Nessun ingiustificato privilegio per la P.A. e,
dunque, nessun insidia gravante sul danneggiato. Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione si
colloca nel filone giurisprudenziale inaugurato dalla sentenza 3651/2006,
fautrice di un revirement in materia di responsabilità della P.A. per omessa
manutenzione delle strade: Nella fattispecie la difesa dell’amministrazione
eccepiva che la propria responsabilità “poteva essere affermata esclusivamente
in ipotesi di esistenza di un’insidia o trabocchetto” e la Corte replica che
“diversamente da quanto dall’odierna ricorrente dedotto in conformità a
principio da questa Corte in effetti costantemente affermato e che il collegio
ritiene peraltro di non poter condividere, l’insidia determinante pericolo
occulto non è invero dalla norma di cui all’art. 2043 c.c. contemplata,
trattandosi di figura di elaborazione giurisprudenziale che, movendo da
esigenze di limitazione delle ipotesi di responsabilità, finisce tuttavia per
risolversi, laddove viene a porsene la relativa prova a carico del danneggiato,
in termini di ingiustificato privilegio per la P.A.”. “La posizione probatoria del danneggiato risulta infatti
a tale stregua aggravata, in contrasto non solo con il tenore letterale ed il
portato sostanziale della norma ma anche con le stesse scelte di fondo
dell’ordinamento in materia di responsabilità civile, rispondenti al
riconosciuto favor per il soggetto che ha subito la lesione di una
propria posizione giuridica soggettiva giuridicamente rilevante e tutelata,
che, laddove non prevenuta, ne impone la rimozione o il ristoro da parte del
danneggiante.Costruzione dalla giurisprudenza a suo tempo elaborata in
ossequio a finalità socio-politiche ed economiche alla norma e alla materia in
questione sono tuttavia in realtà estranee, e comunque ormai ( quantomeno )
non ( più ) rispondenti al prevalente sentire della coscienza sociale”. Ciò precisato, la Corte precisa che l’insidia o
trabocchetto può sul piano probatorio considerarsi viceversa rilevante laddove
al proprietario di strade pubbliche è consentito dare la cd. prova
liberatoria, dimostrando cioè di avere adottato tutte le misure idonee a
prevenire ed impedire che il bene demaniale presenti per l’utente una
situazione di pericolo occulto produttiva di danno a terzi, con lo sforzo
diligente adeguato alla natura della cosa e alle circostanze del caso
concreto, al fine di fare in sostanza valere la propria mancanza di colpa e, se
del caso, il concorso di colpa del danneggiato. (Altalex, 26 maggio 2006. Nota di Giuseppe Buffone. Cfr. Cass., sez. III, sentenza n. 3651/2006) SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 14 marzo 2006, n. 5445 (Presidente V. Duva - Relatore L. A.
Scarano)
La sig.ra A. F., in proprio e nella qualità di
genitore esercente la potestà sui figli minori M. e C. D., conveniva avanti al
Tribunale di Oristano la Provincia di Nuoro, per ivi sentirla condannare al
risarcimento dei danni morali e materiali subiti a causa della morte del marito
G., padre dei suindicati minori, avvenuta per incidente occorso sulla strada
provinciale n. 35, tratto Madolo - Magomadas, allorquando alla guida di
un’autobetoniera Astra, prima di immettersi nella proprietà C., asseritamente
sostava sul ciglio destro della carreggiata con la ruota posteriore destra
sulla banchina che, sotto il peso dell’autocarro, franava, precipitando nella
sottostante scarpata. Nella resistenza dell’Amministrazione convenuta,
che contestava il fondamento della domanda, e della società Levante
Assicurazioni s.p.a., da quest’ultima chiamata in causa in garanzia, che
chiedeva il rigetto della domanda o in subordine di tenere la Provincia indenne
dalle conseguenze di lite nei limiti del massimale di polizza di £ 500.000.000
per ciascuna persona deceduta, l’adito tribunale accoglieva la domanda, condannando
la Provincia al pagamento dei danni in misura di £ 340.000.000 in favore della
F., di £ 275.000.000 per il figlio M. e in £ 225.000.000 per il figlio C.o,
dichiarando la società Levante tenuta a garantire il pagamento delle
suindicate somme fino a £ 500.000.000. Interposto gravame dalla Provincia di Nuoro -che
nel merito censurava in particolare la ritenuta sussistenza in capo a sé
dell’obbligo di apporre la segnaletica longitudinale su quel tipo di strada e
di curarne la manutenzione "al fine di evitare la presenza di pericoli
occulti", deducendo che, esclusa l’applicazione dell’art. 2051 c.c., non
