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Corte di Cassazione 01/06/2006

Insidia stradale: configurabile la responsabilità aggravata della p.a.

Cassazione , sez. III civile, sentenza 20 febbraio 2006 n° 3651

Passando per le strade statali calabresi (nel casus decisus) di Reggio Calabria, ritorna in Cassazione la vexata quae­stio del tipo e dell’ambito della disciplina applicabi­le in caso di incidente avvenuto su strada pubblica, e della possibilità di configurarsi al riguardo una re­sponsabilità, concorrente od esclusiva, dell’ente che della stessa e delle relative pertinenze è proprietario o custode (cfr. su Altalex: Responsabilità della p.a. per danni cagionati da cose in custodia per una ricognizione del problema).

Le domande sono le stesse ma le risposte della III sezione, con la sentenza 3651/2006, hanno tutto il sapore del revirement e non solo con riguardo alla specifica questione sottoposta al giudizio degli ermellini ma anche con riferimento ad alcuni istituti fondamentali della teoria generale del diritto: in primis, il Collegio rilegge l’art. 2051 c.c. scostandosi dai rilievi che avevano caratterizzato la giurisprudenza del 2005; in secondo luogo, la Corte riformula il giudizio di responsabilità per custodia della P.A.

Si tratta, senza dubbio, di una delle pronunce più importanti dell’anno giudiziario in corso, confortata dalla pronuncia del 14 marzo 2006, la n. 5445, la quale, sempre nel contesto di riferimento, riesamina il riparto degli oneri probatori giungendo alle medesime conclusioni della sentenza 3651.

QUANDO IL CUSTODE E’ LA P.A. LE REGOLE DEL GIOCO SONO DIVERSE

Come noto, inizialmen­te, l’applicabilità alla P.A. della responsabilità ex art. 2051 c.c. è rimasta “senz’altro esclusa”, al riguar­do riconoscendosi, al più, applicabile il generale prin­cipio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. Riconducendo la responsabilità della P.A. al paradigma della clausola generale dell’art. 2043 c.c. succitato, ed “affermando conseguentemente necessaria la pre­disposizione di accorgimenti tecnici volti ad evitare danni a terzi, nonché la valutazione del comportamento colposo generatore del danno per violazione di specifi­ci doveri di comportamento stabiliti da norme di legge o di regolamento la giurisprudenza è andata, quindi, elaborando il concetto di insidia o trabocchetto determinante un pe­ricolo occulto, per il carattere oggettivo della non visibilità e soggettivo della non prevenibilìtà”.

Tale elemento, sintomatico della attività colposa dell’amministrazione, è stato assunto, quindi, ad «indice tassativo ed ineludibile della responsabi­lità della P.A.» e ricondotto ad elemento costitutivo dell’illecito aquiliano de quo della Pubblica Amministrazione: ne è disceso, come logico corollario, che, trattandosi di un tassello della struttura costitutiva dell’illecito in esame, esso è stato accollato al danneggiante sul piano probatorio ai sensi dell’art. 2697 c.c.

Un istituto “creato” dalla giurisprudenza e fatto gravare sul soggetto leso per far fronte a due esigenze in particolare: in primis, sul piano pratico-operativo, superare le difficoltà probatorie ed applicative della norma venendo in rilievo un illecito omissivo; in secondo luogo, sul piano “latente”, salvaguardare le casse dell’erario.

La esclusione del fascio applicativo della presunzione ex art. 2051 c.c., nei confronti delle amministrazioni pubbliche, è stata, tuttavia, obliterata dalla Corte costituzionale la quale ha escluso potersi aprioristicamente negare l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. nei confronti dei beni appartenenti al demanio stradale, viceversa ri­chiedendo che venga dal giudice condotta un’indagine con riferimento al singolo caso concreto, secondo cri­teri di normalità

Si è così dato adito ad aperture giurisprudenziali che hanno ammesso l’operatività dell’istituto ma limitatamente ai beni demaniali o patrimoniali di non notevole estensione e non suscetti­bili di generalizzata e diretta utilizzazione da parte della collettività. Stante l’uso generale e diretto consentito a chiun­que, e l’estensione della rete, si è infatti considera­to “praticamente impossibile l’esercizio da parte della P.A. di un continuo ed efficace controllo idoneo ad im­pedire l’insorgenza di cause di pericolo per i terzi in relazione a beni del demanio marittimo, fluviale, la­cuale, ed a strade, autostrade, strade ferrate apparte­nenti allo Stato”.

A fronte delle aperture si è, tuttavia, così inaugurato un «automatismo» interpretativo secondo cui la ricorrenza delle caratteristiche a) della demanialità o patrimonialità del bene, b) dell’uso diretto della cosa e c) dell’estensione della medesima è da ritenersi idonea ad automaticamente escludere l’applicabilità dell’art. 2051 c.c.

L’INSIDIA STRADALE: UN INNESTO NELL’ART. 2043 C.C. DI MATRICE PRETORILE

Infranta l’assolutezza del divieto applicativo della presunzione speciale in esame alla P.A.. (sul versante dell’art. 2051 c.c.), nessuna rivisitazione ha, invece, investito la ricostruzione dell’elemento soggettivo nell’organigramma dell’illecito aquiliano e, dunque, l’onere probatorio (sul versante dell’art. 2043 c.c.) addossato al danneggiato agente in sede giudiziaria.

Sedes materia, infatti, la Corte Costituzionale (sentenza n. 156 del 1999) ha “affermato che la P.A. è responsabile nei confronti dei privati per difetto di manutenzione delle strade allorquando non abbia osser­vato le specifiche norme e le comuni regole di prudenza e diligenza poste a tutela dell’integrità personale e patrimoniale dei terzi, in violazione del principio fondamentale del neminem laedere, a tale stregua venen­do «a superare il limite esterno della propria discre­zionalità, con conseguente sua sottoposizione al regime generale di responsabilità dettato dall’art. 2043 cod. civ.». E nella nozione di <<insidìa stradale» essa ha tale occasione ravvisato una «figura sintomatica di colpa», frutto dell’elaborazione giurisprudenziale «mediante ben sperimentate tecniche di giudizio, in base ad una valutazione di normalità, col preciso fine di meglio distribuire tra le parti l’onere probato­rio»”.

