Passando per le strade statali calabresi (nel casus
decisus) di Reggio Calabria, ritorna in Cassazione la vexata quaestio del
tipo e dell’ambito della disciplina applicabile in caso di incidente
avvenuto su strada pubblica, e della possibilità di configurarsi al riguardo
una responsabilità, concorrente od esclusiva, dell’ente che della stessa e
delle relative pertinenze è proprietario o custode (cfr. su Altalex: Responsabilità della p.a.
per danni cagionati da cose in custodia per una ricognizione del problema). Le domande sono le stesse ma le risposte della III
sezione, con la sentenza 3651/2006, hanno tutto il sapore del revirement
e non solo con riguardo alla specifica questione sottoposta al giudizio degli
ermellini ma anche con riferimento ad alcuni istituti fondamentali della teoria
generale del diritto: in primis, il Collegio rilegge l’art. 2051 c.c.
scostandosi dai rilievi che avevano caratterizzato la giurisprudenza del 2005;
in secondo luogo, la Corte riformula il giudizio di responsabilità per custodia
della P.A. Si tratta, senza dubbio, di una delle pronunce più
importanti dell’anno giudiziario in corso, confortata dalla pronuncia del 14 marzo
2006, la n. 5445, la quale, sempre nel contesto di riferimento, riesamina
il riparto degli oneri probatori giungendo alle medesime conclusioni della
sentenza 3651. QUANDO IL CUSTODE E’ LA P.A. LE REGOLE DEL GIOCO
SONO DIVERSE Come noto, inizialmente, l’applicabilità alla P.A.
della responsabilità ex art. 2051 c.c. è rimasta “senz’altro esclusa”, al
riguardo riconoscendosi, al più, applicabile il generale principio del neminem
laedere di cui all’art. 2043 c.c. Riconducendo la responsabilità della P.A.
al paradigma della clausola generale dell’art. 2043 c.c. succitato, ed
“affermando conseguentemente necessaria la predisposizione di accorgimenti
tecnici volti ad evitare danni a terzi, nonché la valutazione del comportamento
colposo generatore del danno per violazione di specifici doveri di comportamento
stabiliti da norme di legge o di regolamento la giurisprudenza è andata,
quindi, elaborando il concetto di insidia o trabocchetto determinante un pericolo
occulto, per il carattere oggettivo della non visibilità e soggettivo della non
prevenibilìtà”. Tale elemento, sintomatico della attività colposa
dell’amministrazione, è stato assunto, quindi, ad «indice tassativo ed
ineludibile della responsabilità della P.A.» e ricondotto ad elemento
costitutivo dell’illecito aquiliano de quo della Pubblica Amministrazione: ne è
disceso, come logico corollario, che, trattandosi di un tassello della
struttura costitutiva dell’illecito in esame, esso è stato accollato al
danneggiante sul piano probatorio ai sensi dell’art. 2697 c.c. Un istituto “creato” dalla giurisprudenza e fatto
gravare sul soggetto leso per far fronte a due esigenze in particolare: in
primis, sul piano pratico-operativo, superare le difficoltà probatorie ed
applicative della norma venendo in rilievo un illecito omissivo; in secondo
luogo, sul piano “latente”, salvaguardare le casse dell’erario. La esclusione del fascio applicativo della
presunzione ex art. 2051 c.c., nei confronti delle amministrazioni pubbliche, è
stata, tuttavia, obliterata dalla Corte costituzionale la quale ha escluso
potersi aprioristicamente negare l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. nei
confronti dei beni appartenenti al demanio stradale, viceversa richiedendo che
venga dal giudice condotta un’indagine con riferimento al singolo caso
concreto, secondo criteri di normalità Si è così dato adito ad aperture giurisprudenziali
che hanno ammesso l’operatività dell’istituto ma limitatamente ai beni
demaniali o patrimoniali di non notevole estensione e non suscettibili di
generalizzata e diretta utilizzazione da parte della collettività. Stante l’uso
generale e diretto consentito a chiunque, e l’estensione della rete, si è
infatti considerato “praticamente impossibile l’esercizio da parte della P.A.
di un continuo ed efficace controllo idoneo ad impedire l’insorgenza di cause
di pericolo per i terzi in relazione a beni del demanio marittimo, fluviale, lacuale,
ed a strade, autostrade, strade ferrate appartenenti allo Stato”. A fronte delle aperture si è, tuttavia, così
inaugurato un «automatismo» interpretativo secondo cui la ricorrenza delle
caratteristiche a) della demanialità o patrimonialità del bene, b) dell’uso
diretto della cosa e c) dell’estensione della medesima è da ritenersi idonea ad
automaticamente escludere l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. L’INSIDIA STRADALE: UN INNESTO NELL’ART. 2043 C.C.