era stato per converso dagli attori assolto l’onere su di essi incombente di
provare il pericolo occulto, nonché l’uso improprio della banchina preclusa al
traffico veicolare-, con sentenza del 25 luglio 2001 la Corte d’Appello di
Cagliari, nel precisare il fatto oggetto di lite nel senso che in occasione
dell’incidente il defunto D. non aveva effettuato una vera e propria sosta
sulla banchina ma si era accostato lentamente al margine destro della carreggiata
occupando la detta banchina con le ruote posteriori per circa un metro e dieci
dal margine della carreggiata medesima al fine di raggiungere lo spiazzo
ghiaioso sito poco più avanti, rigettava l’appello con condanna alla rifusione
delle spese di lite del grado in favore della parte appellata, in solido con la
società Levante, disponendo invece la compensazione per quelle tra le
medesime. Avverso tale sentenza della corte di merito propone
ora ricorso per cassazione la Provincia di Nuoro, affidandolo a cinque motivi. La F., per sé e nella qualità, ha presentato
controricorso non notificato alle controparti e spedito per posta, ma il
difensore è stato ammesso alla discussione orale della causa. L’intimata società Levante Assicurazioni s.p.a. non
ha svolto difese. MOTIVI DELLA DECISIONE Va preliminarmente osservato che in sede di discussione
orale il difensore della F. ha eccepito essere il di lei figlio minore C.o
divenuto maggiorenne in corso di causa. Orbene, come è stato dalle Sezioni Unite di questa
Corte affermato a componimento del contrasto interpretativo al riguardo in
precedenza insorto ( v. Cass., Sez. Un., 20 /10/2005, n. 20322 ), nonché
successivamente anche dalle sezioni semplici ribadito ( v. Cass., 16/11/2005,
n. 23082; Cass., 14/10/2005, n. 19979 ), è inammissibile l’impugnazione
proposta nei confronti di soggetto minore divenuto maggiorenne nelle more del
giudizio notificata non a lui personalmente ma ai suoi genitori nella qualità
di esercenti la potestà, anche laddove l’evento non sia stato dichiarato né
notificato, in quanto lo stato di incapacità per minore età è per sua natura
temporaneo, e il raggiungimento della maggiore età, costituendo un evento
prevedibile nell’an e nel quando, è sottratto a forme di pubblicità. Nel caso in esame il ricorso per cassazione
proposto nei confronti del C.o D. risulta dalla Provincia di Nuoro in effetti
notificato non già al medesimo personalmente bensì alla di lui madre, quale
esercente la potestà, A. F., e il ( sopravvenuto ) difetto di legittimazione
processuale della medesima non è stato dall’interessato sanato ( con efficacia
retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti )
mediante costituzione in giudizio ed espressione di inequivoca manifestazone
della propria volontà in tal senso (cfr. Cass., 14/12/2004, n. 23291) . Il ricorso per cassazione proposto nei confronti
del medesimo va pertanto dichiarato inammissibile. Con il primo motivo l’Amministrazione ricorrente,
denunziando violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto in
relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. nonché omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia in relazione
all’art. 360 n. 5 c.p.c, lamenta in particolare l’erronea qualificazione
giuridica del tratto erboso a destra della sede stradale come
"banchina", deducendo che trattandosi di strada extraurbana locale, e
non già di sopraelevata, l’elemento marginale costituito da una striscia erbosa
deve essere correttamente indicato come "arginello". Con il secondo motivo denunzia violazione e/o falsa
applicazione dell’art. 3 n. 7 e dell’art. 158, comma 2 lett. f) , cod. strada,
deducendo che la prima disposi-zione destina alla circolazione esclusivamente
la carreggiata, mentre la seconda fa divieto di sosta o fermata sulle
banchine, salvo diversa disposizione. Con il terzo motivo denunzia violazione e/o falsa
applicazione dell’art. 2697 c.c., nonché omessa insufficiente e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, deducendo
che se è vero che in ipotesi di emergenza possono essere superati i limiti
costituiti dalla normativa richiamata, deve essere peraltro data la prova della
necessità di impegnare il margine erboso, onere nel caso viceversa non assolto,
con omissione di motivazione sul punto. Con il quarto motivo denunzia violazione e/o falsa
applicazione dell’art. 2043 c.c., nonché omessa insufficiente e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, deducendo