Si è, così, giunti ad un assestamento della materia ed all’affermarsi di una indirizzo “timidamente” aperto all’applicabilità dell’art. 2051 c.c. ma considerando tale apertura alla stregua di exceptio alla regula juris (non senza critiche da larga parte della dottrina: in particolare, si è parlato della costruzione in via pretorile di uno jus speciale per la Pubblica Amministrazione del tutto ingiustificato ed arbitrario).

Assestamento confermato dall’arresto di Cassazione del 2001 (Sezioni Unite 7 agosto 2001 n. 10893) in cui si è ritenuta manifesta­mente infondata, in quanto già decisa da Corte Cost. n. 156 del 1999, la questione di legittimità costituziona­le dell’art. 2043 cod. civ. (prospettata sotto il pro­filo della disparità di trattamento ex art. 3 Cost. con l’ipotesi di danneggiamento subito a causa di difetti di manutenzione di siti privati, per i quali varrebbe il più severo regime di responsabilità di cui all’art. 2051 cod. civ.) laddove in tal senso interpretato.

Sulla base dei criteri giurisprudenziali richiamati, con specifico riguardo alle strade, può dirsi che l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. è stata senz’altro esclusa con riferimento a quelle statali e alle autostrade ed è stata viceversa ammessa relativamente alle strade di proprietà del Comune.

Laddove si ritira la presunzione legale speciale si ristende la norma generale ex art. 2043 c.c. e cala sul danneggiato l’onere di fornire la prova dell’insidia, indice sintomatico della colpa della P.A.

VIA LIBERA ALL’INDIRIZZO STEMPERATO. MA PORTE CHIUSE ALLA RESPONSABILITA’ OGGETTIVA.

La materia così riorganizzata dalla giurisprudenza di Cassazione non ha trovato il consenso di gran parte della dottrina ed è stata oggetto di forti obiezioni le quali hanno dato luogo ad oscillazioni interpretative anche in giurisprudenza.

Sulla base delle forti censure, con alcune significative pronunce del 2003 del 2004, la Corte di Cassazione ha optato per una rimeditazione della questione superando, in primis, l’automatismo interpretativo di cui si è detto e statuendo, in tal senso, che l’estensione della res non può considerarsi quale dato rilevante in ordine al concreto atteggiarsi della re­sponsabilità del custode ex art. 2051 c.c. ma può semmai rilevare sotto il diverso profilo della prova del for­tuito (dall’insidia con onere della prova positiva a carico del danneggiato al fortuito con onere della prova liberatoria in capo alla P.A.).

E’ stato, in tal modo, inaugurato un indirizzo giurisprudenziale “stemperato”, di mediazione tra i due indirizzi prevalenti, al seguito del quale “la responsabilità ex art. 2051 ce. per i danni conseguenti ad omessa od insufficiente manutenzione delle strade pubbliche trova applicazione nei confronti della P.A. non solo nel­le ipotesi in cui essa svolge una determinata attività sulla strada in custodia, ma ogniqualvolta non è ravvi­sabile l’oggettiva impossibilità dell’esercizio del suo potere di controllo sulla stessa a causa della notevole estensione del bene e del relativo uso generale da par­te dei terzi”: orbene, tale “oggettiva impossibilità” non nasce da una presunzione ancorata alle qualità del bene ma costituisce l’oggetto di un accertamento riservato al giudice .

Proprio l’indirizzo stemperato è quello sposato dalla sentenza in esame alla quale, però, va il merito di fornirne una compiuta elaborazione particolarmente attenta e meditata.

La premessa di base è che , quale proprietaria delle strade pubbliche ( art. 16 L. 20 marzo 1865, n. 2248 All. F ), l’obbligo di rela­tiva manutenzione in capo alla P.A. discende non solo da specifiche norme ma anche dal generale obbligo di custodia, con con­seguente operatività nei confronti dell’ente della pre­sunzione di responsabilità ex art. 2051 c.c. in caso di omessa prevenzione e mancato im­pedimento del danno a terzi. “Al riguardo il danneggiato, secondo la regola gene­rale in tema di responsabilità civile extracontrattua­le, è tenuto a dare la prova che il danno deriva dalla cosa. Tale prova del nesso causale va peraltro ritenuta assolta con la dimostrazione che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta o assunta dalla cosa”. Orbene, come posto in rilievo in dottrina, il danno normalmente evitato da una condotta diligente comporta la presunzione di colpa. “In tal caso è allora il presunto responsabile a do­ver dare la prova della sua mancanza di colpa. Ma se ha violato una specifica norma giuridica di condotta, la prova di tale violazione è prova sufficiente della col­pa”.

La norma di cui all’art. 2051 c.c. non richiede, invero, altri e diversi presupposti applicativi.. Nemmeno, in particolare, i suindicati «indici», di fonte viceversa giurisprudenziale, della <<notevole estensione del bene» e dell’«uso generale e diretto» della cosa da parte di terzi, che tantomeno possono pertanto considerarsi) "tassativi" ai fini della configurabilità della responsabilità del­la P.A.

