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Da Altalex - Incidenti stradali e rito del lavoro: la nuova legge

 

Incidenti stradali e rito del lavoro: la nuova legge

Alle cause relative al risarcimento dei danni da morte o lesioni conseguenti ad incidenti stradali, si applicherà il rito del lavoro: è quanto emerge dall’art. 3 della recentissima Legge n. 102 del 2006, recante “Disposizioni in materia di conseguenze derivanti da incidenti stradali”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 64 del 17 marzo 2006.

Tale disposizione, volta evidentemente a garantire una più efficace tutela alle “vittime della strada”, abbreviando i tempi di definizione dei relativi procedimenti risarcitori, pone una serie di problemi di carattere interpretativo ed applicativo, a cui si cercherà di tentare delle risposte.

Prima di fare ciò, va rilevato come la legge in esame, più che semplificare, ha notevolmente complicato il sistema processuale relativo alle cause risarcitorie in materia di R.C. auto. Il motivo di tale affermazione risulta evidente se solo si consideri che, mentre in passato il sistema risarcitorio era, per così dire, di carattere “binario” (i giudizi venivano infatti ripartiti, in relazione all’importanza della controversia, tra il Giudice di Pace e il Tribunale), oggi si assiste alla presenza di ben quattro diverse “ipotesi processuali” astrattamente applicabili alle cause risarcitorie derivanti dalla circolazione di veicoli [1]. A tal fine è necessario operare delle distinzioni:

  • i procedimenti aventi ad oggetto sinistri stradali da cui siano derivati esclusivamente danni alle cose restano, anche dopo la L. 102/06, attribuiti alla competenza del Giudice di Pace, entro i limiti di valore fissati dal comma 2 dell’art 7 c.p.c.
  • I procedimenti relativi a danni alle cose eccedenti il valore di cui al comma precedente rimangono di competenza del Tribunale, che applicherà le norme del processo ordinario, come recentemente riformato.
  • I procedimenti relativi ad incidenti stradali con danni alla persona saranno, in via esclusiva ed a prescindere dal valore, di competenza del Tribunale, che applicherà il rito del lavoro.

Tale elencazione non sarebbe completa se si dimenticasse l’applicabilità, ai procedimenti relativi a danni alle cose di competenza del Tribunale, del nuovo art. 70-ter disp. att. c.p.c., alla luce del quale, previo assenza di tutte le parti, il processo si può svolgere secondo le forme del rito societario (regolato dal D.Lgs. n. 5 del 2003)

Una tutela “quadripartita”, dunque, capace di ingenerare soltanto equivoci ed incertezze. A ciò si aggiunga che, secondo alcuni, anche nel caso di sinistri con danni alla persona contenuti nei limiti ex art. 7 comma 2 c.p.c., resterebbe competente il Giudice di Pace, il quale, naturalmente, sarebbe tenuto ad applicare le disposizioni in tema di processo dei lavoro. Tale tesi appare tutt’altro che “peregrina”, ove si consideri che l’art. 413 c.p.c. attribuisce alla competenza del Tribunale in funzione di giudice del lavoro le controversie previste all’art. 409 c.p.c. Ebbene, la nuova Legge n. 102/06, nel prevedere l’applicazione del rito del lavoro alle cause risarcitorie con danni alla persona, non opera alcun richiamo all’art. 413 c.p.c., né procede ad integrare l’elencazione tassativa contenuta all’art. 409 c.p.c. Da ciò pare lecito desumere che il legislatore nulla abbia voluto modificare circa le regole sulla competenza, che rimane ferma. La conclusione, quindi, dovrebbe essere nel senso di ritenere che le cause di risarcimento danni alla persona che, prima di questa legge, rientravano nella competenza del Giudice di Pace, restino, anche dopo la riforma, allo stesso affidate, con applicazione, ovviamente, del rito del lavoro.

1. Un’applicazione cum grano salis

Fatte queste premesse, è opportuna un’ulteriore precisazione: è chiaro che il rinvio “in blocco” operato dal legislatore del 2006 al processo del lavoro va inteso cum grano salis, nel senso che appare necessaria un’attenta opera interpretativa tesa a “selezionare” le norme del rito del lavoro che effettivamente potranno trovare applicazione alle cause relative al risarcimento dei danni alla persona conseguenti ad incidenti stradali.

