Conflitto di attribuzioni tra
poteri dello Stato sorto a seguito della nota del Ministro della giustizia
24/11/2004. Grazia - Potere di
concessione -Determinazione del Presidente della Repubblica di concedere la
grazia della pena detentiva residua ad Ovidio Bompressi -Rifiuto opposto dal
Ministro della giustizia di dare corso a tale determinazione predisponendo e
controfirmando il relativo decreto di concessione. (Corte Costituzionale, 18 maggio
2006, n. 200) SENTENZA
N. 200 REPUBBLICA ITALIANA composta
dai signori: -
Annibale MARINI Presidente ha
pronunciato la seguente
1.— Con ricorso
del 10 giugno 2005 il Presidente della Repubblica, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso conflitto di attribuzione nei
confronti del Ministro della giustizia «in relazione al rifiuto, da questi
opposto, di dare corso alla determinazione, da parte del Presidente della
Repubblica, di concedere la grazia ad Ovidio Bompressi»; rifiuto risultante
dalla nota del 24 novembre 2004 inviata dal medesimo Ministro al Capo dello
Stato. 1.1.— Il
ricorrente – sul presupposto di aver manifestato al Guardasigilli, con nota
dell’8 novembre 2004 (emessa dopo aver ricevuto ed esaminato la documentazione
sull’istruttoria relativa all’istanza di grazia presentata dal Bompressi), la
propria determinazione di concedere il richiesto provvedimento di clemenza,
invitandolo pertanto a predisporre il relativo decreto di concessione della
grazia, per la successiva emanazione – si duole del fatto che il Ministro gli
abbia comunicato «di non poter aderire a questa richiesta» in quanto non
condivisibile «né sotto il profilo costituzionale né nel merito», atteso che –
a suo dire – «la Costituzione vigente pone in capo al Ministro della giustizia
la responsabilità di formulare la proposta di grazia». Il Presidente
della Repubblica assume, per contro, che il potere di grazia – riservato
«espressamente e in via esclusiva al Capo dello Stato dall’art. 87 della
Costituzione» – «verrebbe posto nel nulla dalla mancata formulazione della proposta
da parte dello stesso Ministro», proposta, oltretutto, che né la Costituzione
né la legge richiedono ai fini della concessione del beneficio de quo. Ritiene,
pertanto, il ricorrente che qualora egli pervenga, come nel caso in esame,
«alla determinazione di concedere la grazia ad un condannato, tanto la
predisposizione del relativo decreto, quanto la successiva controfirma
costituiscono, per il Ministro della giustizia, “atti dovuti”». Su tali basi,
pertanto, il ricorrente ha promosso conflitto – ai sensi degli artt. 37 e
seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87 – nei confronti del Ministro
Guardasigilli, «per violazione degli articoli 87 e 89 Cost.». 1.2.—
Indiscutibile – secondo il ricorrente – sarebbe l’ammissibilità del conflitto
sotto il profilo soggettivo, atteso che la qualificazione del Presidente della
Repubblica come potere dello Stato «è del tutto pacifica», come del resto la
legittimazione del Ministro della giustizia «ad essere parte in un conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato», e ciò «in ragione del ruolo
istituzionale» che la Costituzione riserva al Guardasigilli (sono richiamate,
sul punto, le pronunce di questa Corte n. 380 del 2003, n. 216 del 1995, n. 379
del 1992). Ciò premesso, il ricorrente assume – sotto il profilo oggettivo –
l’esistenza di una lesione delle attribuzioni che la Costituzione conferisce al
Capo dello Stato «nell’esercizio del potere di concessione della grazia». 1.3.— Nel
merito, infatti, viene dedotta – come sopra precisato – la violazione degli
articoli 87 e 89 della Costituzione, atteso che il rifiuto del Ministro «di
formulare la proposta di grazia in favore di Ovidio Bompressi, ritenendola
presupposto indispensabile del relativo decreto di concessione», si sostanzia
de facto nella rivendicazione del «potere di interdire con la sua decisione (o
addirittura con la sua inerzia) l’esercizio del potere presidenziale di
concessione della grazia», e quindi nell’attribuzione «di un sostanziale potere
di codecisione che è, viceversa, assente nel vigente ordinamento
costituzionale». Diversi
argomenti, difatti, «di ordine logico-giuridico, oltre che sistematico»,
concorrono a confermare la titolarità esclusiva di tale potere in capo al
Presidente della Repubblica, secondo quanto risulta già dalla lettera dell’art.