Viene in rilievo, infatti, una cd. “responsabilità aggravata” assecondata da un inversione dell’onere della prova cosicché è il custode a dover fornire prova liberatoria (il fortuito). Non si tratta, secondo il giudizio della III sezione, di una responsabilità “oggettiva” perché l’inversione dell’onere probatorio non fa venire meno la rilevanza del requisito della colpa, che “concorre -seppure in via presuntiva- a co­stituire l’illecito, come reso palese dalla stessa pos­sibilità di provarne la mancanza. La prova liberatoria del fortuito attiene infatti alla prova che il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con l’adeguata diligenza, e cioè con lo sforzo diligente dovuto in relazione alle circostanze concrete del caso. Essa si sostanzia pertanto nella prova di aver adottato, in relazione alle condizioni della cosa e al­la sua funzione, tutte le misure idonee ad evi­tare il danno. Va allora disatteso l’orientamento secondo cui la prova positiva del fortuito, contraria alla presunzione di responsabilità, consiste nella prova del fatto estraneo alla sfera «di custodia», e in particolare del fatto del terzo o dello stesso danneggiato …. sicché i carat­teri dell’imprevedibilità e della inevitabilità dell’evento non ricorrono laddove questo poteva essere prevenuto dal custode attraverso l’esercizio dei suoi poteri ed esplicazione dei corrispondenti doveri”.

La prova del fortuito attiene allo­ra piuttosto al profilo della mancanza di colpa” (e a tale stregua, la prova del fortuito si risolve allora sul piano del raffronto tra lo sforzo diligente nel caso concreto dovuto e la condotta mantenuta. Nella dimostrazione, in sostanza, di avere mantenuto una con­dotta caratterizzata da assenza di colpa. Esso, dunque, non afferisce all’interruzione del nesso causale).

“In relazione a situazioni di pericolo immanentemen­te connesse alla struttura o alle pertinenze del bene demaniale o patrimoniale, la prova del fortuito attiene alla dimostrazione dell’espletamento da parte del cu­stode dell’attività di vigilanza, controllo e manuten­zione dovuta in relazione alla natura della cosa. Men­tre ove tali situazioni possano originarsi da comporta­menti degli utenti o da una repentina o imprevedibile alterazione dello stato della cosa, la prova del for­tuito da parte del custode si sostanzia nella dimostra­zione che il danno è dovuto ad un evento non prevedibi­le né superabile con l’adeguata diligenza, e di quanto il medesimo avrebbe dovuto fare ed ha fatto per evitare il danno”.

La sentenza 3651/06 interrompe, quindi, la continuità con l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, almeno della giurisprudenza del biennio trascorso, al seguito del quale l’art. 2051 c.c. disegnava niente più che una responsabilità di tipo oggettivo ancorata all’elemento costitutivo del rapporto di causalità e non anche a quello della culpa. Le uniche forme di responsabilità oggettiva rinvenibili sarebbero, allora, quelle in cui la proba del fortuito è imprescindibilmente esclusa, ovvero, ad esempio, responsabilità da preposizio­ne ( art. 2049 ce. ), per danni nucleari ( art. 15 L. 31 dicembre 1962, n. 1860 ) , per danni arrecati da ve­livoli a terzi sulla superficie ( art. 965 cod. nav.).

SE LA P.A. E’ IL CUSTODE, L’ART. 2051 C.C. E’ DA PREFERIRE ALL’ART. 2043 C.C.

Riletti nei termini richiamati i centri nervosi in seno all’art. 2051 c.c., la Corte passa all’esame della applicabilità della norma alla Pubblica Amministrazione-custode del demanio stradale.

“Dalla suesposta ricostruzione della disciplina, che appare invero consentanea con quanto affermato da Corte Cost. n. 196 del 1999, in particolare là dove si afferma che la «notevole estensione del bene» e «l’uso generale e diretto» della cosa da parte di terzi costituiscono <meri indizi» dell’impossibilità d’un concreto esercizio del potere di controllo e vigi­lanza sul bene medesimo -impossibilità che può essere ritenuta solo all’esito di un’indagine condotta dal giudice con riferimento al caso singolo, e con criteri di normalità ( peraltro con la suesposta precisazione che tali «indizi» assumono rilievo non già sotto il profilo della "struttura" della fattispecie di cui all’art. 2051 ce, bensì in relazione alla prova libe­ratoria del fortuito ivi prevista )-, la responsabilità speciale per custodia ex art. 2051 c.c.. risulta dunque non solo configurabile, ma invero senz’altro preferibi­le rispetto alla regola generale posta dall’art. 2043 c.c: essa si presta infatti ad una migliore salvaguar­dia e ad un miglior bilanciamento degli interessi in gioco in conformità ai principi dell’ordinamento giuri­dico e al sentire sociale”.

Ne discende l’applicazione degli schemi di riparto degli oneri probatori di cui alla presunzione in esame la quale “è da intendersi nel caso non già nel significato di derivazione del fatto ignoto da quello noto bensì quale finzione che, me­diante un’eccezione al principio generale posto dall’art. 2697 c.c. , determina una distribuzione dell’onere della prova diversa rispetto a quella valevole in tema di illecito civile per la regola generale di cui all’art. 2043 ce, al fine di favorire il dan­neggiato, in ossequio al principio dogmatico di ed. vicinanza alla prova. Il significato di tale presunzione si coglie invero ( anche ) sul piano della rilevanza che assume al ri­guardo il principio della colpa obiettiva, quale viola­zione della misura dello sforzo in relazione alle cir­costanze del caso concreto adeguato ad evitare che la cosa provochi danno a terzi”.

“Nell’informarsi al principio di generale favor per il danneggiato, l’ordinamento non indulge infatti a so­luzioni radicali nei confronti del custode, cui è at­tribuita la possibilità di liberarsi dalla responsabi­lità facendo valere la propria mancanza di colpa. Per altro verso, al danneggiato non può farsi cari­co della prova anche dell’insidia o trabocchetto, estranei alla responsabilità ex art. 2051 c.c., cosi come della con­dotta omissiva o commissiva del custode, dovendo invero limitarsi a provare la sussistenza dell’evento dannoso ed il suo rapporto di causalità con la cosa”.