DI MATRICE PRETORILE Infranta l’assolutezza del divieto applicativo
della presunzione speciale in esame alla P.A.. (sul versante dell’art. 2051
c.c.), nessuna rivisitazione ha, invece, investito la ricostruzione
dell’elemento soggettivo nell’organigramma dell’illecito aquiliano e, dunque,
l’onere probatorio (sul versante dell’art. 2043 c.c.) addossato al danneggiato
agente in sede giudiziaria. Sedes materia, infatti, la Corte Costituzionale
(sentenza n. 156 del 1999) ha “affermato che la P.A. è responsabile nei
confronti dei privati per difetto di manutenzione delle strade allorquando non
abbia osservato le specifiche norme e le comuni regole di prudenza e diligenza
poste a tutela dell’integrità personale e patrimoniale dei terzi, in violazione
del principio fondamentale del neminem laedere, a tale stregua venendo
«a superare il limite esterno della propria discrezionalità, con conseguente
sua sottoposizione al regime generale di responsabilità dettato dall’art. 2043
cod. civ.». E nella nozione di <<insidìa stradale» essa ha tale occasione
ravvisato una «figura sintomatica di colpa», frutto dell’elaborazione
giurisprudenziale «mediante ben sperimentate tecniche di giudizio, in base ad
una valutazione di normalità, col preciso fine di meglio distribuire tra le
parti l’onere probatorio»”. Si è, così, giunti ad un assestamento della materia
ed all’affermarsi di una indirizzo “timidamente” aperto all’applicabilità
dell’art. 2051 c.c. ma considerando tale apertura alla stregua di exceptio alla
regula juris (non senza critiche da larga parte della dottrina: in particolare,
si è parlato della costruzione in via pretorile di uno jus speciale per la
Pubblica Amministrazione del tutto ingiustificato ed arbitrario). Assestamento confermato dall’arresto di Cassazione
del 2001 (Sezioni Unite 7
agosto 2001 n. 10893) in cui si è ritenuta manifestamente infondata, in
quanto già decisa da Corte Cost. n. 156 del 1999, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2043 cod. civ. (prospettata sotto il profilo della
disparità di trattamento ex art. 3 Cost. con l’ipotesi di danneggiamento subito
a causa di difetti di manutenzione di siti privati, per i quali varrebbe il più
severo regime di responsabilità di cui all’art. 2051 cod. civ.) laddove in tal
senso interpretato. Sulla base dei criteri giurisprudenziali
richiamati, con specifico riguardo alle strade, può dirsi che l’applicabilità
dell’art. 2051 c.c. è stata senz’altro esclusa con riferimento a quelle statali
e alle autostrade ed è stata viceversa ammessa relativamente alle strade di
proprietà del Comune. Laddove si ritira la presunzione legale speciale si
ristende la norma generale ex art. 2043 c.c. e cala sul danneggiato l’onere di
fornire la prova dell’insidia, indice sintomatico della colpa della P.A. VIA LIBERA ALL’INDIRIZZO STEMPERATO. MA PORTE
CHIUSE ALLA RESPONSABILITA’ OGGETTIVA. La materia così riorganizzata dalla giurisprudenza
di Cassazione non ha trovato il consenso di gran parte della dottrina ed è
stata oggetto di forti obiezioni le quali hanno dato luogo ad oscillazioni
interpretative anche in giurisprudenza. Sulla base delle forti censure, con alcune significative
pronunce del 2003 del 2004, la Corte di Cassazione ha optato per una
rimeditazione della questione superando, in primis, l’automatismo
interpretativo di cui si è detto e statuendo, in tal senso, che l’estensione
della res non può considerarsi quale dato rilevante in ordine al
concreto atteggiarsi della responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. ma può
semmai rilevare sotto il diverso profilo della prova del fortuito
(dall’insidia con onere della prova positiva a carico del danneggiato al
fortuito con onere della prova liberatoria in capo alla P.A.). E’ stato, in tal modo, inaugurato un indirizzo
giurisprudenziale “stemperato”, di mediazione tra i due indirizzi prevalenti,
al seguito del quale “la responsabilità ex art. 2051 ce. per i danni conseguenti
ad omessa od insufficiente manutenzione delle strade pubbliche trova
applicazione nei confronti della P.A. non solo nelle ipotesi in cui essa
svolge una determinata attività sulla strada in custodia, ma ogniqualvolta non
è ravvisabile l’oggettiva impossibilità dell’esercizio del suo potere di
controllo sulla stessa a causa della notevole estensione del bene e del
relativo uso generale da parte dei terzi”: orbene, tale “oggettiva
impossibilità” non nasce da una presunzione ancorata alle qualità del bene ma
costituisce l’oggetto di un accertamento riservato al giudice . Proprio l’indirizzo stemperato è quello sposato
dalla sentenza in esame alla quale, però, va il merito di fornirne una compiuta
elaborazione particolarmente attenta e meditata. La premessa di base è che , quale proprietaria
delle strade pubbliche ( art. 16 L. 20 marzo 1865, n. 2248 All. F ), l’obbligo
di relativa manutenzione in capo alla P.A. discende non solo da specifiche
norme ma anche dal generale obbligo di custodia, con conseguente operatività
nei confronti dell’ente della presunzione di responsabilità ex art. 2051 c.c.
in caso di omessa prevenzione e mancato impedimento del danno a terzi. “Al
riguardo il danneggiato, secondo la regola generale in tema di responsabilità
civile extracontrattuale, è tenuto a dare la prova che il danno deriva dalla
cosa. Tale prova del nesso causale va peraltro ritenuta assolta con la
dimostrazione che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della
particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta o assunta dalla cosa”.
Orbene, come posto in rilievo in dottrina, il danno normalmente evitato da
una condotta diligente comporta la presunzione di colpa. “In tal caso è
allora il presunto responsabile a dover dare la prova della sua mancanza di
colpa. Ma se ha violato una specifica norma giuridica di condotta, la prova di
tale violazione è prova sufficiente della colpa”. La norma di cui all’art. 2051 c.c. non richiede,
invero, altri e diversi presupposti applicativi.. Nemmeno, in particolare, i
suindicati «indici», di fonte viceversa giurisprudenziale, della
<<notevole estensione del bene» e dell’«uso generale e diretto» della
cosa da parte di terzi, che tantomeno possono pertanto considerarsi)
"tassativi" ai fini della configurabilità della responsabilità della
P.A. Viene in rilievo, infatti, una cd. “responsabilità
aggravata” assecondata da un inversione dell’onere della prova cosicché è il
custode a dover fornire prova liberatoria (il fortuito). Non si tratta, secondo
il giudizio della III sezione, di una responsabilità “oggettiva” perché
l’inversione dell’onere probatorio non fa venire meno la rilevanza del
requisito della colpa, che “concorre -seppure in via presuntiva- a costituire
l’illecito, come reso palese dalla stessa possibilità di provarne la mancanza.