87 Cost. 1.3.1.—
Rilevante in tal senso – secondo il ricorrente – è, in primis, la ratio
dell’istituto della grazia, è cioè la sua finalità «umanitaria ed equitativa»
(riconosciuta anche da questa Corte nella sentenza n. 134 del 1976 e
nell’ordinanza n. 388 del 1987) che è quella di «attenuare l’applicazione della
legge penale in tutte quelle ipotesi nelle quali essa viene a confliggere con
il più alto sentimento della giustizia sostanziale». Se è vero,
difatti, che la grazia mira a soddisfare un’esigenza «correttivo-equitativa»
dei rigori della legge (oppure a fungere – come pure emerge dalla relazione
governativa al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988, a
commento dell’art. 672 – da «strumento di risocializzazione» del condannato,
«alla luce dei risultati del trattamento rieducativo» al quale egli sia stato
sottoposto), appare allora «naturale» – assume il ricorrente – tanto che la sua
concessione esuli del tutto «da valutazioni di natura politica», quanto che
«l’esercizio di un potere di tale elevata e delicata portata venga riservato in
via esclusiva al Capo dello Stato, quale organo rappresentante dell’unità della
Nazione», nonché «garante super partes della Costituzione», e dunque «unico
organo che offra la garanzia di un esercizio imparziale». In questo
quadro, dunque, il Ministro della giustizia «è soltanto il Ministro
“competente” che collabora con il Capo dello Stato nelle varie fasi del
procedimento, contribuendo alla formazione della volontà presidenziale
nell’ambito delle sue specifiche attribuzioni», destinate a sostanziarsi
esclusivamente in «contributi istruttori, valutativi ed esecutivi», fermo
restando che, proprio in ragione del «ruolo prevalentemente e essenzialmente
istruttorio» spettante al Guardasigilli, in mancanza di accordo con il medesimo
«devono comunque prevalere le istanze di cui è portatore il Presidente della
Repubblica quale titolare del potere di grazia». 1.3.2.— Il
riconoscimento dell’esistenza di «poteri di natura sostanziale» spettanti, in
materia di grazia, al Ministro della giustizia non potrebbe, d’altra parte,
fondarsi sul disposto dell’art. 89 Cost., secondo cui «nessun atto del
Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti,
che se ne assumono la responsabilità». Tale norma,
difatti, non legittima affatto – per un verso – la necessità che in subiecta
materia la determinazione presidenziale sia preceduta da una “proposta
ministeriale”, giacché – come chiarito in dottrina – il riferimento in essa
contenuto all’espressione “ministri proponenti”, «in luogo della più corretta
“ministri competenti”», sarebbe da imputare ad un «uso improprio della
locuzione» (ciò di cui si sarebbe mostrata consapevole – a dire del ricorrente
– anche questa Corte, la quale nell’ordinanza n. 388 del 1987, «parafrasando il
dettato dell’art. 89 della Costituzione in relazione al provvedimento di grazia
ha fatto riferimento al “Ministro competente” anziché al “Ministro
proponente”»). Priva di
fondamento costituzionale, pertanto, si presenterebbe la pretesa del
Guardasigilli di essere «titolare esclusivo del potere di proposta». Né, d’altra
parte, la conclusione relativa ad una “compartecipazione” del Ministro nella
decisione presidenziale relativa alla concessione del provvedimento di clemenza
potrebbe trarre argomento dalla necessità della controfirma del decreto di
grazia. Se è vero,
difatti, che in relazione agli atti formalmente presidenziali ma
sostanzialmente governativi la controfirma «ha il significato di attestare la
effettiva paternità dell’atto e la conseguente assunzione di responsabilità
politica» da parte del Ministro (giacché qui il Capo dello Stato «si limita ad
un mero controllo di legittimità, oltre che di provenienza» dell’atto), le
posizioni dei due organi costituzionali appaiono, invece, «invertite con
riguardo agli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali», tra i quali
rientra la concessione della grazia. Ricorrendo tale evenienza, invero, «la
controfirma ministeriale si presenta come atto dovuto, in quanto ha funzione,
per così dire, notarile», e cioè «di mera attestazione di provenienza dell’atto
da parte del Capo dello Stato, oltre che di controllo della sua regolarità
formale». 1.3.3.— Né, poi,
la necessità che la concessione della grazia consegua ad una “collaborazione”