Ma la Corte va ben oltre: così come l’insidia non merita cittadinanza in seno all’art. 2051 c.c., del pari è arbitrario accreditarla nell’alveo dell’art. 2043 c.c. Precisa, infatti, il Collegio che deve , in ottemperanza ai principi richiamati, in tema di responsabilità della P.A. in materia di strade, “la regola generale di responsabilità civile ex art. 2043 c.c. deve essere interpretata esclusivamente secondo il suo tenore formale e significato sostanziale. “Con esclusione cioè ( diversamente invero da quanto sul punto costantemente affermato da questa Corte, e in particolare da Cass., Sez. Un., 7 agosto 2001, n. 10893 e da Corte Cost., 10 maggio 1999, n. 156 ) della possi­bilità di assegnarsi rilievo a figure, come l’insidia o trabocchetto determinante pericolo occulto, dalla rego­la generale ex art. 2043 ce. invero non previste, es­sendo in realtà frutto dell’interpretazione giurisprudenziale che, movendo da esigenze di limitazione delle ipotesi di responsabi­lità, finisce tuttavia per risolversi, laddove viene a porne la relativa prova a carico del danneggiato, in termini di ingiustificato privilegio per la P.A.”.

“La posizione probatoria del danneggiato risulta in­fatti a tale stregua aggravata, in contrasto non solo con il tenore letterale ed il portato sostanziale della norma ma, in termini generali, anche con le stesse scelte di fondo dell’ordinamento in materia di respon­sabilità civile, rispondenti al riconosciuto favor per il soggetto che ha subito la lesione di una propria po­sizione giuridica soggettiva giuridicamente rilevante e tutelata, che, laddove non prevenuta, ne impone la ri­mozione o il ristoro da parte del danneggiante. Costruzione dalla giurisprudenza a suo tempo elabo­rata in ossequio a finalità socio-politiche ed economi­che alla norma e alla materia in questione in realtà estranee, e comunque ormai ( quantomeno ) non ( più ) rispondenti al prevalente sentire della coscienza so­ciale”.

Il Collegio conclude con un ultimo passaggio del tutto significativo, precisando: “Non potendo nemmeno tralasciarsi il rilievo che in argomento è da riconoscersi all’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale che trova applicazione anche in te­ma di responsabiltà extracontrattuale, imponendo al soggetto di mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obbli­ghi di informazione e di avviso, nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui nei limiti dell’apprezzabile sacrificio, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi”:

CORTE DI CASSAZIONE SENTENZA 14 MARZO 2006 N. 5445: CHE FINE FA L’INSIDIA?

La tenuta delle argomentazioni della sentenza 3651/06 può essere verificata alla luce della successiva pronuncia n. 5445 del 14 marzo: il Collegio, nell’occasione, mantiene alti i toni del revirement espressamente prendendo le distanze dalla consolidata giurisprudenza e statuendo che “l’insidia determinante pericolo occulto non è invero dalla norma di cui all’art. 2043 c.c. contemplata, trattandosi di figura di elaborazione giurisprudenziale che, movendo da esigenze di limitazione delle ipotesi di responsabilità, finisce tuttavia per risolversi, laddove viene a porsene la relativa prova a carico del danneggiato, in termini di ingiustificato privilegio per la P.A.”

Il merito della sentenza 5445 è anche quello di aver esaurito e completato l’architettura della sentenza 3651: precisa il Collegio, infatti, che l’insidia non si spegne tout court finendo nel passato dimenticato ma transita spostandosi dalla prova positiva del danneggiato alla prova liberatoria della P.A. La Pubblica Amministrazione, infatti, può liberarsi dalla responsabilità provando, per l’appunto, di aver adottato tutte le cautele per evitare il danno e, quindi, il verificarsi di situazioni di pericolo occulto (insidie).

CONCLUSIONI: RESTYLING PER L’ART. 2051 C.C.

La sentenza 3651/2006 si pone in rottura con la tradizione interpretativa classica prendendo le distanze non solo dalle risultanze diagnostiche della giurisprudenza consolidata di legittimità ma anche dall’”ipse dixit” della Corte Costituzionale. Il terreno soggetto allo smottamento del revirement non è uno solo:

  1. natura giuridica della responsabilità del custode ex art. 2051 c.c.: non oggettiva ma cd. aggravata
  2. prova liberatoria del fortuito ex art. 2051 c.c.: è prova della mancanza di colpa non dell’interruzione del nesso causale
  3. applicabilità dell’art. 2051 c.c. alla P.A.: al bando ogni automatismo. La norma è non solo configurabile in capo alla P.A. ma anche preferibile
  4. ipotesi in cui non si versa nel 2051 ricadendo nel generale 2043 c.c.: il danneggiato non è onerato della prova della cd. insidia, elemento estraneo alla dizione ed al tenore della norma. Espunte insidia e trabocchetto dall’ermeneutica sedes materiae.

Al di là della condivisione o meno delle argomentazioni della III Sezione, non può negarsi come questa metta mano ad un testo ricchissimo di riferimenti giurisprudenziali attraverso una pronuncia ricognitiva particolarmente curata e motivata.

Una decisione preferibile all’apodittico “non si applica l’art. 2051 alla P.A.” divenuto prassi (inopportuna) in gran parte della giurisprudenza di merito ed in molte statuizione di Cassazione.

Quanto al merito, la decisione coglie nel segno.

Sovrapporre alle norme ex lege istituti e parametri di elaborazione pretorile conduce, inevitabilmente, ad una necrosi della materia interessata con collasso del sistema in parte qua: come è stato per il divieto di risarcibilità dell’interesse legittimo; come è stato per la creazione della cd. accessione invertita e come è avvenuto per la cd. insidia. Ancor più laddove le norme siano chiare: né ragioni latenti (più o meno condivisibili) legittimano la creazione di uno jus singulare. Il concetto di trabocchetto, infatti, seppur faciliti il giudizio sul piano probatorio, porta ad una conseguenza collaterale: l’attenzione si sposta dagli obblighi che incombevano sul custode per evitare il danno ai connotati della res per accreditare la pretesa risarcitoria del danneggiato. Né la “colpa” della P.A. può essere circoscritta ai meri casi di insidia anche sulla base della assolta atipicità dei fattori che innescano l’illecito sul manto stradale.