che la sua responsabilità in ordine all’accaduto può essere affermata
esclusivamente in ipotesi di esistenza di insidia o trabocchetto, che non può
d’altro canto farsi discendere dalla «mancanza di segnalazione del pericolo di
frana del ciglio erboso». I motivi possono essere trattati congiuntamente, in
quanto intimamente connessi. Va al riguardo osservato che la giurisprudenza di
legittimità ha da tempo avuto modo di affermare e pre-cisare che l’ente
pubblico proprietario di una strada extraurbana ha l’obbligo di mantenere in
buono stato di manutenzione anche la zona non asfaltata, posta a livello tra i
margini della carreggiata stradale e i limiti della sede stradale, definita
"banchina" ( v. Cass., 9/1/2002, n. 203; Cass., 19/7/2002, n. 10577
). Tale zona fa infatti parte della struttura della
strada ( v. Cass., 16/4/1993, n. 4533 ) , e la relativa utilizzabilità, anche
per sole manovre saltuarie di breve durata, pone esigenze di sicurezza e
prevenzione analoghe a quelle che valgono per la carreggiata. Anche essa, come
quest’ultima, non deve invero presentare per l’utente insidie o trabocchetti,
con conseguente imputabilità alla P.A. dei danni che ne siano derivati ( v.
Cass., 25/2/1997, n. 2707 ). Sebbene non pavimentata, tale zona, in assenza di
specifica segnalazione di segno contrario, suscita infatti negli utenti, anche
per la sua apparenza esteriore, affidamento di consistenza e di sicura
transitabilità ( cfr. Cass., 30/1/1979, n. 678 ). Orbene, la corte di merito ha fatto puntuale applicazione
dei suindicati principi. Del tutto correttamente la corte di merito ha
nell’impugnata sentenza affermato che proprio la situazione di apparente
transitabilità ( anche ) di tale zo-na ai margini della strada ha nel caso per
il defunto D. integrato gli estremi dell’insidia. Sicché laddove deduce violazione nonché vizio dì
motivazione con riferimento alla ravvisata sua responsabilità ex art.
dell’art. 2043 c.c., emerge con tutta evidenza come, nel sostenere che «la
mancanza di segnalazione di pericolo di frana del ciglio erboso non può essere
considerato alla stregua dell’insidia o trabocchetto, dato che la natura e la
configurazione del terreno sul lato destro della strada era tale da far
ritenere lo stesso non idoneo in modo assoluto alla circolazione e alla sosta
neppure temporanea e/o di emergenza>>, l’amministrazione ricorrente si
limita in realtà a prospettare un’affermazione contraria all’accertamento compiuto
e all’avviso espresso dai giudici di merito, con formulazione invero
apodittica. A meno di non doversi tali censure intendere come sottendenti la
prospettazione di una diversa realtà dei luoghi in questione, nel qual caso
esse non sfuggirebbero tuttavia ad un giudizio di relativa inammissibilità in
questa sede. Né per altro verso viene nella specie in rilievo la
diversa figura del "ciglio erboso", dal giudice dell’impugnazione di
merito essendo un tanto stato escluso all’esito di specifica disamina con
esauriente e congrua motivazione, in particolare precisandosi come, attesa
l’opportunità di «fare chiarezza sullo stato dei luoghi e sulle circostanze di
fatto accertate in causa, rilevanti per la decisione», sia emerso ( dalla
planimetria allegata al rapporto della Polstrada e dalle fotografie agli atti
) che «sulla destra della carreggiata asfaltata già percorsa dal D., nel
tratto di strada rettilineo dopo la curva, corre parallela una striscia in
terra battuta che ha le caratteristiche di una banchina, definendosi tali, ai
sensi dell’art. 3 n. 4 del nuovo C.d.S. "la parte della strada compresa
tra il margine della carreggiata e il più vicino tra i seguenti elementi
longitudinali: marciapiede, spartitraffico, arginello, ciglio interno della
cunetta, ciglio superiore della scarpata nei rilevati"». Parte di strada che la corte di merito ha indicato
trovarsi proprio tra il margine della carreggiata e il ciglio superiore della
scarpata», concludendo che essa «è, pertanto, una banchina». Espressamente valutando
come non pertinenti «i richiami fatti dall’Amministrazione provinciale al
ciglio erboso per qualificare l’area in questione e trarne conseguenze non
condivisibili sulla mancanza di ogni responsabilità». Così come non vincolanti, ha essa ulteriormente
sottolineato, sono le qualificazioni date dalla Polstrada nel rapporto agli
atti». Atteso quanto sopra, l’ente proprietario di strade
pubbliche ha l’obbligo di relativa manutenzione ( art. 16 L. 20 marzo 1865, n.