La prova liberatoria del fortuito attiene infatti alla prova che il danno si è
verificato in modo non prevedibile né superabile con l’adeguata diligenza, e
cioè con lo sforzo diligente dovuto in relazione alle circostanze concrete del
caso. Essa si sostanzia pertanto nella prova di aver adottato, in relazione
alle condizioni della cosa e alla sua funzione, tutte le misure idonee ad evitare
il danno. Va allora disatteso l’orientamento secondo cui la prova positiva del
fortuito, contraria alla presunzione di responsabilità, consiste nella prova
del fatto estraneo alla sfera «di custodia», e in particolare del fatto del
terzo o dello stesso danneggiato …. sicché i caratteri dell’imprevedibilità e
della inevitabilità dell’evento non ricorrono laddove questo poteva essere
prevenuto dal custode attraverso l’esercizio dei suoi poteri ed esplicazione
dei corrispondenti doveri”. “La prova del fortuito attiene allora piuttosto
al profilo della mancanza di colpa” (e a tale stregua, la prova del
fortuito si risolve allora sul piano del raffronto tra lo sforzo diligente nel
caso concreto dovuto e la condotta mantenuta. Nella dimostrazione, in sostanza,
di avere mantenuto una condotta caratterizzata da assenza di colpa. Esso,
dunque, non afferisce all’interruzione del nesso causale). “In relazione a situazioni di pericolo immanentemente
connesse alla struttura o alle pertinenze del bene demaniale o patrimoniale, la
prova del fortuito attiene alla dimostrazione dell’espletamento da parte del custode
dell’attività di vigilanza, controllo e manutenzione dovuta in relazione alla
natura della cosa. Mentre ove tali situazioni possano originarsi da comportamenti
degli utenti o da una repentina o imprevedibile alterazione dello stato della
cosa, la prova del fortuito da parte del custode si sostanzia nella dimostrazione
che il danno è dovuto ad un evento non prevedibile né superabile con
l’adeguata diligenza, e di quanto il medesimo avrebbe dovuto fare ed ha fatto
per evitare il danno”. La sentenza 3651/06 interrompe, quindi, la
continuità con l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, almeno della
giurisprudenza del biennio trascorso, al seguito del quale l’art. 2051 c.c.
disegnava niente più che una responsabilità di tipo oggettivo ancorata all’elemento
costitutivo del rapporto di causalità e non anche a quello della culpa.
Le uniche forme di responsabilità oggettiva rinvenibili sarebbero, allora,
quelle in cui la proba del fortuito è imprescindibilmente esclusa, ovvero, ad
esempio, responsabilità da preposizione ( art. 2049 ce. ), per danni nucleari
( art. 15 L. 31 dicembre 1962, n. 1860 ) , per danni arrecati da velivoli a
terzi sulla superficie ( art. 965 cod. nav.). SE LA P.A. E’ IL CUSTODE, L’ART. 2051 C.C. E’ DA
PREFERIRE ALL’ART. 2043 C.C. Riletti nei termini richiamati i centri nervosi in
seno all’art. 2051 c.c., la Corte passa all’esame della applicabilità della
norma alla Pubblica Amministrazione-custode del demanio stradale. “Dalla suesposta ricostruzione della disciplina,
che appare invero consentanea con quanto affermato da Corte Cost. n. 196 del
1999, in particolare là dove si afferma che la «notevole estensione del bene» e
«l’uso generale e diretto» della cosa da parte di terzi costituiscono <meri
indizi» dell’impossibilità d’un concreto esercizio del potere di controllo e
vigilanza sul bene medesimo -impossibilità che può essere ritenuta solo
all’esito di un’indagine condotta dal giudice con riferimento al caso singolo,
e con criteri di normalità ( peraltro con la suesposta precisazione che tali
«indizi» assumono rilievo non già sotto il profilo della "struttura"
della fattispecie di cui all’art. 2051 ce, bensì in relazione alla prova liberatoria
del fortuito ivi prevista )-, la responsabilità speciale per custodia ex
art. 2051 c.c.. risulta dunque non solo configurabile, ma invero senz’altro
preferibile rispetto alla regola generale posta dall’art. 2043 c.c: essa
si presta infatti ad una migliore salvaguardia e ad un miglior bilanciamento
degli interessi in gioco in conformità ai principi dell’ordinamento giuridico
e al sentire sociale”. Ne discende l’applicazione degli schemi di riparto
degli oneri probatori di cui alla presunzione in esame la quale “è da
intendersi nel caso non già nel significato di derivazione del fatto ignoto da
quello noto bensì quale finzione che, mediante un’eccezione al principio
generale posto dall’art. 2697 c.c. , determina una distribuzione dell’onere
della prova diversa rispetto a quella valevole in tema di illecito civile per
la regola generale di cui all’art. 2043 ce, al fine di favorire il danneggiato,
in ossequio al principio dogmatico di ed. vicinanza alla prova. Il significato
di tale presunzione si coglie invero ( anche ) sul piano della rilevanza che
assume al riguardo il principio della colpa obiettiva, quale violazione della
misura dello sforzo in relazione alle circostanze del caso concreto adeguato
ad evitare che la cosa provochi danno a terzi”. “Nell’informarsi al principio di generale favor per
il danneggiato, l’ordinamento non indulge infatti a soluzioni radicali nei
confronti del custode, cui è attribuita la possibilità di liberarsi dalla
responsabilità facendo valere la propria mancanza di colpa. Per altro verso, al
danneggiato non può farsi carico della prova anche dell’insidia o
trabocchetto, estranei alla responsabilità ex art. 2051 c.c., cosi come
della condotta omissiva o commissiva del custode, dovendo invero limitarsi a
provare la sussistenza dell’evento dannoso ed il suo rapporto di causalità con la
cosa”. Ma la Corte va ben oltre: così come l’insidia non
merita cittadinanza in seno all’art. 2051 c.c., del pari è arbitrario
accreditarla nell’alveo dell’art. 2043 c.c. Precisa, infatti, il Collegio che
deve , in ottemperanza ai principi richiamati, in tema di responsabilità della
P.A. in materia di strade, “la regola generale di responsabilità civile ex art.