tra Presidente della Repubblica e Ministro Guardasigilli potrebbe essere
giustificata in ragione dell’esistenza di una consuetudine costituzionale in
tal senso. Rileva in proposito
il ricorrente come, innanzitutto, una consuetudine siffatta abbia assunto nel
tempo «forme e modalità diverse», collegate all’evoluzione conosciuta dalle
norme del cosiddetto “ordinamento penitenziario”; di talché la progressiva
individuazione di «nuovi percorsi di risocializzazione dei condannati» (in
special modo attraverso «l’applicazione di misure alternative alla detenzione,
ad opera della magistratura»), nel restituire alla grazia la sua funzione
prettamente «equitativo-umanitaria», ha comportato che l’istituto «perdesse le
finalità di politica penitenziaria che l’avevano a volte in precedenza pervaso»
e che avevano giustificato l’affermarsi della descritta consuetudine di
“collaborazione” tra i menzionati organi dello Stato. Sempre sul piano
delle relazioni “consuetudinarie” intercorrenti, nella materia de qua, tra il
Capo dello Stato e il Ministro della giustizia, rileva il ricorrente come non
sia senza significato l’esaurimento di quella prassi seguita dal Ministro, nel
caso in cui ritenesse insussistenti i presupposti per la concessione del
provvedimento di clemenza, di «“archiviare” la relativa pratica, senza neppure
informare il Capo dello Stato». All’esito, infatti, dell’invio della nota del
15 ottobre 2003 – con la quale il Presidente della Repubblica ha chiesto «di
essere informato della conclusione di tutte le istruttorie relative ad istanze
di grazia, ai fini delle sue decisioni» (nota alla quale il Ministro «ha
immediatamente aderito», come da sua comunicazione del successivo 17 ottobre) –
deve ritenersi venuta meno quella prassi in passato invalsa che «finiva per
attribuire in qualche misura al Ministro della giustizia dei poteri di
decisione sostanziale in materia». 1.3.4.— La
«natura esclusivamente presidenziale del potere di concedere la grazia»
sarebbe, infine, desumibile – secondo il ricorrente – dalla stessa
giurisprudenza costituzionale. Si richiama,
difatti, da un lato, l’indirizzo espresso da questa Corte in ordine alla
«necessaria “giurisdizionalizzazione” della fase esecutiva delle sanzioni
penali», per sottolineare come la declaratoria di illegittimità costituzionale
«di numerose disposizioni che contemplavano competenze dell’esecutivo (e cioè
quindi del Ministro della giustizia) nella fase di esecuzione della pena» (sono
richiamate le sentenze n. 274 del 1990; n. 192 del 1976; n. 114 del 1979; n.
204 e n. 110 del 1974) rischierebbe di essere contraddetta dal riconoscimento
al Guardasigilli di «poteri decisionali veri e propri in ordine alla
concessione della grazia», giacché, pur trattandosi di istituto «connotato da
una ratio del tutto peculiare», esso «incide certamente sull’esecuzione della
pena». D’altro canto,
poi, si sottolinea come la tesi della «esclusiva pertinenza presidenziale del
potere di concedere la grazia» sia stata «implicitamente condivisa» da questa
Corte nella sentenza n. 274 del 1990. Difatti, con
tale pronuncia è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 589,
terzo comma, del codice di procedura penale del 1930, norma che attribuiva al
Ministro della giustizia (e non al Tribunale di sorveglianza) il potere di
disporre il differimento della esecuzione della pena nel caso previsto
dall’art. 147, primo comma, n. 1, del codice penale, quello, cioè, della
presentazione della domanda di grazia da parte del condannato. 1.4.— Ciò
premesso, il ricorrente evidenzia che nella materia de qua il Ministro della
giustizia «è sicuramente titolare dei poteri istruttori», con la conseguenza
che – in base al principio di leale collaborazione – il parere che esso esprime
al Presidente della Repubblica consente al più «di pervenire a un provvedimento
condiviso», fermo però restando che, «nel caso in cui tale condivisione non si
verificasse», è innegabile che «la volontà prevalente e quindi la decisione
finale non possono che essere quelle del titolare del potere costituzionale di
grazia e cioè il Presidente della Repubblica». 2.— Il presente
conflitto è stato dichiarato ammissibile da questa Corte con ordinanza n. 354
del 2005, con cui è stato disposto che, a cura del ricorrente, il ricorso e la
stessa ordinanza fossero notificati al Ministro della giustizia; notificazione
avvenuta il 29 novembre 2005.