2248 All. F; art. 14 cod. str.;per le strade comunali e provinciali, art. 28
L. 20 marzo 1865, n. 2248 All. F; per i Comuni, art. 5 R.D. 15 novembre 1923,
n. 2506 ), nonché l’obbligo di prevenire e, se del caso, di segnalare
qualsiasi situazione di pericolo o di insidia inerente non solo alla sede
stradale ma anche alla zona non asfaltata sussistente ai limiti della medesima
( v. Cass., 19/7/2002, n. 10577; Cass., 25/2/1997, n. 2707 ). Vale anzitutto rilevare che la diversa qualificazione
della striscia di terreno non asfaltato ai limiti della sede stradale in
termini di «arginello>> prospettato dall’impugnante nel ricorso, a parte
i profili di relativa novità ( trattandosi di prospettazione formulata per la
prima volta nel presente giudizio di cassazione a fronte della specifica
qualificazione, in rigetto della dedotta -in sede di gravame di merito-
con-figurabilità nel caso della diversa figura del "ciglio erboso" )
, risulta in ogni caso priva di pregio, giacché al di là della definizione
qualificatoria ( la "banchina", come detto, già contemplata dall’art.
2 d.p.r. 15 giugno 1959 n. 393, è all’art. 3, n. 4, d.lgs. n. 285 del 1992
definita come «la parte della strada compresa tra il margine della carreggiata
e il più vicino tra i seguenti elementi longitudinali: marciapiede, spartitraffico,
arginello, ciglio interno della cunetta, ciglio superiore della scarpata nei rilevati»
) , non vi è nel caso dubbio in ordine alla realtà ontologica della zona che
viene nel caso in rilievo, dalla corte di merito nell’impugnata sentenza ( v.
p. 11 sent. ) indicata, sulla base in particolare dal rapporto della Polstrada
e dalle fotografie in atti, quale «striscia in terra battuta che ha le caratteristiche
di una banchina»; «parte di strada ... tra il margine della carreggiata e il
ciglio superiore della scarpata», in apparente stato di transitabilità sul
quale il defunto D. aveva fatto ragionevole affidamento ( v. p. 13 sent. ). Pregio non può invero riconoscersi nemmeno alla
censura dalla Provincia ricorrente formalizzata sotto il profilo della
violazione o falsa applicazione dell’art. 2967 c.c. nonché vizio di
motivazione in ordine alla mancata prova della necessità di «impegnare»,
nella specie, «il manto erboso» de quo. A parte la considerazione che alla stregua
dell’acquisito quadro probatorio ( e in particolare della deposizione del teste
oculare O.: v. p. 12 sent. ) il giudice d’appello ha escluso la ricorrenza nel
caso della fattispecie della «sosta» ( benché dalla stessa F. dedotta nei
propri scritti difensivi introduttivi della lite ) , essendo rimasto accertato
che nel caso il D. pose in essere una manovra di lento accostamento a destra
sulla banchina, ove transitava con le ruote posteriori «ad un metro e dieci dal
margine della carreggiata», va osservato che seppure la suddetta prova
dell’eccezionalità e della necessità è stata a volte richiesta ( v. Cass.,
16/4/1993, n. 4533; Cass., 26/9/1979, n. 4973 ), si è d’altro canto da questa
Corte precisato che l’obbligo di non invadere le banchine attiene all’uso
normale della strada, e non anche alle manovre saltuarie e di breve durata( v.
