, a dire dell’imputato, era,
invece, contenuto in una borsa. Riteneva la Corte che particolarmente
significativa, ed idonea a dimostrare la veridicità di quanto affermato dagli
operanti, fosse proprio la circostanza che il denaro non era stato
immediatamente rinvenuto (ciò che sarebbe accaduto se fosse stato effettivamente
custodito in una borsa); solo il giornodopo, infatti, su indicazione del L.,
che conosceva il ruolo del F. nella vicenda, gli operanti avevano meglio
controllato il veicolo e trovato il denaro (tra l’altro, dopo avere smontato
alcune parti della vettura). In ordine alle perplessità manifestate nell’atto di
appello sulla veridicità degli atti di polizia giudiziaria con riguardo
all’effettiva ora degli avvenuti arresti, la Corte Territoriale osservava che,
comunque, una diversa collocazione degli orari, quand’anche fosse stata
dimostrata, non avrebbe potuto giovare alla difesa del F., a meno di non voler
sostenere una generale, nella specie peraltro insussistente, inattendibilità
dell’operato della polizia. Occorreva, altresì, tenere in considerazione le
dichiarazioni rese dal sovrintendente CI., che aveva avuto modo di osservare
gli spostamenti dei protagonisti, F. compreso. Del tutto immotivate erano, poi, secondo la Corte,
le valutazioni in ordine all’inattendibilità delle dichiarazioni di S.. Per quanto
si trattasse di persona fragile, suggestionabile e depressa, non vi era prova
dell’esistenza di patologie che giustificassero una distorta percezione della
realtà da parte del medesimo. Rilevava la Corte che la difesa dell’imputato
aveva, altresì, dedotto, con l’atto di appello, che la condotta al medesimo
addebitata non integrava il delitto contestato. In particolare, poichè non era avvenuto lo scambio
droga - denaro, non poteva ritenersi consumato l’acquisto della droga; nella
condotta dell’imputato poteva, al più, ravvisarsi l’ipotesi tentata. Replicava la Corte che la circostanza che F. si
fosse recato da PALERMO a PARMA portando con sè il denaro dimostrava che
l’accordo era già stato concluso e che si trattava soltanto di dare esecuzione
al medesimo. Tra le condotte incriminate dal D.P.R. 9 ottobre
1990, n. 309, articolo 73 - osservava la Corte - rientra anche quella di
"commercio", che "si deve ritenere integrata anche da una
trattativa per l’acquisto seguita da accordo anche se non dalla consegna materiale
della droga". In ogni caso, F., essendosi recato con S. ed E. P.
a ritirare la Golf all’interno della quale era occultata la cocaina, doveva
ritenersi concorrente nell’illegale detenzione della medesima. La Corte Territoriale, come si è detto, riduceva,
tuttavia, la pena a F., ritenendo che il denaro al medesimo sequestrato sarebbe
servito ad acquistare solo parte (quantificata in circa 6 kg.) del quantitativo
di cocaina sequestrato. Non poteva, pertanto, applicarsi al F., in termini
quantitativi, lo stesso trattamento sanzionatorio riservato ai colombiani
venditori dello stupefacente. 3. Propongono ricorso per Cassazione i difensori
degli imputati, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata. 3.1 Nell’interesse di E.P. sono formulati tre motivi. 3.1.1 Con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai
sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), l’inosservanza di norme
processuali stabilite a pena di nullità. Il ricorrente rileva che a E.P. era stato
notificato un primo avviso di conclusione delle indagini preliminari non
tradotto nella lingua spagnola da lui conosciuta. L’avviso non era stato, peraltro, seguito dalla
presentazione della richiesta di rinvio a giudizio. Le indagini preliminari erano, invero, proseguite. E.P. era stato sottoposto ad interrogatorio in data
3 maggio 2001. Il Pubblico Ministero aveva, pertanto, emesso un
secondo avviso di conclusione delle indagini preliminari in data 31 maggio
2001. Anche questo avviso, però, non era stato tradotto, con conseguente
lesione del suo diritto di difesa. 3.1.2 Con il secondo motivo il ricorrente sostiene,
ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), la mancanza della
motivazione in ordine alla circostanza che E.P. fosse consapevole che era
cocaina "la merce di scambio della somma di denaro che era stato
incaricato di ricevere, controllare e contare". 3.1.3 Con il terzo motivo
il ricorrente denuncia, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e),
la mancanza della motivazione in relazione al diniego della prevalenza delle
circostanze attenuanti generiche ed in relazione alla determinazione della
pena. Anche sul punto la motivazione della sentenza
sarebbe "sbrigativa" e non terrebbe conto dell’incensuratezza
dell’imputato, nonchè del minimo contributo causale che la sua condotta aveva
apportato alla cessione della droga sequestrata. Lamenta, infine, il ricorrente l’eccessività della
pena irrogata, lasciando intendere che essa sarebbe stata volutamente
commisurata nel "massimo" perchè poi avrebbe dovuto essere ridotta di
un terzo per la scelta del rito. 3.2 Nell’interesse dell’imputato F. vengono dedotti
cinque motivi di ricorso con due diversi atti, seguiti da note d’udienza
riassuntive delle censure prospettate. 3.2.1 Con il primo motivo del primo ricorso e con