Considerato
in diritto 1.— Il presente
conflitto è occasionato dal rifiuto opposto dal Ministro della giustizia di
«dare corso alla determinazione, da parte del Presidente della Repubblica, di
concedere la grazia ad Ovidio Bompressi», rifiuto risultante dalla nota del 24
novembre 2004 inviata dal medesimo Ministro al Capo dello Stato. 2.— Con
ordinanza n. 354 del 2005 questa Corte ha dichiarato, prima facie, ammissibile
il conflitto che ha dato origine al presente giudizio e, lasciando
impregiudicata ogni diversa successiva determinazione in ordine alla sua stessa
ammissibilità, ha disposto la notificazione del ricorso al Ministro Guardasigilli. 3.— Ciò
premesso, sul piano processuale, ferma la legittimazione del Presidente della
Repubblica a proporre il conflitto, deve essere confermata la legittimazione
passiva del solo Ministro della giustizia, il quale – competente, ratione
materiae, ad effettuare l’istruttoria sulla grazia, a predisporre il relativo
decreto di concessione, a controfirmarlo ed a curarne l’esecuzione – è il
legittimo contradditore. È dal Ministro, infatti, che proviene l’atto, la nota
datata 24 novembre 2004, con cui viene rivendicata una compartecipazione
sostanziale nella determinazione di concedere o negare l’atto di clemenza e
dunque, nello stesso tempo, viene implicitamente limitato l’ambito di autonomia
decisionale del Capo dello Stato. La legittimazione passiva del Ministro della
giustizia trova il suo fondamento direttamente nella previsione di cui all’art.
110 Cost., atteso che, delle attribuzioni contemplate da tale norma, la
giurisprudenza costituzionale ha costantemente escluso la necessità di «un’interpretazione
restrittiva» (sentenze n. 142 del 1973 e n. 168 del 1963). In tali attribuzioni
devono essere inclusi tutti i compiti spettanti al suddetto Ministro in forza
di precise disposizioni normative, purché essi siano in rapporto di
strumentalità rispetto alle funzioni «afferenti all’organizzazione e al
funzionamento dei servizi relativi alla giustizia», comprese dunque quelle
concernenti «l’organizzazione dei servizi relativi all’esecuzione delle pene e
delle misure detentive» (sentenza n. 383 del 1993), e così, per quel che qui
specificamente interessa, anche l’attività di istruttoria delle domande di
grazia e di esecuzione dei relativi provvedimenti secondo quanto previsto
dall’art. 681 del codice di procedura
penale. 4.— Così
determinata la legittimazione a stare in giudizio delle parti, in relazione
alla esatta individuazione del thema decidendum, deve preliminarmente
osservarsi come la questione all’esame di questa Corte concerna non già la
titolarità del potere di grazia, espressamente attribuita dalla Costituzione
(art. 87, penultimo comma) al Presidente della Repubblica, bensì le concrete
modalità del suo esercizio. Nel ricorso si assume, in particolare, che il ruolo
del Ministro si risolverebbe in una doverosa collaborazione con il Capo dello
Stato nelle varie fasi del procedimento. Il Ministro in tal modo sarebbe
chiamato a contribuire, nel segno di una leale collaborazione tra poteri, alla
formazione della volontà presidenziale mediante lo svolgimento di attività cui
dovrebbe essere attribuita valenza essenzialmente “istruttoria”. 5.— Ciò
precisato, il ricorso, nel merito, deve ritenersi fondato sulla base delle
considerazioni che seguono. 5.1.—
Prerogativa personale dei sovrani assoluti, la concessione della grazia ha
sostanzialmente mantenuto tale carattere anche dopo l’avvento della Monarchia
costituzionale, essendo quello di dispensare dalle pene il segno massimo del
potere, che attribuiva particolare autorità e prestigio alla figura del
Monarca. È, dunque, in
tale contesto storico – quanto all’esperienza italiana – che, dapprima,
nell’art. 5 del Proclama dell’8 febbraio 1848 (atto con il quale veniva
preannunciata da Carlo Alberto l’emanazione dello Statuto), e, successivamente,
nell’art. 8 dello Statuto stesso, venne riconosciuto al Re il potere di «far grazia
e commutare le pene». Prerogativa, evidentemente, concepita in stretta