Deve essere salutata con favore anche la ricostruzione dell’art. 2051 c.c. in termini di responsabilità cd. aggravata: la Cassazione opera una evidente compensazione. Da un lato libera il privato dai pesi accollati dalla giurisprudenza per salvare gli interessi portati dalla P.A.; dall’altro facilita però, la pubblica amministrazione custode a fornire la prova liberatoria.

Una soluzione compromissoria che ha due meriti principali: da un lato responsabilizza la P.A. in un settore così delicato e sensibile come quello della manutenzione delle strade; dall’altro valorizza la tutela della persona – utente della strada troppo spesso più vittima che conducente negligente.

Un unico punto debole nelle argomentazioni del Collegio: la Corte reputa che la prova liberatoria sia fornita a mezzo della dimostrazione di aver adottato tutte le cautele onde evitare il danno. Ma quando il legislatore ha voluto ricostruire in siffatti termini la prova liberatoria lo ha fatto espressamente (art. 2050 c.c.) con un tenore letterale che non è presente nell’art. 2051 c.c.

 

 (Giuseppe Buffone)


 SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 20 febbraio 2006, n. 3651


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato in data 13/9/1997, i sigg.ri C. F. e A. S. convenivano avanti al Tribunale dì Reggio Calabria l’A.N.A.S., per ivi sentirlo condannare al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’incidente stradale verificatosi il 23 gennaio 1995 in località Bagaladi ( RC ).

Esponevano al riguardo che quel giorno il F., mentre percorreva la SS 183 alla guida dell’autovettura Fiat 127 di proprietà dello S., giunto all’imbocco del ponte "Tuccio" andava a collidere contro il muretto di sostegno delimitante la carreggiata, e per effetto dell’impatto invadeva l’altra corsia di

marcia per finire quindi contro la "spalletta" in muratura del suindicato ponte delimitante l’opposto lato della carreggiata, "spalletta" che non resisteva all’urto dell’autovettura, la quale pertanto precipitava nella sottostante scarpata andando completamente distrutta, mentre il F. riportava gravi lesioni.

Nella resistenza dell’ANAS l’adito Tribunale rigettava la domanda, con integrale compensazione delle spese di lite, escludendo in particolare l’applicabilità della responsabilità ex art. 2051 c.c. alle cose «prive di un proprio dinamismo», e ravvisando nella condotta del F. la causa produttiva del danno, alla suddetta spalletta in muratura viceversa assegnando «nel determinismo dell’evento» un «ruolo meramente passivo di fronte ad una serie causale di per sé sola sufficiente a produrre l’evento dannoso innescata dall’azione colposa dell’attore», quest’ultima in ogni caso di tale preponderanza sul piano causale da interrompere il rapporto di causalità tra il danno ed eventuali altri antecedenti causali, tra cui l’omessa manutenzione del muro.

La domanda veniva rigettata anche sotto il profilo dell’art. 2043 c.c., nel ritenuto difetto della prova in ordine alla circostanza che il muro avrebbe retto all’urto laddove oggetto di diligente manutenzione.

Il gravame interposto dal F. e dallo S. (i quali si dolevano che il giudice di prime cure, nell’attribuire un ruolo meramente passivo alla "spalletta" in muratura del ponte in questione, avesse escluso l’applicabilità nel caso della presunzione di colpa sussistente ex art. 2051 c.c. in capo al custode; e contestavano che la detta opera muraria potesse considerarsi mera occasione e non già causa di produzione del danno, attese le condizioni di fatiscenza in cui esso era ridotto in ordine alle quali non era stata fornita la prova liberatoria -nella sua veste di proprietaria e custode- da parte dell’ANAS, ente in ogni caso responsabile ex art. 2043 c.c. in presenza di non integra ed idonea recinzione), nella resistenza di quest’ultima veniva dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria rigettato con sentenza del 5/11/2001.

Avverso tale decisione i predetti ricorrono ora per cassazione sulla base di 2 motivi, illustrati da memoria.

Resiste l’ANAS con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione dell’artt. 2051 c.c., del D.M. LL.PP. 4 maggio 1990 e del D.M. 18 febbraio 1992, n. 223, nonché degli artt. 40 e 41 c.p. in relazione

all’art. 360, 1° co. n. 3., c.p.c. Omessa o insufficiente motivazione circa più punti decisivi della controversia in relazione all’art. 360, 1° co. n. 5, c.p.c.

Si dolgono in particolare che la corte di merito abbia erroneamente escluso l’applicabilità nella specie dell’art. 2051 c.c., sulla base di una valutazione "aprioristica" ed apodittica, senza le debite verifiche del caso, omettendo in particolare di considerare lo stato dei luoghi. A tale stregua invero disattendendo le indicazioni di Corte Cost. n. 156 del 1999, la quale ha escluso potersi aprioristicamente negare l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. nei confronti dei beni appartenenti al demanio stradale, viceversa richiedendo che venga dal giudice condotta un’indagine con riferimento al singolo caso concreto, secondo criteri di normalità.

Lamentano essere rimasto infatti privo di valutazione il dato di fatto, indicato nel rapporto della Polizia stradale e raffigurato nella prodotta documentazione fotografica, che trattasi nel caso di ponte rettilineo sito sull’omonimo torrente "Tuccio", di altezza di m. 12,40, munito di «muretto di sostegno protezione formato da paletti verticali in cemento armato e paletti in ferro posti in modo orizzontale», in relazione

al quale risultava sussistere esclusivamente «segnaletica verticale indicante lunghezza ponte m. 100».

Trattandosi di opera di natura specifica e di limitata estensione territoriale, essa ben si prestava, deducono altresì i ricorrenti, al controllo da parte dell’Anas.

