Giurisprudenza di legittimità
Svolgimento del processo. – Con sentenza del 19 aprile 2004
la Corte di appello di Reggio Calabria conferma la sentenza 22 febbraio 2002
del Tribunale monocratico di Palmi, che aveva affermato la penale
responsabilità di D. A. in ordine al reato di cui: - all’art. 51, terzo comma, D.L.vo n 22/1997, per avere
realizzato – su due aree interne ad un impianto per la lavorazione e
trasformazione di pietre di cava, da lui gestito – una discarica non
autorizzata ove risultano depositati rifiuti pericolosi e non, tra i quali n. 6
batterie esauste, circa 1.000 Kg. di eternit, n. 4 motori per autoveicoli, n.
19 pneumatici ed una vespa priva di targa – acc. In Rosario, il 7 novembre 2000
e lo aveva condannato alla pena di mesi sei di arresto ed euro 2.500,00 di
ammenda, disponendo la confisca delle aree, se di proprietà dell’imputato. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il D., il quale,
sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione, ha
eccepito: - la
inconfigurabilità del reato, in quanto, nella specie, non potrebbe configurarsi
l’esistenza di «rifiuti» destinati
all’abbandono, perché le lamiere di eternit costituivano il tetto crollato di
un capannone, mentre le batterie, i motori ed i pneumatici erano destinati a
riutilizzazione sui mezzi meccanici dell’impresa, senza necessità di modifiche; - la necessità di ricondurre la fattispecie alla
previsione dell’art. 50 del D.L.vo n. 22/1997 (abbandono di rifiuti),
sanzionata solo in via amministrativa, «in assenza di un accertamento in ordine
alla sussistenza di una organizzazione di mezzi e di persone finalizzata allo
stoccaggio e alla distruzione dei rifiuti»; - l’incongruità del diniego di circostanza attenuanti
generiche. Motivi della decisione. – L.’art. 51, comma 3, del
D.L.vo n. 22/1997 sanziona penalmente «chiunque realizza o gestisce una
discarica non autorizzata» e la giurisprudenza di questa Corte Suprema ha
evidenziato che: a)
la realizzazione di una discarica può effettuarsi attraverso diverse attività: - anzitutto, il verso e proprio allestimento a discarica
di un’area, con il compimento delle opere occorrenti e tal fine: spianamento
del terreno, apertura dei relative accesi, recinzione, etc. (vedi Cass.: S.U.,
28 dicembre 2004, Maccarelli e, più di recente, sez. III, 30 aprile 2002,
Francese); - ma anche il ripetitivo accumulo nello stesso luogo di
sostanze oggettivamente destinate all’abbandono con trasformazione, sia pure
tendenziale, del sito, degradato dalla presenza dei rifiuti (vedi Cass., sez.
III: 10 gennaio 2002, Garzia; 24 settembre 2001, Bistolfi; 11 ottobre 2000,
Cimini). Secondo un’interpretazione giurisprudenziale, potrebbe
integrare il reato di discarica abusiva anche un unico conferimento di ingenti
quantità di rifiuti che faccia però assumere alla zona interessata l’inequivoca
destinazione di ricettacolo di rifiuti, con conseguente trasformazione del
territorio (Cass., sez. III, 4 novembre 1994, Zagni); b) la gestione di
una discarica si identifica in una attività autonoma, successiva alla
realizzazione, che può essere compiuta dallo stesso autore di quest’ultima o da
latri soggetti, e che consiste nell’attivazione di un’organizzazione,
articolata o rudimentale, di persone e cose diretta al funzionamento della
discarica medesima (vedi Cass,: sez. III, 11 aprile 1997, Vasco; S.U., 28 dicembre 2004, Maccarelli). Nella fattispecie in esame i giudice del merito hanno
appunto accertato, in fatto – e ne hanno dato conto con motivazione razionale
ed esauriente – la relazione di una discarica attraverso il ripetitivo accumulo
nello stesso luogo di materiali oggettivamente destinati all’abbandono, con
trasformazione del sito, degradato dalla presenza dei rifiuti, e tale
accertamento è, altresì, assolutamente compatibile di «discarica» introdotta
dall’art. 2, lett. g), del D.L.vo 13 gennaio 2003, n. 31. Gli stessi giudici del merito, poi, hanno motivatamente
escluso la riutilizzazione certa ed oggettiva dei materiali in questione e,
quindi, non si pone la vexata quaestio dell’applicabilità dell’art. 14 della
legge n. 178/2002 e della compatibilità di tale disposizione con la normativa
comunitaria. 2. – La non occasionalità dell’accumulo, che risulta avere
assunto, invece, evidenti caratteristiche di continuità, hanno portato
correttamente ad escludere ogni possibilità di riconduzione della vicenda
concreta alle previsioni dell’art. 50 del D.L.vo n.22/1997. 3. – A norma dell’art. 46 del D.L.vo n. 22/1997, il proprietario
di un veicolo a motore che intendeva procedere alla demolizione dello stesso
doveva consegnarlo ad un centro di raccolta per la messa in sicurezza, la
demolizione, il recupero dei materiali e la rottamazione. Tali centri di
raccolta potevano «ricevere anche
rifiuti costituiti da parti di veicoli a motore» e dovevano comunque essere
autorizzati ai sensi degli artt. 27 e 28 dello stesso D.L.vo n. 22/1997. I veicoli «fuori uso» assumevano il carattere di rifiuti
fin dal momento in cui venivano dimessi dal proprietario, che se ne disfaceva
proprio attraverso la consegna al demolitore. Il 22 agosto 2003, poi, è entrato in vigore il D.L.vo 24
giugno 2003, n. 209 (Attuazione della direttiva 2000/53/CE relativa ai veicoli
fuori uso) con cui è stata introdotta in Italia una nuova normativa concernente
il recupero e il riciclaggio di materiali provenienti da veicoli a fine vita.
Detto D.L.vo non contiene norme più favorevoli e, all’art. 3, considera il
veicolo «fuori uso» un rifiuto sia il veicolo di cui il proprietario si disfi o
abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi sia quello destinato alla
demolizione, ufficialmente privato delle targhe di immatricolazione, anche
prima della consegna ad un centro di raccolta, nonché quello che risulti in
evidente stato di abbandono ancorché giacente in area privata. 4. – La concessione o il diniego delle attenuanti
generiche rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui
esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere bensì motivato ma nei soli
limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso
giudice l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed
alla personalità del reo (v. Cass., sez. I, 16 giugno 1992, n. 6992). Le attenuanti generiche, nel nostro ordinamento, hanno lo
scopo di allargare le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole
al reo, in considerazione e circostanze particolari che effettivamente incidano
sull’apprezzamento dell’entità del reato
e della capacità di delinquere dell’imputato. Il riconoscimento di esse
richiede, dunque, elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente
il tribunale e la corte territoriale hanno fatto derivare il diniego della loro
concessione. Anche il giudice di appello – pur non dovendo trascurare
le argomentazione difensive dell’appellante – non è tenuto ad una analitica
valutazione di tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti
ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che
dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della
concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti
gli altri, pur in carenza di stretta contestazione (v. Cass., sez. I, 22 maggio
1992, n. 6200). Nella fattispecie in esame, la corte di merito, nel
corretto esercizio del potere discrezionale riconosciuto in proposito dalla
legge ha logicamente dedotto prevalenti significazioni negative della
personalità dell’imputato proprio da quei precedenti penali che egli non può non
ammettere. 5. – Al rigetto del ricorso segue la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese di procedimento. (Omissis). [RIV-0602P143] |
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