connessione con i caratteri della «inviolabilità» e «sacralità» della persona
del Monarca. Non irrilevante, tuttavia, appare la circostanza che, mentre nel
primo dei citati testi normativi l’esercizio del potere de quo veniva ascritto
alla sfera del “giudiziario” (il predetto art. 5, difatti, recitava: «ogni
giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome. Egli può far grazia e
commutare le pene»), nel secondo, viceversa, si recideva tale legame. Alla
previsione, difatti, dell’art. 8 dello Statuto («il Re può far grazia, e
commutare le pene») corrispondeva quella autonoma dell’art. 68 (secondo cui «la
Giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch’Egli istituisce»),
e ciò quasi a sottolineare che l’adozione del provvedimento di clemenza si
poneva, già allora, come l’esito di un giudizio equitativo del tutto diverso da
quello riservato agli organi giurisdizionali; ciò che rendeva l’esercizio del
potere di grazia non idoneo ad essere gestito dalla magistratura il cui compito
è “fare giustizia” applicando la legge. 5.2.— Mutato il
quadro istituzionale con il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, va
ricordato il punto saliente del dibattito svoltosi nell’Assemblea costituente,
che portò a riconfermare – nel testo della Costituzione del 1948 – il Capo
dello Stato quale titolare di un potere intimamente connesso, almeno da un
punto di vista storico, alla figura del Monarca. L’art. 87, undicesimo comma,
della Costituzione, dettando una disposizione sostanzialmente identica all’art.
8 dello Statuto albertino, ha infatti stabilito che il Presidente della
Repubblica «può concedere grazia e commutare le pene». Si discusse,
allora, in ordine alle implicazioni di tale scelta, ponendosi prevalentemente
l’accento sull’evoluzione conosciuta – già nella prassi statutaria –
dall’istituto in esame. In particolare, si sottolineò nella seduta assembleare
del 22 ottobre del 1947 come il potere di concedere la grazia, rientrante in
origine tra quelle «attribuzioni (…) ancora di natura personale, residui dei
diritti propri dei monarchi, senza alcun concorso di altri organi
costituzionali», avesse progressivamente mutato natura già sotto il vigore del
regime monarchico. Dalla affermazione secondo cui, allorché «il re fa la
grazia, la fa come persona, non la fa in quanto rappresenta lo Stato», si era
progressivamente passati al riconoscimento che «il Capo dello Stato della
monarchia, secondo lo Statuto albertino, non ha nessun potere personale; tutti
i suoi poteri sono esercitati in quanto rappresentante dello Stato e tutti
sottoposti al principio generale della responsabilità ministeriale». 6.— Inquadrato
storicamente l’istituto, diventa rilevante stabilire – ai fini della
risoluzione del presente conflitto – quale tipo di relazione intercorra tra il
Capo dello Stato, titolare del potere di grazia, ed il Ministro della
giustizia, il quale, responsabile dell’attività istruttoria e quindi a tale
titolo partecipe del procedimento complesso in cui si snoda l’esercizio del
potere in esame, è chiamato a predisporre il decreto che dà forma al
provvedimento di clemenza, nonché a controfirmarlo e, successivamente, a
curarne l’esecuzione. Sul punto, come
è noto, si è sviluppato un ampio dibattito nel corso del quale sono emersi
diversi orientamenti che, sulla base di percorsi argomentativi anche molto
diversificati, vanno dalla configurazione della grazia come atto costituente
“prerogativa presidenziale” a quella di un “atto complesso”, alla cui
formazione dovrebbero concorrere, in modo paritario, le due volontà del
Presidente della Repubblica e del Ministro Guardasigilli, non senza passare
attraverso altre distinte ed intermedie opzioni interpretative. 6.1.— Orbene,
deve ritenersi, al riguardo, che l’esercizio del potere di grazia risponda a
finalità essenzialmente umanitarie, da apprezzare in rapporto ad una serie di
circostanze (non sempre astrattamente tipizzabili), inerenti alla persona del
condannato o comunque involgenti apprezzamenti di carattere equitativo, idonee