2043 c.c. deve essere interpretata esclusivamente secondo il suo tenore
formale e significato sostanziale. “Con esclusione cioè ( diversamente invero
da quanto sul punto costantemente affermato da questa Corte, e in particolare
da Cass., Sez. Un., 7
agosto 2001, n. 10893 e da Corte Cost., 10 maggio 1999, n. 156 ) della
possibilità di assegnarsi rilievo a figure, come l’insidia o trabocchetto
determinante pericolo occulto, dalla regola generale ex art. 2043 ce. invero
non previste, essendo in realtà frutto dell’interpretazione giurisprudenziale
che, movendo da esigenze di limitazione delle ipotesi di responsabilità,
finisce tuttavia per risolversi, laddove viene a porne la relativa prova a
carico del danneggiato, in termini di ingiustificato privilegio per la P.A.”. “La posizione probatoria del danneggiato risulta infatti
a tale stregua aggravata, in contrasto non solo con il tenore letterale ed il
portato sostanziale della norma ma, in termini generali, anche con le stesse
scelte di fondo dell’ordinamento in materia di responsabilità civile,
rispondenti al riconosciuto favor per il soggetto che ha subito la
lesione di una propria posizione giuridica soggettiva giuridicamente rilevante
e tutelata, che, laddove non prevenuta, ne impone la rimozione o il ristoro da
parte del danneggiante. Costruzione dalla giurisprudenza a suo tempo elaborata
in ossequio a finalità socio-politiche ed economiche alla norma e alla materia
in questione in realtà estranee, e comunque ormai ( quantomeno ) non ( più )
rispondenti al prevalente sentire della coscienza sociale”. Il Collegio conclude con un ultimo passaggio del
tutto significativo, precisando: “Non potendo nemmeno tralasciarsi il rilievo
che in argomento è da riconoscersi all’obbligo di buona fede oggettiva o
correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale che trova
applicazione anche in tema di responsabiltà extracontrattuale, imponendo al
soggetto di mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento
leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso, nonché volto
alla salvaguardia dell’utilità altrui nei limiti dell’apprezzabile sacrificio,
dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi
affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi”: CORTE DI CASSAZIONE SENTENZA 14 MARZO 2006 N.
5445: CHE FINE FA L’INSIDIA? La tenuta delle argomentazioni della sentenza
3651/06 può essere verificata alla luce della successiva pronuncia n. 5445 del
14 marzo: il Collegio, nell’occasione, mantiene alti i toni del revirement
espressamente prendendo le distanze dalla consolidata giurisprudenza e
statuendo che “l’insidia determinante pericolo occulto non è invero dalla norma
di cui all’art. 2043 c.c. contemplata, trattandosi di figura di elaborazione
giurisprudenziale che, movendo da esigenze di limitazione delle ipotesi di
responsabilità, finisce tuttavia per risolversi, laddove viene a porsene la
relativa prova a carico del danneggiato, in termini di ingiustificato
privilegio per la P.A.” Il merito della sentenza 5445 è anche
quello di aver esaurito e completato l’architettura della sentenza 3651:
precisa il Collegio, infatti, che l’insidia non si spegne tout court finendo
nel passato dimenticato ma transita spostandosi dalla prova positiva del
danneggiato alla prova liberatoria della P.A. La Pubblica Amministrazione,
infatti, può liberarsi dalla responsabilità provando, per l’appunto, di aver
adottato tutte le cautele per evitare il danno e, quindi, il verificarsi di
situazioni di pericolo occulto (insidie). CONCLUSIONI: RESTYLING PER L’ART. 2051 C.C. La sentenza 3651/2006 si pone in rottura con la
tradizione interpretativa classica prendendo le distanze non solo dalle
risultanze diagnostiche della giurisprudenza consolidata di legittimità ma
anche dall’”ipse dixit” della Corte Costituzionale. Il terreno soggetto allo
smottamento del revirement non è uno solo:
Al di là della condivisione o meno delle
argomentazioni della III Sezione, non può negarsi come questa metta mano ad un
testo ricchissimo di riferimenti giurisprudenziali attraverso una pronuncia
ricognitiva particolarmente curata e motivata. Una decisione preferibile all’apodittico “non si
applica l’art. 2051 alla P.A.” divenuto prassi (inopportuna) in gran parte
della giurisprudenza di merito ed in molte statuizione di Cassazione. Quanto al merito, la decisione coglie nel segno. Sovrapporre alle norme ex lege istituti e parametri
di elaborazione pretorile conduce, inevitabilmente, ad una necrosi della
materia interessata con collasso del sistema in parte qua: come è stato per il
divieto di risarcibilità dell’interesse legittimo; come è stato per la
creazione della cd. accessione invertita e come è avvenuto per la cd. insidia.
Ancor più laddove le norme siano chiare: né ragioni latenti (più o meno
condivisibili) legittimano la creazione di uno jus singulare. Il concetto di
trabocchetto, infatti, seppur faciliti il giudizio sul piano probatorio, porta
ad una conseguenza collaterale: l’attenzione si sposta dagli obblighi che
incombevano sul custode per evitare il danno ai connotati della res per
accreditare la pretesa risarcitoria del danneggiato. Né la “colpa” della P.A.
può essere circoscritta ai meri casi di insidia anche sulla base della assolta
atipicità dei fattori che innescano l’illecito sul manto stradale. Deve essere salutata con favore anche la
ricostruzione dell’art. 2051 c.c. in termini di responsabilità cd. aggravata:
la Cassazione opera una evidente compensazione. Da un lato libera il privato
dai pesi accollati dalla giurisprudenza per salvare gli interessi portati dalla
P.A.; dall’altro facilita però, la pubblica amministrazione custode a fornire
la prova liberatoria. Una soluzione compromissoria che ha due meriti
principali: da un lato responsabilizza la P.A. in un settore così delicato e
sensibile come quello della manutenzione delle strade; dall’altro valorizza la
tutela della persona – utente della strada troppo spesso più vittima che
conducente negligente. Un unico punto debole nelle argomentazioni del
Collegio: la Corte reputa che la prova liberatoria sia fornita a mezzo della
dimostrazione di aver adottato tutte le cautele onde evitare il danno. Ma
quando il legislatore ha voluto ricostruire in siffatti termini la prova
liberatoria lo ha fatto espressamente (art. 2050 c.c.) con un tenore letterale
che non è presente nell’art. 2051 c.c.