il primo motivo del secondo ricorso i ricorrenti denunciano la mera apparenza e
l’illogicità della motivazione in ordine alla "ritenuta sussistenza di
prove certe della responsabilità del F.", la nullità della perquisizione
eseguita in data 27 luglio 2000 sull’autovettura condotta dal F.,
l’inutilizzabilità del verbale di sequestro conseguitone e l’inutilizzabilità
nei confronti del F. delle dichiarazioni rese nell’ambito di altro
procedimento, in incidente probatorio, da L.D. e successivamente acquisite. Sostengono i ricorrenti che l’affermazione di
responsabilità dell’imputato sarebbe sorretta da argomentazioni generiche e
difficilmente comprensibili. I Giudici di appello avrebbero, in particolare,
omesso di considerare: - che appariva irragionevole la versione dei fatti
indicata nei verbali di polizia e nelle dichiarazioni di S.; quanto riferito dal F. in ordine alla bustina di
cocaina rinvenuta all’interno della NISSAN Micra ed alla allocazione del
denaro; - la circostanza che la perquisizione del veicolo
era stata effettuata senza che l’arrestato fosse stato avvisato del diritto di
farsi assistere dal proprio difensore; - l’assoluta singolarità della "mancata
immediata accurata perquisizione" del veicolo; - che dai tabulati telefonici prodotti dalla difesa
risultava l’esistenza di contatti telefonici tra il F. e G. N., titolare della
s.r.l. LUXOR, società all’acquisto delle cui quote di partecipazione era
destinato il denaro trovato in suo possesso; - che le dichiarazioni rese dal L. in incidente
probatorio non avrebbero potuto essere utilizzate nei confronti di F. perchè il
suo difensore non aveva partecipato all’assunzione; - che L., nell’interrogatorio del 2 marzo 2001,
aveva ammesso di non avere mai conosciuto il compratore e di avere
"letto" in seguito il nome del F.; - che era inconfutabilmente emersa la falsità degli
atti di polizia giudiziaria in relazione all’orario di arresto (sul punto la
Corte aveva omesso di precisare per quali ragioni l’inattendibilità
dell’operato della polizia sarebbe stata "solo parziale"); che dalle dichiarazioni del CI. si desumeva la
assoluta incertezza sull’identità "tra l’autovettura che la GOLF aveva
seguito e la NISSAN MICRA condotta dal F."; la versione di E.P., reputata, ingiustificatamente,
incredibile; che "singolari" erano state le modalità
di svolgimento dell’interrogatorio cui S. era stato sottoposto il 3 agosto 2000
(perchè condotto dall’Ispettore CE. il quale, peraltro, risultava presente
quale "assistente per la redazione del verbale") e del riconoscimento
del F. da parte del medesimo S. avvenuto all’udienza dell’11 ottobre 2001.
3.2.2 Con il primo motivo del primo ricorso e con il secondo motivo del secondo
ricorso i ricorrenti denunciano l’insussistenza degli elementi costitutivi del
reato di detenzione e di acquisto di sostanze stupefacenti, osservando: - che il possesso della somma di denaro non
dimostrava l’intervenuto accordo, trattandosi, tra l’altro, di somma esigua
rispetto al quantitativo di cocaina sequestrata; - che la condotta di "acquisto" si
perfeziona con la traditio dello stupefacente e con la corresponsione del
prezzo; che quand’anche tra i venditori ed il F. fosse
stato effettivamente raggiunto l’accordo, esso avrebbe integrato, al più, il
delitto tentato di "acquisto"; - che, inoltre, in caso di raggiunto accordo ma di
mancanza della prova della consegna della droga, non si configura il delitto
tentato di "cessione", ma il delitto consumato di "offerta in
vendita"; - che, nella specie, trattandosi di "offerta
in vendita", nessun reato era ipotizzabile a carico del F.; - che, inoltre, nessuna delle condotte addebitate
all’imputato poteva essere qualificata come "detenzione"; - che, invero, F. non aveva, al momento
dell’arresto, la materiale disponibilità della cocaina; - che l’asserita partecipazione all’ultimo
trasporto della cocaina, che ne presupponeva la detenzione, era del tutto
"immotivata", considerato, tra l’altro, che dagli atti doveva
escludersi che il trasporto fosse finalizzato allo scambio; - che, in ogni caso, l’asserita partecipazione del
F. al trasporto era, per le sue stesse modalità, inidonea a "rafforzare la
determinazione a delinquere dei correi". Rilevano, poi, i ricorrenti che dette
considerazioni erano state sviluppate nell’atto di appello, ma la Corte aveva
omesso di prenderle in considerazione, tra l’altro rifacendosi ad una condotta
di "commercio" mai contestata al F.. 3.2.3 Con il secondo motivo del primo ricorso e con
il terzo motivo del secondo ricorso, i ricorrenti lamentano l’eccessiva entità
della pena comminata, l’erronea comparazione delle opposte circostanze e
l’erronea applicazione della circostanza aggravante di cui al D.P.R. 9 ottobre
1990, n. 309, articolo 80, comma 2. La pena era eccessiva rispetto al concreto
dispiegarsi della condotta addebitata al F. ed al suo stato di incensuratezza. Detti elementi avrebbero, comunque, dovuto
quantomeno supportare un giudizio di prevalenza delle riconosciute circostanze
attenuanti generiche. La circostanza aggravante,
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