a giustificare l’adozione di un atto di clemenza individuale, il quale incide
pur sempre sull’esecuzione di una pena validamente e definitivamente inflitta
da un organo imparziale, il giudice, con le garanzie formali e sostanziali
offerte dall’ordinamento del processo penale. 6.2.— La stessa
disamina della prassi formatasi sulla concessione della grazia dopo l’avvento
della Costituzione repubblicana, pone in evidenza, in base a dati statistici
ministeriali, l’esistenza di una ulteriore evoluzione dell’istituto, o meglio
della funzione assolta con il suo impiego. Se infatti molto
frequente, fino alla metà degli anni ’80 del secolo appena concluso, si è
presentato il ricorso a tale strumento, tanto da legittimare l’idea di un suo
possibile uso a fini di politica penitenziaria, a partire dal 1986 – ed in
coincidenza, non casualmente, con l’entrata in vigore della legge 10 ottobre
1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – si è assistito
ad un ridimensionamento nella sua utilizzazione: valga, a titolo
esemplificativo, il raffronto tra i 1.003 provvedimenti di clemenza dell’anno
1966 e gli appena 104 adottati nel 1987, ma il dato numerico è ulteriormente
diminuito negli anni successivi, riducendosi fino a poche decine. Un’evenienza,
quella appena indicata, da ascrivere – come si notava – all’introduzione di una
apposita legislazione in tema di trattamento carcerario ed esecuzione della
pena detentiva. Ciò nella convinzione che le ordinarie esigenze di adeguamento
delle sanzioni applicate ai condannati alle peculiarità dei casi concreti –
esigenze fino a quel momento soddisfatte in via pressoché esclusiva attraverso
l’esercizio del potere di grazia – dovessero realizzarsi mediante l’impiego,
certamente più appropriato anche per la loro riconduzione alla sfera
giurisdizionale, degli strumenti tipici previsti dall’ordinamento penale,
processual-penale e penitenziario (ad esempio, liberazione condizionale,
detenzione domiciliare, affidamento ai servizi sociali ed altri). Ciò ha fatto sì,
dunque, che l’istituto della grazia sia stato restituito – correggendo la
prassi, per certi versi distorsiva, sviluppatasi nel corso dei primi decenni di
applicazione della disposizione costituzionale di cui all’art. 87, undicesimo
comma, Cost. – alla sua funzione di eccezionale strumento destinato a
soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria. 7.— L’evoluzione
legislativa e della prassi appena illustrata concorre a meglio definire i
rispettivi ruoli esercitati dal Presidente della Repubblica e dal Ministro
Guardasigilli nel procedimento complesso che culmina nell’emanazione del
decreto di concessione della grazia o di commutazione della pena. 7.1.— In
particolare, una volta recuperato l’atto di clemenza alla sua funzione di
mitigare o elidere il trattamento sanzionatorio per eccezionali ragioni
umanitarie, risulta evidente la necessità di riconoscere nell’esercizio di tale
potere – conformemente anche alla lettera dell’art. 87, undicesimo comma, Cost.
– una potestà decisionale del Capo dello Stato, quale organo super partes,
«rappresentante dell’unità nazionale», estraneo a quello che viene definito il
“circuito” dell’indirizzo politico-governativo, e che in modo imparziale è
chiamato ad apprezzare la sussistenza in concreto dei presupposti umanitari che
giustificano l’adozione del provvedimento di clemenza. L’esame della giurisprudenza
della Corte (sentenze n. 274 del 1990, n. 114 del 1979, n. 192 del 1976, n. 204
e n. 110 del 1974) induce a ritenere ormai consolidato l’orientamento che, con
implicito riferimento al principio di separazione dei poteri, esclude ogni
coinvolgimento di esponenti del Governo nella fase dell’esecuzione delle
sentenze penali di condanna, in ragione della sua giurisdizionalizzazione ed in
ossequio al principio secondo il quale solo l’autorità giudiziaria può
interloquire in materia di esecuzione penale.
Annibale
MARINI, Presidente Depositata
in Cancelleria il 18 maggio 2006. |
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