Con atto di citazione notificato in data 13/9/1997,
i sigg.ri C. F. e A. S. convenivano avanti al Tribunale dì Reggio Calabria
l’A.N.A.S., per ivi sentirlo condannare al risarcimento dei danni patiti in
conseguenza dell’incidente stradale verificatosi il 23 gennaio 1995 in località
Bagaladi ( RC ). Esponevano al riguardo che quel giorno il F.,
mentre percorreva la SS 183 alla guida dell’autovettura Fiat 127 di proprietà
dello S., giunto all’imbocco del ponte "Tuccio" andava a collidere
contro il muretto di sostegno delimitante la carreggiata, e per effetto
dell’impatto invadeva l’altra corsia di marcia per finire quindi contro la
"spalletta" in muratura del suindicato ponte delimitante l’opposto
lato della carreggiata, "spalletta" che non resisteva all’urto
dell’autovettura, la quale pertanto precipitava nella sottostante scarpata
andando completamente distrutta, mentre il F. riportava gravi lesioni. Nella resistenza dell’ANAS l’adito Tribunale
rigettava la domanda, con integrale compensazione delle spese di lite,
escludendo in particolare l’applicabilità della responsabilità ex art. 2051
c.c. alle cose «prive di un proprio dinamismo», e ravvisando nella condotta del
F. la causa produttiva del danno, alla suddetta spalletta in muratura viceversa
assegnando «nel determinismo dell’evento» un «ruolo meramente passivo di fronte
ad una serie causale di per sé sola sufficiente a produrre l’evento dannoso
innescata dall’azione colposa dell’attore», quest’ultima in ogni caso di tale
preponderanza sul piano causale da interrompere il rapporto di causalità tra il
danno ed eventuali altri antecedenti causali, tra cui l’omessa manutenzione del
muro. La domanda veniva rigettata anche sotto il profilo
dell’art. 2043 c.c., nel ritenuto difetto della prova in ordine alla
circostanza che il muro avrebbe retto all’urto laddove oggetto di diligente
manutenzione. Il gravame interposto dal F. e dallo S. (i quali si
dolevano che il giudice di prime cure, nell’attribuire un ruolo meramente
passivo alla "spalletta" in muratura del ponte in questione, avesse
escluso l’applicabilità nel caso della presunzione di colpa sussistente ex art.
2051 c.c. in capo al custode; e contestavano che la detta opera muraria potesse
considerarsi mera occasione e non già causa di produzione del danno, attese le
condizioni di fatiscenza in cui esso era ridotto in ordine alle quali non era
stata fornita la prova liberatoria -nella sua veste di proprietaria e custode-
da parte dell’ANAS, ente in ogni caso responsabile ex art. 2043 c.c. in
presenza di non integra ed idonea recinzione), nella resistenza di quest’ultima
veniva dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria rigettato con sentenza del
5/11/2001. Avverso tale decisione i predetti ricorrono ora per
cassazione sulla base di 2 motivi, illustrati da memoria. Resiste l’ANAS con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo i ricorrenti denunziano
violazione e falsa applicazione dell’artt. 2051 c.c., del D.M. LL.PP. 4 maggio
1990 e del D.M. 18 febbraio 1992, n. 223, nonché degli artt. 40 e 41 c.p. in
relazione all’art. 360, 1° co. n. 3., c.p.c. Omessa o
insufficiente motivazione circa più punti decisivi della controversia in
relazione all’art. 360, 1° co. n. 5, c.p.c. Si dolgono in particolare che la corte di merito
abbia erroneamente escluso l’applicabilità nella specie dell’art. 2051 c.c.,
sulla base di una valutazione "aprioristica" ed apodittica, senza le
debite verifiche del caso, omettendo in particolare di considerare lo stato dei
luoghi. A tale stregua invero disattendendo le indicazioni di Corte Cost. n.