Lamentano, ancora, la mancata considerazione da parte dei giudici di merito che l’omessa manutenzione del ponte in questione ed il conseguente processo degenerativo del medesimo nel corso degli anni, di cui viene dato atto nel rapporto della Polizia stradale ( ove si indica che «il muro di protezione del ponte Tuccio, costruito ai tempi di Mussolini, mai ristrutturato, lascia a desiderare, creando gravi pericoli alla circolazione stradale» ) nonché riscontrabili mediante la suindicata documentazione fotografica, aveva reso intrinsecamente pericolosa, privandola di ogni efficienza e rendendola inidonea alle sue funzioni, la relativa barriera protettiva.

A tale stregua, essi censurano, è rimasto ulteriormente disatteso l’art. 9 del D.M. LL.PP. 4 maggio 1990, n. 5, il quale analiticamente disciplina la gestione dei ponti stradali, esplicitandola nell’attività di vigilanza, di ispezione e di manutenzione ordinaria e straordinaria; nonché in interventi di statica, restauro, adeguamento e ristrutturazione. Prescrive altresì ( comma 3 ) un periodico accertamento delle condizioni di stabilità dell’opera, dei suoi elementi strutturali e dello stato di conservazione anche delle parti accessorie; ed indica ( comma 4 ) quali sono le opere ordinarie e straordinarie, contemplando anche il ripristino di parti strutturali in calcestruzzo armato, la protezione delle armature scoperte, estese ad ampie zone e la protezione dei calcestruzzi da azioni disgreganti ( gelo, sali solventi, ambiente aggressivo, ecc. ) necessari a mantenere l’opera nella sua piena efficienza nel rispetto delle caratteristiche originarie.

Dalle circostanze del caso concreto emerge quindi evidente, affermano i ricorrenti, il nesso di causalità tra cosa ed evento richiesto dall’art. 2051 c.c., atteso che il parapetto del ponte ha precipuamente la funzione di garantire la sicurezza della circolazione dei veicoli, sostanziantesi nel contenimento dei veicoli che tendono alla fuoriuscita dalla carreggiata stradale.

La ritenuta «inapplicabilità "a priori"» dell’art. 2051 c.c. ha d’altro canto comportato, essi ulteriormente censurano, l’omesso accertamento della mancata prova del fortuito da parte dell’ANAS.

Si dolgono, ancora, che l’impugnata sentenza risulti affetta da carenza di motivazione anche in ordine al nesso di causalità, con particolare riferimento alla mancanza di prova da parte dell’Anas che nel comportamento del danneggiato fosse nel caso riscontrabile l’efficacia causale esclusiva dell’evento. Ed escludono che quest’ultimo potesse considerarsi imprevedibile ed inevitabile, secondo quanto richiesto dall’art. 2051 c.c. per la configurabilità del caso fortuito, unica esimente della reponsabilità del custode, in quanto lo sbandamento ed il conseguente urto di un veicolo contro il parapetto del ponte non possono considerarsi eventi imprevedibili od eccezionali per il custode, atteso che la presenza stessa della barriera di protezione li rende prevedibili.

Per effetto dell’intrinseca pericolosità assunta in ragione del processo degenerativo subito negli anni, che l’aveva reso inidoneo a garantire la sicurezza per l’utente stradale, il parapetto in questione ha per converso assunto, essi sostengono, incidenza causale di per sé sola sufficiente a determinare la produzione dell’evento dannoso.

Decisivo rilievo al riguardo assume anche la circostanza che -come indicato nel rapporto della Polizia-, nel caso la breccia si è infatti aperta non già nel punto del primo bensì in quello del secondo impatto,verso il quale l’autovettura era stata rimbalzata ad una velocità ( stimata dal consulente di parte come non superiore a 55 KM orari ) sicuramente meno intensa di quella dall’autovettura mantenuta in occasione del primo urto.

Se da un canto è allora desumibile che il veicolo in questione non può avere nella specie assunto rilevanza causale esclusiva nella verificazione dell’evento ( altrimenti il muro sarebbe crollato al primo impatto e non al secondo ) , da altro canto si evince, essi affermano, che la barriera di protezione ha ceduto là dove il processo degenerativo era più avanzato.

Se fosse stato adeguato ai dettami di legge già anteriormente all’evento, e non solo successivamente, all’esito della tardiva sostituzione -in corso di causa- con dei guard-rail, il parapetto in questione, deducono i ricorrenti, avrebbe invero retto non solo all’«urto di un auto ma anche a quello di un camion».

Lungi dall’assurgere al rango di causa esclusiva dell’evento, concludono sul punto, la presunta condotta colposa del F. avrebbe potuto pertanto al più, ove dimostrata, assumere rilievo concorrente con lo stato di omessa manutenzione della barriera di protezione.

Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano violazione dell’art. 2043 ce, in relazione all’art. 360,1° co. n. 3, c.p.c. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, 1° co. n. 5, c.p.c.

Sostengono che l’impugnata sentenza è invero censurabile là dove non ha riconosciuto la responsabilità civile dell’Anas nemmeno sotto il dedotto profilo della violazione del principio del neminem laedere ex art. 2043 c.c.

Quale soggetto proprietario o gestore della barriera di protezione a tutela dell’affidamento dell’utente, l’Anas è infatti, essi deducono, in ogni caso a tale titolo responsabile ogniqualvolta, come nel caso, «esista e non sia integra idonea recinzione».

La barriera di protezione, proprio in ragione delle sue condizioni di deficienza, aveva nella specie insiti i caratteri dell’insidia o pericolo occulto, giacché l’utente della strada fa legittimo affidamento sulla relativa idoneità.

D’altro canto la stessa Anas, osservano i ricorrenti nella memoria illustrativa, non nega ed anzi esplicitamente ammette che sulle "strutture" erette ai lati della sede stradale deve essere esercitata un’adeguata attività di vigilanza e controllo non diversamente da quella che normalmente viene effettuata con riferimento al bene di cui le medesime costituiscono pertinenza o accessorio.