Cass., 25/2/1997, n. 1707 ), come appunto quella che ne occupa. La corte di merito ha anzi qualificato come «corretta»
tale «manovra», consistita nell’ «allargarsi un po’ sulla destra per
raggiungere lo spiazzo suddetto seguendo l’andamento naturale della stessa
banchina che si allarga man mano che si avvicina allo spiazzo». Pervenendo a
concludere che «ha ragione il primo giudice a ritenere che è stata l’area
adiacente la carreggiata asfaltata a cedere», e non già come diversamente
assunto dall’allora appellante ed odierna ricorrente amministrazione
provinciale, «la fase terminale della "banchina erbosa non
percorribile" ( come definita nel rapporto della Polstrada ) o
"terrapieno di contenimento della carreggiata" ( come definito dal
rapporto della U.S.L. )». La betoniera, ha accertato infatti la corte di merito
dandone specifica e congrua motivazione, «si è tenuta all’interno della
banchina impegnandola per poco più di un metro con le ruote posteriori, che non
risultano affatto "lambire" il limite superiore della scarpata ( v.
planimetria agli atti ) , atteso che rimane ancora sulla loro destra un tratto
di terreno pianeggiante» ( v. p. 12 sent. ). Orbene, non risultando prospettata la questione concernente
l’applicabilità nel caso dell’art. 2051 c.c., la viceversa dedotta violazione
dell’art. 2043 c.c. si connota invero in termini di infondatezza, avendo il
giudice correttamente affermato, in ossequio a principio consolidato in
giurisprudenza di legittimità, che la P.A. incontra limiti al suo agire
discrezionale nell’obbligo di vigilanza e controllo dei beni demaniali
derivanti dalle norme di legge e di regolamento, nonché dalle norme tecniche e
da quelle di comune prudenza e diligenza, e, in particolare, dalla norma
primaria e fondamentale del neminem laedere, in applicazione della quale
essa è tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti per l’utente una
situazione di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile, che dia
luogo al cosiddetto trabocchetto o insidia stradale ( da ultimo v. Cass.,
4/6/2004, n. 10564 ). Correttamente la corte d’appello ha pertanto fatto
nel caso discendere dalla mancanza di segnalazione la sussistenza di
un’insidia. Va al riguardo anzitutto disattesa la doglianza
secondo cui la responsabilità dell’amministrazione provinciale poteva essere
affermata esclusivamente in ipotesi di esistenza di un’insidia o trabocchetto. Deve infatti al riguardo precisarsi che, diversamente
da quanto dall’odierna ricorrente dedotto in conformità a principio da questa
Corte in effetti costantemente affermato e che il collegio ritiene peraltro di
non poter condividere, l’insidia determinante pericolo occulto non è invero
dalla norma di cui all’art. 2043 c.c. contemplata, trattandosi di figura di
elaborazione giurisprudenziale ( cfr. Cass., 9 novembre 2005, n. 21684; Cass.,
13 luglio 2005, n. 14749; Cass., 17 maggio 2005, n. 6767; Cass., 25 giugno
2003, n. 10131 ) che, movendo da esigenze di limitazione delle ipotesi di
responsabilità, finisce tuttavia per risolversi, laddove viene a porsene la
relativa prova a carico del danneggiato, in termini di ingiustificato
privilegio per la P.A. La posizione probatoria del danneggiato risulta infatti
a tale stregua aggravata, in contrasto non solo con il tenore letterale ed il
portato sostanziale della norma ma anche con le stesse scelte di fondo
dell’ordinamento in materia di responsabilità civile, rispondenti al
riconosciuto favor per il soggetto che ha subito la lesione di una
propria posizione giuridica soggettiva giuridicamente rilevante e tutelata,
che, laddove non prevenuta, ne impone la rimozione o il ristoro da parte del
danneggiante. Costruzione dalla giurisprudenza a suo tempo elaborata
in ossequio a finalità socio-politiche ed economiche alla norma e alla materia
in questione sono tuttavia in realtà estranee, e comunque ormai ( quantomeno )
non ( più ) rispondenti al prevalente sentire della coscienza sociale. Con la conseguenza che, diversamente da quanto pure
da questa Corte costantemente affermato ( v. la stessa Cass., 4/6/2004, n.