156 del 1999, la quale ha escluso potersi aprioristicamente negare l’applicabilità
dell’art. 2051 c.c. nei confronti dei beni appartenenti al demanio stradale,
viceversa richiedendo che venga dal giudice condotta un’indagine con
riferimento al singolo caso concreto, secondo criteri di normalità. Lamentano essere rimasto infatti privo di
valutazione il dato di fatto, indicato nel rapporto della Polizia stradale e
raffigurato nella prodotta documentazione fotografica, che trattasi nel caso di
ponte rettilineo sito sull’omonimo torrente "Tuccio", di altezza di
m. 12,40, munito di «muretto di sostegno protezione formato da paletti
verticali in cemento armato e paletti in ferro posti in modo orizzontale», in
relazione al quale risultava sussistere esclusivamente
«segnaletica verticale indicante lunghezza ponte m. 100». Trattandosi di opera di natura specifica e di
limitata estensione territoriale, essa ben si prestava, deducono altresì i
ricorrenti, al controllo da parte dell’Anas. Lamentano, ancora, la mancata considerazione da
parte dei giudici di merito che l’omessa manutenzione del ponte in questione ed
il conseguente processo degenerativo del medesimo nel corso degli anni, di cui
viene dato atto nel rapporto della Polizia stradale ( ove si indica che «il
muro di protezione del ponte Tuccio, costruito ai tempi di Mussolini, mai
ristrutturato, lascia a desiderare, creando gravi pericoli alla circolazione
stradale» ) nonché riscontrabili mediante la suindicata documentazione
fotografica, aveva reso intrinsecamente pericolosa, privandola di ogni
efficienza e rendendola inidonea alle sue funzioni, la relativa barriera
protettiva. A tale stregua, essi censurano, è rimasto
ulteriormente disatteso l’art. 9 del D.M. LL.PP. 4 maggio 1990, n. 5, il quale
analiticamente disciplina la gestione dei ponti stradali, esplicitandola
nell’attività di vigilanza, di ispezione e di manutenzione ordinaria e
straordinaria; nonché in interventi di statica, restauro, adeguamento e
ristrutturazione. Prescrive altresì ( comma 3 ) un periodico accertamento delle
condizioni di stabilità dell’opera, dei suoi elementi strutturali e dello stato
di conservazione anche delle parti accessorie; ed indica ( comma 4 ) quali sono
le opere ordinarie e straordinarie, contemplando anche il ripristino di parti
strutturali in calcestruzzo armato, la protezione delle armature scoperte, estese
ad ampie zone e la protezione dei calcestruzzi da azioni disgreganti ( gelo,
sali solventi, ambiente aggressivo, ecc. ) necessari a mantenere l’opera nella
sua piena efficienza nel rispetto delle caratteristiche originarie. Dalle circostanze del caso concreto emerge quindi
evidente, affermano i ricorrenti, il nesso di causalità tra cosa ed evento
richiesto dall’art. 2051 c.c., atteso che il parapetto del ponte ha
precipuamente la funzione di garantire la sicurezza della circolazione dei
veicoli, sostanziantesi nel contenimento dei veicoli che tendono alla
fuoriuscita dalla carreggiata stradale. La ritenuta «inapplicabilità "a priori"»
dell’art. 2051 c.c. ha d’altro canto comportato, essi ulteriormente censurano,
l’omesso accertamento della mancata prova del fortuito da parte dell’ANAS. Si dolgono, ancora, che l’impugnata sentenza
risulti affetta da carenza di motivazione anche in ordine al nesso di
causalità, con particolare riferimento alla mancanza di prova da parte
dell’Anas che nel comportamento del danneggiato fosse nel caso riscontrabile
l’efficacia causale esclusiva dell’evento. Ed escludono che quest’ultimo
potesse considerarsi imprevedibile ed inevitabile, secondo quanto richiesto
dall’art. 2051 c.c. per la configurabilità del caso fortuito, unica esimente
della reponsabilità del custode, in quanto lo sbandamento ed il conseguente
urto di un veicolo contro il parapetto del ponte non possono considerarsi
eventi imprevedibili od eccezionali per il custode, atteso che la presenza
stessa della barriera di protezione li rende prevedibili. Per effetto dell’intrinseca pericolosità assunta in
ragione del processo degenerativo subito negli anni, che l’aveva reso inidoneo
a garantire la sicurezza per l’utente stradale, il parapetto in questione ha
per converso assunto, essi sostengono, incidenza causale di per sé sola
sufficiente a determinare la produzione dell’evento dannoso. Decisivo rilievo al riguardo assume anche la
circostanza che -come indicato nel rapporto della Polizia-, nel caso la breccia
si è infatti aperta non già nel punto del primo bensì in quello del secondo
impatto,verso il quale l’autovettura era stata rimbalzata ad una velocità (
stimata dal consulente di parte come non superiore a 55 KM orari ) sicuramente
meno intensa di quella dall’autovettura mantenuta in occasione del primo urto. Se da un canto è allora desumibile che il veicolo
in questione non può avere nella specie assunto rilevanza causale esclusiva
nella verificazione dell’evento ( altrimenti il muro sarebbe crollato al primo
impatto e non al secondo ) , da altro canto si evince, essi affermano, che la
barriera di protezione ha ceduto là dove il processo degenerativo era più
avanzato. Se fosse stato adeguato ai dettami di legge già
anteriormente all’evento, e non solo successivamente, all’esito della tardiva
sostituzione -in corso di causa- con dei guard-rail, il parapetto in
questione, deducono i ricorrenti, avrebbe invero retto non solo all’«urto di un
auto ma anche a quello di un camion». Lungi dall’assurgere al rango di causa esclusiva
dell’evento, concludono sul punto, la presunta condotta colposa del F. avrebbe
potuto pertanto al più, ove dimostrata, assumere rilievo concorrente con lo
stato di omessa manutenzione della barriera di protezione. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano
violazione dell’art. 2043 ce, in relazione all’art. 360,1° co. n. 3, c.p.c.
Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo
della controversia, in relazione all’art. 360, 1° co. n. 5, c.p.c. Sostengono che l’impugnata sentenza è invero
censurabile là dove non ha riconosciuto la responsabilità civile dell’Anas
nemmeno sotto il dedotto profilo della violazione del principio del neminem
laedere ex art. 2043 c.c. Quale soggetto proprietario o gestore della
barriera di protezione a tutela dell’affidamento dell’utente, l’Anas è infatti,
essi deducono, in ogni caso a tale titolo responsabile ogniqualvolta, come nel
caso, «esista e non sia integra idonea recinzione». La barriera di protezione, proprio in ragione delle
sue condizioni di deficienza, aveva nella specie insiti i caratteri
dell’insidia o pericolo occulto, giacché l’utente della strada fa legittimo
affidamento sulla relativa idoneità. D’altro canto la stessa Anas, osservano i
ricorrenti nella memoria illustrativa, non nega ed anzi esplicitamente ammette
che sulle "strutture" erette ai lati della sede stradale deve essere
esercitata un’adeguata attività di vigilanza e controllo non diversamente da
quella che normalmente viene effettuata con riferimento al bene di cui le medesime
costituiscono pertinenza o accessorio. Al riguardo, pongono in rilievo, il detto ente
invoca le «particolari caratteristiche» della strada in questione, affermando
che la medesima «non muta anche se un tratto ... non è posizionato su
terraferma ma passa su ponte». Ma, osservano, della mancata considerazione delle
peculiari caratteristiche del bene in questione sono invero proprio essi
ricorrenti a dolersi per primi, giacché la corte di merito ha nel caso
aprioristicamente escluso l’applicabilità della detta norma sulla base della
mera considerazione della natura demaniale del bene, del relativo uso diretto
da parte della collettività, e della sua notevole estensione. I due motivi di ricorso possono essere
congiuntamente esaminati, essendo logicamente connessi. Le censure sono fondate e vanno accolte nei termini
che si verranno esponendo. La vicenda in questione ripropone la vexata
quaestio del tipo e dell’ambito della disciplina applicabile in caso di
incidente avvenuto su strada pubblica, e della possibilità di configurarsi al
riguardo una responsabilità, concorrente od esclusiva, dell’ente che della
stessa e delle relative pertinenze è proprietario o custode. La censura degli odierni ricorrenti si incentra
essenzialmente sulla "aprioristicamente" ravvisata inapplicabilità
nel caso, trattandosi di strada statale che passa su un ponte, della
responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c. Rimane a tale stregua disatteso, lamentano i
ricorrenti, il più recente orientamento di questa Corte e della più avvertita
dottrina, oltre che quanto al riguardo indicato da Corte Cost. n. 156 del 1999. Trattasi in effetti di argomento che ha costituito
più volte oggetto, anche recentemente, di pronunzie da parte di questa Corte,
ed in ordine al quale sono andati invero delineandosi differenti linee
interpretative. Va anzitutto in termini generali osservato che
l’assoggettamento della P.A. alle regole del diritto privato, e la
considerazione della medesima su un piano di parità con gli altri soggetti
quando agisce iure privatorum nell’ambito dei comuni rapporti della vita
di relazione, risponde ormai ad un’esigenza pienamente avvertita dalla
coscienza sociale. Riflesso di una crescita e di una progressiva maturazione
della concezione degli status e dei rapporti intersoggettivi, la
(ri)considerazione della posizione della P.A. continua a proporsi come
indefettibile momento di valutazione e controllo del processo di evoluzione e
dello stadio di attuazione sul piano giuridico del corrispondente percorso
ideale. Nello svolgersi di tale iter, che non può dirsi
invero ancora compiuto, valore significativo e pregnante assume la riconosciuta
applicabilità alla P.A. dì regole e principi fondamentali come, in particolare,
quello dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nei rapporti contrattuali
( v. Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 7 aprile 1992, n. 4226; Cass., 10
dicembre 1987, n. 9129; Cass., 9 maggio 1983, n. 3152; Cass., Sez. Un., 11
gennaio 1977, n. 93; Cass., 21 ottobre 1974, n. 2972; Cass., 30 gennaio 1968,
n. 297; Cass., 11 ottobre 1963, n. 2711. Contra v. Cass., 4 ottobre
1974, n. 2603); delle regole in tema di arricchimento senza causa (v. Cass., 15
giugno 2005, n. 12850; Cass., 23 luglio 2003, n. 11454; Cass., 29 aprile 1998,
n. 4364; Cass., 12 settembre 1992, n. 10433; Cass,, 12 settembre 1992, n. 7694;
Cass., 20 marzo 1991, n. 2965; Cass., 19 maggio 1983, n. 3450; Cass., 17
novembre 1981, n. 6094; Cass., 12 marzo 1973, n. 685 ); di responsabilità civile
precontrattuale (v. Cass., 18 giugno 2005, n. 13164; Cass., 10 giugno 2005, n.
12313; Cass., 12 marzo 1993, n. 2973; Cass., 10 dicembre 1987, n. 9129; Cass.,
11 dicembre 1978, n. 5831; Cass., 8 febbraio 1972, n. 330; Cass., 28 settembre
1968, n. 3008. Contra v. Cass., 4 aprile 2001, n. 4938; Cass., 7 marzo 2001, n.
3272; Cass., 14 marzo 1985, n. 1987; Cass., 6 ottobre 1993, n. 9892; Cass., 29
luglio 1987, n. 6545 ) ed extracontrattuale (con riferimento all’esercizio di
attività pericolose v., in particolare, Cass., 4 aprile 1995, n. 3935; Cass.,
1° aprile 1995, n. 3829; Cass., 27 febbraio 1984, n. 1393; Cass., 27 gennaio
1982, n. 537. Contra v. Cass., 4 gennaio 1964, n.3). L’evoluzione in questione è stata caratterizzata in
effetti non già da modifiche legislative o decisivi interventi della Corte
Costituzionale, bensì essenzialmente da una diversa lettura operata nel tempo
dalla giurisprudenza di norme rimaste immutate nel loro tenore testuale. Si colloca in tale quadro la problematica afferente
l’applicabilità alla P.A. delle norme in tema di responsabilità aquiliana ex
art. 2043 c.c. e di responsabilità per i danni provocati da cose in custodia di
cui all’art. 2051 c.c. ( come pure in tema di concorso di colpa ex art. 1227,
1° co., c.c. ) che nel caso in esame vengono specificamente in rilievo. Recenti sentenze di questa Corte si sono fatte
carico ( anche ) di ripercorrere brevemente l’evoluzione degli orientamenti
interpretativi della giurisprudenza di legittimità in argomento. Allorquando il suindicato iter ha avuto
inizio, nell’assoggettare la P.A. -laddove non agisce discrezionalmente quale
autorità dotata di poteri speciali a tutela degli interessi che la sua attività
è razionalizzata a salvaguardare bensì opera iure privatorum sul piano
dei comuni rapporti della vita di relazione- al rispetto delle norme che tali
rapporti disciplinano, con particolare riferimento alle strade questa Corte (v.