Al riguardo, pongono in rilievo, il detto ente invoca le «particolari caratteristiche» della strada in questione, affermando che la medesima «non muta anche se un tratto ... non è posizionato su terraferma ma passa su ponte».

Ma, osservano, della mancata considerazione delle peculiari caratteristiche del bene in questione sono invero proprio essi ricorrenti a dolersi per primi, giacché la corte di merito ha nel caso aprioristicamente escluso l’applicabilità della detta norma sulla base della mera considerazione della natura demaniale del bene, del relativo uso diretto da parte della collettività, e della sua notevole estensione.

I due motivi di ricorso possono essere congiuntamente esaminati, essendo logicamente connessi.

Le censure sono fondate e vanno accolte nei termini che si verranno esponendo.

La vicenda in questione ripropone la vexata quaestio del tipo e dell’ambito della disciplina applicabile in caso di incidente avvenuto su strada pubblica, e della possibilità di configurarsi al riguardo una responsabilità, concorrente od esclusiva, dell’ente che della stessa e delle relative pertinenze è proprietario o custode.

La censura degli odierni ricorrenti si incentra essenzialmente sulla "aprioristicamente" ravvisata inapplicabilità nel caso, trattandosi di strada statale che passa su un ponte, della responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c.

Rimane a tale stregua disatteso, lamentano i ricorrenti, il più recente orientamento di questa Corte e della più avvertita dottrina, oltre che quanto al riguardo indicato da Corte Cost. n. 156 del 1999.

Trattasi in effetti di argomento che ha costituito più volte oggetto, anche recentemente, di pronunzie da parte di questa Corte, ed in ordine al quale sono andati invero delineandosi differenti linee interpretative.

Va anzitutto in termini generali osservato che l’assoggettamento della P.A. alle regole del diritto privato, e la considerazione della medesima su un piano di parità con gli altri soggetti quando agisce iure privatorum nell’ambito dei comuni rapporti della vita di relazione, risponde ormai ad un’esigenza pienamente avvertita dalla coscienza sociale.

Riflesso di una crescita e di una progressiva maturazione della concezione degli status e dei rapporti intersoggettivi, la (ri)considerazione della posizione della P.A. continua a proporsi come indefettibile momento di valutazione e controllo del processo di evoluzione e dello stadio di attuazione sul piano giuridico del corrispondente percorso ideale.

Nello svolgersi di tale iter, che non può dirsi invero ancora compiuto, valore significativo e pregnante assume la riconosciuta applicabilità alla P.A. dì regole e principi fondamentali come, in particolare, quello dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nei rapporti contrattuali ( v. Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 7 aprile 1992, n. 4226; Cass., 10 dicembre 1987, n. 9129; Cass., 9 maggio 1983, n. 3152; Cass., Sez. Un., 11 gennaio 1977, n. 93; Cass., 21 ottobre 1974, n. 2972; Cass., 30 gennaio 1968, n. 297; Cass., 11 ottobre 1963, n. 2711. Contra v. Cass., 4 ottobre 1974, n. 2603); delle regole in tema di arricchimento senza causa (v. Cass., 15 giugno 2005, n. 12850; Cass., 23 luglio 2003, n. 11454; Cass., 29 aprile 1998, n. 4364; Cass., 12 settembre 1992, n. 10433; Cass,, 12 settembre 1992, n. 7694; Cass., 20 marzo 1991, n. 2965; Cass., 19 maggio 1983, n. 3450; Cass., 17 novembre 1981, n. 6094; Cass., 12 marzo 1973, n. 685 ); di responsabilità civile precontrattuale (v. Cass., 18 giugno 2005, n. 13164; Cass., 10 giugno 2005, n. 12313; Cass., 12 marzo 1993, n. 2973; Cass., 10 dicembre 1987, n. 9129; Cass., 11 dicembre 1978, n. 5831; Cass., 8 febbraio 1972, n. 330; Cass., 28 settembre 1968, n. 3008. Contra v. Cass., 4 aprile 2001, n. 4938; Cass., 7 marzo 2001, n. 3272; Cass., 14 marzo 1985, n. 1987; Cass., 6 ottobre 1993, n. 9892; Cass., 29 luglio 1987, n. 6545 ) ed extracontrattuale (con riferimento all’esercizio di attività pericolose v., in particolare, Cass., 4 aprile 1995, n. 3935; Cass., 1° aprile 1995, n. 3829; Cass., 27 febbraio 1984, n. 1393; Cass., 27 gennaio 1982, n. 537. Contra v. Cass., 4 gennaio 1964, n.3).

L’evoluzione in questione è stata caratterizzata in effetti non già da modifiche legislative o decisivi interventi della Corte Costituzionale, bensì essenzialmente da una diversa lettura operata nel tempo dalla giurisprudenza di norme rimaste immutate nel loro tenore testuale.

Si colloca in tale quadro la problematica afferente l’applicabilità alla P.A. delle norme in tema di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. e di responsabilità per i danni provocati da cose in custodia di cui all’art. 2051 c.c. ( come pure in tema di concorso di colpa ex art. 1227, 1° co., c.c. ) che nel caso in esame vengono specificamente in rilievo.

Recenti sentenze di questa Corte si sono fatte carico ( anche ) di ripercorrere brevemente l’evoluzione degli orientamenti interpretativi della giurisprudenza di legittimità in argomento.

