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Articoli 04/07/2006

PIETA’ PER LA MADRE DI RENATO VALLANZASCA, MA IL FIGLIO ERGASTOLANO RIMANGA IN CELLA

Il desiderio della madre di vederlo libero prima di lasciare questo mondo si scontra con la storia (senza pentimenti) del bandito della comasina

La pietà di una madre è sacra. È sacro il suo amore verso il figlio, è sacrosanto il suo desiderio di vederlo libero dalle catene prima di lasciare questo mondo. Dio ci scampi dal voler spazzare via la pietas di quella madre, ma il figlio fuori dal carcere non lo vogliamo. Trasferiamolo vicino a lei, semmai, concediamole questo, ma non apriamo la cella di colui che ha condotto la propria precedente vita da uomo libero, sempre impugnando mitra e pistole.
Non apriamo la serratura di una porta dietro la quale c’è un uomo che dimostra ancora oggi di non aver capito che gli “errori”, anche se non ci sembra giusto chiamarli così, si pagano fino in fondo, soprattutto se non c’è pentimento.
“Pentito” è un aggettivo che a Renato Vallanzasca non piace, e non ne ha mai fatto mistero, neppure nelle sue più recenti interviste.
Si fatica, lo confessiamo, a tenere serena la mente di fronte ad un provvedimento che la Costituzione, la base della nostra Repubblica, affida al Presidente, che ne è primo garante.

La Costituzione dice che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Lo sappiamo, ma nonostante questo non riusciamo ad essere sereni.
La clemenza che chiede il bel René, lui non l’ha concessa alle proprie vittime, troppe per considerare eccezionale la sua condizione equitativa e giudiziaria di recluso nelle patrie galere per scontare quattro ergastoli inflitti in nome del Popolo per omicidi, sequestri di persona e rapine, tutte a mano armata, tutte alla testa di un plotone di delinquenti comuni distintisi per crudeltà ed efferatezza.
È evaso tre volte, Vallanzasca, e in una rivolta in carcere ha praticamente decapitato un detenuto.
Siamo stati sereni quando abbiamo saputo della Grazia concessa da Napolitano a Ovidio Bompressi. Le nostre riserve le abbiamo esternate, perché la verità sulla morte del Commissario Calabresi non è stata mai del tutto accertata, ma ci inchiniamo, sapendo che non è nemmeno lontanamente possibile trovare un legame tra le storie dei due condannati.
Non ci riusciamo, noi che speriamo e invochiamo la firma per la Grazia di Ivan Liggi.
Perdonisti da una parte e forcaioli dall’altra?
No, è semplicemente la nostra opinione e del resto la Grazia è un istituto che benefica solo un determinato caso e non è una causa di estinzione del reato come l’Amnistia o della pena come l’Indulto.
Anche su questi potremmo dire la nostra: strumenti di pacificazione sociale o di opportunità politica, divenuti purtroppo stratagemmi periodici per sfoltire processi pendenti e penitenziari.
Qualcuno ha definito “sproporzionato” il numero di anni di carcere inflitti alla belva della Comasina, e indecente per un paese civile l’imporre ad una persona una vita così a lungo in cattività.
Ma non gliel’ha chiesto certo la società di allungare ogni giorno l’elenco delle sue malefatte e l’accavallarsi di pene cumulate una dietro l’altra quando finalmente la giustizia è riuscita a fare il suo corso, non sono un accanimento indecente della nostra società: è l’effetto della condotta di un reo sopra le righe, che ha stuprato fino in fondo la società nella quale si è trovato a vivere, togliendo vite come si recide la gramigna.
Indecente per un paese civile, secondo noi, è il non saper distinguere tra un caso e l’altro, ignorando la differenza tra un essere umano e colui che è stato un bandito senza pietà per le mamme, le mogli, i figli degli altri…

 

GB


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Martedì, 04 Luglio 2006
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