La pietà di una madre è
sacra. È sacro il suo amore verso il figlio, è sacrosanto il suo desiderio di
vederlo libero dalle catene prima di lasciare questo mondo. Dio ci scampi dal
voler spazzare via la pietas di quella madre, ma il figlio fuori dal carcere
non lo vogliamo. Trasferiamolo vicino a lei, semmai, concediamole questo, ma
non apriamo la cella di colui che ha condotto la propria precedente vita da
uomo libero, sempre impugnando mitra e pistole. Non apriamo la serratura di
una porta dietro la quale c’è un uomo che dimostra ancora oggi di non aver
capito che gli “errori”, anche se non ci sembra giusto chiamarli così, si
pagano fino in fondo, soprattutto se non c’è pentimento. “Pentito” è un aggettivo
che a Renato Vallanzasca non piace, e non ne ha mai fatto mistero, neppure
nelle sue più recenti interviste. Si fatica, lo confessiamo,
a tenere serena la mente di fronte ad un provvedimento che la Costituzione, la
base della nostra Repubblica, affida al Presidente, che ne è primo garante. La Costituzione dice che tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso,
di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali. Lo sappiamo, ma nonostante questo non riusciamo ad essere
sereni. La clemenza che chiede il bel René, lui non l’ha concessa
alle proprie vittime, troppe per considerare eccezionale la sua condizione
equitativa e giudiziaria di recluso nelle patrie galere per scontare quattro
ergastoli inflitti in nome del Popolo per omicidi, sequestri di persona e
rapine, tutte a mano armata, tutte alla testa di un plotone di delinquenti
comuni distintisi per crudeltà ed efferatezza. È evaso tre volte, Vallanzasca, e in una rivolta in
carcere ha praticamente decapitato un detenuto. Siamo stati sereni quando abbiamo saputo della Grazia
concessa da Napolitano a Ovidio Bompressi. Le nostre riserve le abbiamo
esternate, perché la verità sulla morte del Commissario Calabresi non è stata
mai del tutto accertata, ma ci inchiniamo, sapendo che non è nemmeno
lontanamente possibile trovare un legame tra le storie dei due condannati. Non ci riusciamo, noi che speriamo e invochiamo la firma
per la Grazia di Ivan Liggi. Perdonisti da una parte e forcaioli dall’altra? No, è semplicemente la nostra opinione e del resto la
Grazia è un istituto che benefica solo un determinato caso e non è una causa di
estinzione del reato come l’Amnistia o della pena come l’Indulto. Anche su questi potremmo dire la nostra: strumenti di
pacificazione sociale o di opportunità politica, divenuti purtroppo stratagemmi
periodici per sfoltire processi pendenti e penitenziari. Qualcuno ha definito “sproporzionato” il numero di anni di
carcere inflitti alla belva della Comasina, e indecente per un paese civile
l’imporre ad una persona una vita così a lungo in cattività. Ma non gliel’ha chiesto certo la società di allungare ogni
giorno l’elenco delle sue malefatte e l’accavallarsi di pene cumulate una
dietro l’altra quando finalmente la giustizia è riuscita a fare il suo corso, non
sono un accanimento indecente della nostra società: è l’effetto della condotta
di un reo sopra le righe, che ha stuprato fino in fondo la società nella quale
si è trovato a vivere, togliendo vite come si recide la gramigna. Indecente per un paese civile, secondo noi, è il non saper
distinguere tra un caso e l’altro, ignorando la differenza tra un essere umano
e colui che è stato un bandito senza pietà per le mamme, le mogli, i figli degli altri…
GB
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