Allorquando il suindicato iter ha avuto inizio, nell’assoggettare la P.A. -laddove non agisce discrezionalmente quale autorità dotata di poteri speciali a tutela degli interessi che la sua attività è razionalizzata a salvaguardare bensì opera iure privatorum sul piano dei comuni rapporti della vita di relazione- al rispetto delle norme che tali rapporti disciplinano, con particolare riferimento alle strade questa Corte (v. Cass., 1° dicembre 2004, n. 22592; Cass., 3 dicembre 2002, n. 17152) ha posto in rilievo che inizialmente l’applicabilità alla P.A. della responsabilità ex art. 2051 c.c. è rimasta senz’altro esclusa, al riguardo riconoscendosi al più applicabile il generale principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. (v. Cass., 29 novembre 1966, n. 2806; Cass., 5 febbraio 1969, n. 385; Cass., 23 gennaio 1975, n. 260; Cass., 13 febbraio 1978, n. 671. Più recentemente v. anche, con riferimento alle strade ferrate, Cass., 23 luglio 1991, n. 8244) .

Nell’affermare conseguentemente necessaria la predisposizione di accorgimenti tecnici volti ad evitare danni a terzi, nonché la valutazione del comportamento colposo generatore del danno per violazione di specifici doveri di comportamento stabiliti da norme di legge o di regolamento ( che per quanto attiene alle strade si traduce nell’obbligo di controllo, vigilanza manutenzione in modo tale da evitare che possa scaturirne danno per gli utenti che sullo stato di praticabilità delle stesse ripongono ragionevole affidamento), la giurisprudenza è andata d’altro canto elaborando il concetto di insidia o trabocchetto determinante un pericolo occulto, per il carattere oggettivo della non visibilità e soggettivo della non prevenibilità ( v. Cass., 28 gennaio 2004, n. 1571; Cass., 8 novembre 2002, n. 15710; Cass., 21 dicembre 2001, n. 16179, Cass., 17 marzo 1998, n. 2850; Cass., 12 gennaio 1996, n. 191. V. anche Cass., 20 giugno 1997, n. 5539. E già Cass., 24 novembre 1969, n, 3816 e Cass., 21 giugno 1969, n. 2244 ) . Il medesimo pervenendo a considerare quale «elemento sintomatico della attività colposa dell’amministrazione, ricorrente allorché la strada nasconde un’insidia non evitabile dall’utente con l’ordinaria diligenza», fino ad indicarlo in termini di «indice tassativo ed ineludibile della responsabilità della P.A.» ( v. la citata Cass., 1° dicembre 2004, n. 22592 ).

Della ricorrenza dell’insidia o trabocchetto, nonché della carenza o dell’inadeguatezza della prescritta attività di controllo, vigilanza e manutenzione da parte della P.A, l’onere della prova è stato peraltro addossato al danneggiato ( v. Cass., 4 giugno 2004, n. 10654; Cass., 30 luglio 2002, n. 11250; Cass., 12 giugno 2001, n. 7938; Cass., 17 marzo 1998, n. 2850 ), asseritamente in ossequio alla regola generale in tema di responsabilità civile extracontrattuale secondo cui la prova degli elementi costitutivi dell’illecito è a carico del danneggiato. Trovando altrimenti applicazione il principio dell’autoresponsabilità ( richiamato da Corte Cost. n. 156 del 1999 ).

Successivamente la responsabilità per danni da cose in custodia ex art. 2051 c.c. è stata ritenuta configurabile anche nei confronti della P.A. ( v. Cass,, 14 ottobre 1970, n. 2020; Cass., 3 giugno 1982, n. 3392; Cass., 27 gennaio 1988, n. 723; Cass., 21 maggio 1996, n. 4673; Cass., 1998, n. 11749; Cass., 22 aprile, 1998, n. 4070 ), seppure limitatamente ai beni demaniali o patrimoniali di non notevole estensione e non suscettibili di generalizzata e diretta utilizzazione da parte della collettività ( v. Cass., 30 ottobre 1984, n. 5567).

L’applicabilità dell’art. 2051 c.c. è stata pertanto affermata con riferimento a beni che consentono in concreto un controllo ed una vigilanza idonea ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo, tali considerandosi la villa comunale (v. Cass., 7 gennaio 1982, n.58 ); la rete fognaria ( v. Cass., 2 aprile 2004, n. 6515; Cass., 4 aprile 1985, n. 2319 ); la galleria di una stazione ferroviaria destinata esclusivamente al personale dell’amministrazione e protetta da un cancello ( v. Cass., 20 marzo 1982, n. 1817 ) ; le pertinenze e gli arredi della stazione ferroviaria, funzionalizzati allo scopo di consentire l’uscita dei passeggeri dalla medesima ( v. Cass., 1° luglio 2005, n. 14091 ) ; il trefolo e la fune di guardia di una linea elettrica ad alta tensione di proprietà dell’Enel ( v. Cass., 15 gennaio 1996, n. 265 ); l’albero del cimitero comunale (con riferimento ad una fattispecie di crollo su cappella gentilizia di privato v. Cass., 21 gennaio 1987, n. 526 ).

Stante l’uso generale e diretto consentito a chiunque, e l’estensione della rete, si è infatti considerato praticamente impossibile l’esercizio da parte della P.A. di un continuo ed efficace controllo idoneo ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo per i terzi in relazione a beni del demanio marittimo, fluviale, lacuale, ed a strade, autostrade, strade ferrate appartenenti allo Stato ( v. Cass., 27 marzo 1972, n. 976; Cass., 30 ottobre 1984, n. 5567, Cass., 28 ottobre 1998, n. 10759; Cass., 31 luglio 2002, n. 11366; Cass., 25 novembre 2003, n. 17907. Da ultimo v. Cass., 7 febbraio 2005, n. 2410; Cass., 27 gennaio 2005, n. 1655; Cass., 8 aprile 2004, n. 6515. V. anche Cass., 25 novembre 2003, n. 17907; Cass., 31 luglio 2002, n. 11366; Cass., 9 luglio 2002, n. 10577; Cass., 26 gennaio 1999, n. 699; Cass., 22 aprile 1998, n. 4070; Cass., 16 giugno 1998, n. 5990; Cass., 27 dice

Giovedì, 01 Giugno 2006
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