10564 dianzi citata ), della relativa prova non può ritenersi onerato il
danneggiato. L’ insidia o trabocchetto può sul piano probatorio
considerarsi viceversa rilevante laddove al proprietario di strade pubbliche è
consentito dare la c.d. Prova liberatoria, dimostrando cioè di avere adottato
tutte le misure idonee a prevenire ed impedire che il bene demaniale presenti
per l’utente una situazione di pericolo occulto produttiva di danno a terzi,
con lo sforzo diligente adeguato alla natura della cosa e alle circostanze del
caso concreto, al fine di fare in sostanza valere la propria mancanza di colpa
e, se del caso, il concorso di colpa del danneggiato ( per la compatibilità
tra la responsabilità della p.a. ex art. 2043 c.c. per cd. insidia
stradale ed il concorso colposo del danneggiato ex art. 1227, c. 1, c.c. cfr.
Cass., 3/12/2002, n. 17152; Cass., 1/10/2004, n. 19653 ). Con il quinto motivo la Provincia di Nuoro denunzia
ulteriormente violazione e/o falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c, nonché
omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della
controversia, lamentando la mancata valutazione da parte della Corte di merito
della censura in sede di appello mossa alla sentenza di primo grado
concernente la ivi operata quantificazione del danno in ragione della ravvisata
genericità del motivo d’appello che essa afferma viceversa non sussistere. Atteso quanto sopra, va premesso che il collegio
ritiene di conformarsi, non condividendo il contrario avviso al riguardo
recentemente espresso da altra se-zione di questa Corte ( v. Cass., 22 febbraio
2005, n. 3538. Nello stesso senso v. peraltro già Cass., 14 luglio 1992, n.
8503. V. anche Cass., 15 aprile 1994, n. 3549 ), al prevalente orientamento
maturato in giurisprudenza di legittimità secondo cui allorquando viene, come
nel caso, lamentata l’insussistenza del ritenuto difetto di specificità dei motivi
d’impugnazione, risultando dedotto un error in procedendo è consentito
al giudice di legittimità l’esame diretto degli atti, spettando alla Corte di
Cassazione interpretare autonomamente l’atto di appello per accertare se al
giudice di secondo grado sia stato devoluto l’esame del punto controverso (
così Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16. Conformemente v. Cass., 5 aprile
2005, n. 7055; Cass., 27 gennaio 2004, n. 1456; Cass., 20 agosto 2003, n.
12218; Cass., 24 luglio 2003, n. 11497; Cass., 27 febbraio 2001, n. 2908. E in
tal senso v. già Cass., 30 maggio 1983, n. 3712 ) . E’ infatti ben vero che il giudizio di appello è
una revisio prioris instantiae ( v. la citata Cass., Sez. Un., 29
gennaio 2000, n. 16, e successive conformi: Cass., 24 marzo 2000, n. 3539;
Cass., 9 agosto 2000, n. 9867; Cass., 19 dicembre 2000, n. 15950; Cass., 23
marzo 2001, n. 4190; Cass., 7 maggio 2002, n. 6542; Cass., 28 maggio 2003, n.
8501; Cass., 8 agosto 2002, n. 11935; Cass., 12 agosto 2003, n. 12218; Cass.,
28 novembre 2003, n. 18229 ), e non già un iudicium novum ( secondo il
più liberale orientamento che si ricollega alla definizione dell’appello come
mezzo di impugnazione rivolto ad ottenere non il controllo della decisione di
primo grado ma una nuova pronuncia sul diritto fatto valere con la domanda
originaria, e considera l’enunciazione della censura come finalizzata alla
delimitazione dell’ambito del riesame richiesto al giudice dì appello, con
conseguente attenuazione dell’onere della specificazione dei motivi,
specialmente quando la sentenza di primo grado sia impugnata totalmente: v.