Cass., 1° dicembre 2004, n. 22592; Cass., 3 dicembre 2002, n. 17152) ha posto
in rilievo che inizialmente l’applicabilità alla P.A. della responsabilità ex
art. 2051 c.c. è rimasta senz’altro esclusa, al riguardo riconoscendosi al più
applicabile il generale principio del neminem laedere di cui all’art.
2043 c.c. (v. Cass., 29 novembre 1966, n. 2806; Cass., 5 febbraio 1969, n. 385;
Cass., 23 gennaio 1975, n. 260; Cass., 13 febbraio 1978, n. 671. Più
recentemente v. anche, con riferimento alle strade ferrate, Cass., 23 luglio
1991, n. 8244) . Nell’affermare conseguentemente necessaria la
predisposizione di accorgimenti tecnici volti ad evitare danni a terzi, nonché
la valutazione del comportamento colposo generatore del danno per violazione di
specifici doveri di comportamento stabiliti da norme di legge o di regolamento
( che per quanto attiene alle strade si traduce nell’obbligo di controllo,
vigilanza manutenzione in modo tale da evitare che possa scaturirne danno per
gli utenti che sullo stato di praticabilità delle stesse ripongono ragionevole
affidamento), la giurisprudenza è andata d’altro canto elaborando il concetto
di insidia o trabocchetto determinante un pericolo occulto, per il carattere
oggettivo della non visibilità e soggettivo della non prevenibilità ( v. Cass.,
28 gennaio 2004, n. 1571; Cass., 8 novembre 2002, n. 15710; Cass., 21 dicembre
2001, n. 16179, Cass., 17 marzo 1998, n. 2850; Cass., 12 gennaio 1996, n. 191.
V. anche Cass., 20 giugno 1997, n. 5539. E già Cass., 24 novembre 1969, n, 3816
e Cass., 21 giugno 1969, n. 2244 ) . Il medesimo pervenendo a considerare quale
«elemento sintomatico della attività colposa dell’amministrazione, ricorrente
allorché la strada nasconde un’insidia non evitabile dall’utente con
l’ordinaria diligenza», fino ad indicarlo in termini di «indice tassativo ed
ineludibile della responsabilità della P.A.» ( v. la citata Cass., 1° dicembre
2004, n. 22592 ). Della ricorrenza dell’insidia o trabocchetto,
nonché della carenza o dell’inadeguatezza della prescritta attività di
controllo, vigilanza e manutenzione da parte della P.A, l’onere della prova è
stato peraltro addossato al danneggiato ( v. Cass., 4 giugno 2004, n. 10654;
Cass., 30 luglio 2002, n. 11250; Cass., 12 giugno 2001, n. 7938; Cass., 17
marzo 1998, n. 2850 ), asseritamente in ossequio alla regola generale in tema
di responsabilità civile extracontrattuale secondo cui la prova degli elementi
costitutivi dell’illecito è a carico del danneggiato. Trovando altrimenti
applicazione il principio dell’autoresponsabilità ( richiamato da Corte Cost.
n. 156 del 1999 ). Successivamente la responsabilità per danni da cose
in custodia ex art. 2051 c.c. è stata ritenuta configurabile anche nei
confronti della P.A. ( v. Cass,, 14 ottobre 1970, n. 2020; Cass., 3 giugno
1982, n. 3392; Cass., 27 gennaio 1988, n. 723; Cass., 21 maggio 1996, n. 4673;
Cass., 1998, n. 11749; Cass., 22 aprile, 1998, n. 4070 ), seppure limitatamente
ai beni demaniali o patrimoniali di non notevole estensione e non suscettibili
di generalizzata e diretta utilizzazione da parte della collettività ( v.
Cass., 30 ottobre 1984, n. 5567). L’applicabilità dell’art. 2051 c.c. è stata
pertanto affermata con riferimento a beni che consentono in concreto un
controllo ed una vigilanza idonea ad impedire l’insorgenza di cause di
pericolo, tali considerandosi la villa comunale (v. Cass., 7 gennaio 1982, n.58
); la rete fognaria ( v. Cass., 2 aprile 2004, n. 6515; Cass., 4 aprile 1985,
n. 2319 ); la galleria di una stazione ferroviaria destinata esclusivamente al
personale dell’amministrazione e protetta da un cancello ( v. Cass., 20 marzo
1982, n. 1817 ) ; le pertinenze e gli arredi della stazione ferroviaria,
funzionalizzati allo scopo di consentire l’uscita dei passeggeri dalla medesima
( v. Cass., 1° luglio 2005, n. 14091 ) ; il trefolo e la fune di guardia di una
linea elettrica ad alta tensione di proprietà dell’Enel ( v. Cass., 15 gennaio
1996, n. 265 ); l’albero del cimitero comunale (con riferimento ad una
fattispecie di crollo su cappella gentilizia di privato v. Cass., 21 gennaio
1987, n. 526 ). Stante l’uso generale e diretto consentito a
chiunque, e l’estensione della rete, si è infatti considerato praticamente
impossibile l’esercizio da parte della P.A. di un continuo ed efficace
controllo idoneo ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo per i terzi in
relazione a beni del demanio marittimo, fluviale, lacuale, ed a strade,
autostrade, strade ferrate appartenenti allo Stato ( v. Cass., 27 marzo 1972,
n. 976; Cass., 30 ottobre 1984, n. 5567, Cass., 28 ottobre 1998, n. 10759;
Cass., 31 luglio 2002, n. 11366; Cass., 25 novembre 2003, n. 17907. Da ultimo
v. Cass., 7 febbraio 2005, n. 2410; Cass., 27 gennaio 2005, n. 1655; Cass., 8
aprile 2004, n. 6515. V. anche Cass., 25 novembre 2003, n. 17907; Cass., 31
luglio 2002, n. 11366; Cass., 9 luglio 2002, n. 10577; Cass., 26 gennaio 1999,
n. 699; Cass., 22 aprile 1998, n. 4070; Cass., 16 giugno 1998, n. 5990; Cass.,
27 dice
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