Cass., 16 maggio 1997, n. 4368; Cass., 21 gennaio 1987, n. 554; Cass., 21
gennaio 1987, n. 553 ). E, ancora, che la cognizione del giudice rimane
circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso l’enunciazione
di specifici motivi ( v. Cass., 28 novembre 2003, n. 18229 ), sicché
l’inammissibilità del gravame da tale violazione derivante non è sanabile per
effetto dell’attività difensiva spiegata nel corso del giudizio (v. Cass.,
Sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16; Cass., 30 luglio 2001, n. 10401; Cass., 20
agosto 2003, n. 12218) . Condivisibile è altresì l’assunto secondo cui la
specificità dei motivi esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza
impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il
fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una
sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono; ragion per cui,
alla parte volitiva dell’appello, deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa
che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice ( v. Cass., Sez.
Un., 29 gennaio 2000, n. 16; Cass., 20 agosto 2003, n. 12218; Cass., 28
novembre 2003, n. 18229; Cass., 22 dicembre 2004, n. 23742; Cass., 29 ottobre
2004, n. 20987; Cass., 11 maggio 2004, n. 8926; Cass., 2 febbraio 2005, n.
2041 ). Non può d’altro canto ritenersi sufficiente che
l’atto d’appello consenta dì individuare genericamente le statuizioni
concretamente impugnate, né condividersi l’interpretazione, invero recentemente
sostenuta da altra sezione di questa Corte ( v. Cass., 3 gennaio 2005, n. 21
), secondo cui il requisito della "sommaria esposizione dei fatti"
richiesto dall’art. 342 c.p.c. può intendersi soddisfatto anche «dal complesso
delle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di appello». E’ tuttavia indubbio che, essendo insuscettibile di
essere fissato in termini generali ed assoluti ( v. Cass., 23 ottobre 2003, n.
15936; Cass., 6 aprile 2004, n. 6761; Cass., 12 agosto 1997, n. 7524 ), il
grado di specificità dei motivi va valutato in correlazione con il tenore della
motivazione della sentenza impugnata ( v. Cass., 29 ottobre 2004, n. 20987;
Cass., 23 ottobre 2003, n. 15936; Cass., 15 aprile 1998, n. 3805; Cass., 1°
settembre 1997, n. 8297; Cass., 23 luglio 1997, n. 6893; Cass., 21 febbraio
1997, n. 1599; Cass., 30 maggio 1995, n. 6066; Cass., Sez. Un., 6 giugno 1987,
n. 4991 ) , e deve considerarsi integrato quando alle argomentazioni svolte
nella sentenza impugnata vengono contrapposte quelle dell’appellato in modo da
incrinarne il relativo fondamento logico-giuridico, come nell’ipotesi in cui,
pur non procedendo all’esplicito esame dei passaggi argomentativi della
sentenza, l’appellante svolga i motivi di impugnazione in termini incompatibili
con la complessiva argomentazione della decisione impugnata, in tal caso
l’esame dei singoli passaggi argomentativi risultando in effetti inutile ( v.
Cass., 10 maggio 2005, n. 9793; Cass., 6 aprile 2004, n. 6761; Cass. 23 ottobre
2003, n. 15936 ). In particolare, la specificità dei motivi di appello
di cui all’art. 342 c.p.c. deve essere valutata in base all’imprescindibile
raffronto tra le ragioni della doglianza, esposte nell’atto introduttivo del
giudizio di secondo grado, e quelle che nella sentenza sorreggono il punto
oggetto dell’impugnazione. E’ pertanto inammissibile l’appello con cui la parte,
nel riproporre un’eccezione disattesa dal giudice di primo grado, non prenda in
esame la motivazione del rigetto e non ne fornisca adeguata critica ( v. Cass.,
28 novembre 2003, n. 12218; Cass., 21 aprile 1994, n. 3809; Cass., Sez. Un., 6
giugno 1987, n. 4991 ). Né soddisfa il requisito di specificità l’atto
d’appello che si basi sul mero rinvio alle argomentazioni svolte nel
precedente grado di giudizio ( v. Cass., 13 settembre 2004, n. 18353 ), non
essendo ammissibile nemmeno il mero rinvio all’esposizione delle
argomentazioni ad un momento successivo del giudizio o addirittura alla
comparsa conclusionale ( v. Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16; Cass., 30
luglio 2001, n. 10401; Cass., 20 agosto 2003, n. 12218 ). Può al riguardo risultare invece sufficiente anche
la riproposizione delle stesse difese già disattese dal giudice di prime cure (
v. Cass., 7 giugno 2005, n. 11781 ). In conclusione, l’indicazione dei motivi di appello
richiesta dall’art. 342 c.p.c. ( e nel rito del lavoro dall’art. 434 c.p.c. )
non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica
enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, richiedendosi
un’esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta
al giudice del gravame sia delle ragioni della doglianza, all’interno della
quale i motivi di gravame, per risultare idonei a contrastare la motivazione
della sentenza impugnata, devono essere più o meno articolati, a seconda della
maggiore o minore specificità nel caso concreto della medesima ( v. Cass., 1°
aprile 2004, n. 6403 ), potendo sostanziarsi pure nelle stesse argomentazioni
addotte a suffragio della domanda disattesa dal primo giudice ( v. Cass., 22
dicembre 2004, n. 23742 ). Nel caso in esame, nell’atto di appello l’odierna
ricorrente ha invero formulato il motivo d’impugnazione testualmente affermando
di contestare «i criteri e le modalità attraverso cui il giudice di primo grado
è pervenuto alla determinazione e quantificazione dei danni risarcibili ... sia
per quanto attiene ai danni patrimoniali e a quelli morali». Nel dolersi dell’ingiustizia dell’inammissibilità
di siffatto motivo d’appello ritenuta dalla corte di merito, e
dell’insufficiente motivazione dalla medesima al riguardo fornita, la Provincia
nel motivo di ricorso per cassazione lamenta che benché «sinteticamente
esposto», tale motivo d’impugnazione è invero «tale da consentire al Giudice di
seconde cure di individuare quanto devolutogli con l’appello sul punto». Orbene, a parte il rilievo che -diversamente da
quanto lamentato nel motivo di ricorso in esame- la motivazione non risulta
nel caso omessa sul punto in questione, emerge con tutta evidenza come
la suesposta doglianza in realtà si risolva nella mera deduzione della assoluta
genericità della quantificazione del danno, sicchè il motivo di ricorso per
cassazione risulta invero formulato in termini del tutto apodittici, in assenza
di qualsivoglia dimostrazione. In contrasto, pertanto, con il disposto di cui
all’art. 366, 1° co. n. 4, c.p.c. ( cfr. Cass., 13/7/2005, n. 14741 ), e disattendendo
l’esigenza di porre la Corte di legittimità in grado dì orientarsi fra le
argomentazioni in base alle quali si ritiene di censurare la pronunzia di
merito (v. Cass., 6/4/2004, n. 6756; Cass., 9/4/2003, n. 5581). Mentre, laddove non vengono dalla ricorrente prospettati
altri criteri e modalità in base al quale tale determinazione andrebbe a suo
avviso diversamente effettuata, la doglianza risulta d’altro canto violativa
del principio costantemente affermato da questa Corte in base al quale incombe
al ricorrente specificare le ragioni del denunciato errore, e dimostrare la violazione
di specifiche norme di ermeneutica. Sicché la censura si sostanzia nella
apodittica critica alla ricostruzione operata dal giudice, e nella
prospettazione di una difforme soluzione ( cfr. Cass., 14/7/2004, n. 13075;
Cass., 25/2/2004, n. 3772; Cass., 23/7/2002, n. 10749; Cass., 28/8/2001, n.
11289. V. anche Cass., 18/5/2005, n. 18420 ). In violazione pertanto del principio di autosufficienza
del ricorso ai fini dell’individuazione delle questioni sottoposte al vaglio di
legittimità ( v. Cass., 1°/7/2003, n. 10330; Cass., 14/8/1998, n. 8013). Le censure mosse all’impugnata sentenza
dall’amministrazione ricorrente sono pertanto tutte infondate, il ricorso
dovendo conseguentemente rigettarsi. Le spese del giudizio di cassazione seguono la
soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso nei confronti
di F. A., per sé e per il figlio M.. Dichiara inammissibile il ricorso nei
confronti della F. per il figlio C.o. Condanna la ricorrente al pagamento delle
spese del giudizio di cassazione che liquida in euro 5.100, di cui euro 5.000
per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge. Roma, 1° Dicembre 2005 Il Consigliere est. Il
Presidente |
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