Deve per esempio ritenersi esclusa l’applicabilità, alle cause in oggetto, del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto, per le cause di lavoro, dagli artt. 410 – 412-bis c.p.c. A sostegno di questa tesi militano una serie di considerazioni: in primo luogo va evidenziato che per i sinistri stradali esiste già una procedura “pregiudiziale” di risarcimento danni (delineata dagli artt. 148 e 149 del nuovo “Codice delle assicurazioni”, il D.Lgs. n. 209/2005) con funzione deflativa del contenzioso, volta cioè a favorire (similmente all’istituto del tentativo obbligatorio di conciliazione) un accordo stragiudiziale ed evitare così gli oneri derivanti dall’instaurazione di un giudizio; in secondo luogo, diversamente opinando, non si capirebbe quale sarebbe l’Organo davanti al quale esperire il tentativo di conciliazione, essendo in ogni caso da escludersi la possibilità di affidare a un Organo (quale quello indicato nell’art. 410 c.p.c.), costituito al precipuo scopo di tentare la conciliazione delle cause di lavoro, anche la conciliazione di quelle aventi ad oggetto danni alla persona derivanti da incidenti stradali.

Similmente, per evidenti ragioni logiche, va correttamente esclusa l’applicabilità degli artt. 412-ter e 412-quater c.p.c., in materia di arbitrato previsto dai contratti collettivi.

Di agevole soluzione appare anche la questione relativa all’applicabilità o meno, alle cause in esame, delle norme in materia di sospensione dei termini processuali nel periodo feriale. La risposta sembra essere positiva, se solo si consideri che la deroga alla sospensione dei suddetti termini è prevista, dall’art. 3 della L. n. 742/1969, esclusivamente con riferimento alle controversie previste agli artt. 409 e 442 c.p.c.: l’esclusione della sospensione, quindi, opera con riferimento alla natura della controversia e non al rito applicabile. Da qui la conclusione nel senso di ritenere le cause risarcitorie in esame soggette alla sospensione dei termini durante il periodo feriale [2].

Fatte queste doverose premesse, si analizzino due tra le questioni che la nuova legge pone.

2. Il problema del rito applicabile nel caso di giudizi unitari con richieste di risarcimento per danni alla persona e danni a cose

Un primo problema, di rilevante ordine pratico, si pone quante volte il soggetto, con il medesimo atto introduttivo del giudizio, chieda sia il risarcimento del danno al veicolo che quello del danno alla persona. In tali casi, in cui si faccia questione sia dei danni alle cose che di quelli personali, ci si chiede quale sarà il rito applicabile.

La risposta dovrebbe pervenire dalla lettura dell’art. 40 comma 3 c.p.c. secondo cui, salvo i casi previsti agli artt. 409 e 442 c.p.c., nel conflitto tra rito ordinario e rito speciale è sempre il primo a prevalere. Da tali premesse deriva, in ossequio al criterio di prevalenza del rito ordinario, il principio per cui la cognizione con il rito del lavoro deve essere circoscritta alle sole controversie aventi ad oggetto esclusivamente il risarcimento dei danni alla persona, trovando viceversa applicazione, nel caso di danni alle persone e alle cose, il rito ordinario.

Avverso tale impostazione, sicuramente più fedele al dato letterale dell’impianto normativo, si può opinare diversamente, riflettendo sulla circostanza che l’art. 3 della L. 102/2006, operando un rinvio completo e generalizzato alle norme “di cui al libro II, titolo IV, capo I del c.p.c.”, ha in qualche modo integrato l’art. 409 c.p.c., aggiungendo, alle tradizionali controversie trattate con il rito del lavoro, anche quelle relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali. Con ciò si vuol dire che, pur non indicando l’art. 409 c.p.c., tra le controversie trattare col rito del lavoro, quelle relative ai sinistri stradali da cui siano derivate morte o lesioni personali, un’interpretazione sistematica del combinato disposto ex art. 3 l. 102/06 e art. 409 c.p.c. potrebbe portare alla conclusione di ritenere comprese, nell’elenco delle controversie per le quali si applica il rito del lavoro, anche quelle aventi ad oggetto domande risarcitorie per danni alla persona, derivanti dalla circolazione stradale.

A sostegno di questa soluzione milita anche, a ben vedere, una ragione di carattere teleologico: se la ratio della norma di riforma è quella di rendere più spediti i processi aventi ad oggetto il risarcimento dei danni alla persona derivanti da sinistri stradali, applicando il rito del lavoro, un’interpretazione teleologicamente orientata dovrebbe portare a ritenere applicabile il rito del lavoro anche nei casi di proposizione congiunta di domande risarcitorie per danni alle cose e alle persone.

3. Il problema dei processi in corso.

Altro fondamentale dubbio riguarda la sorte dei processi in corso: a fronte dell’assoluto silenzio del legislatore (che non si è preoccupato di dettare una disciplina transitoria), ci si chiede, in altri termini, quale sarà il “destino” dei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge, prevista per il 1° aprile scorso: tali processi, in particolare, devono proseguire con le norme del rito ordinario, trovando applicazione le norme sul rito del lavoro ai soli processi pendenti a partire dalla data di entrata in vigore della presente legge; oppure, viceversa, la nuova legge va applicata con efficacia immediata, e quindi anche con riferimento ai processi in corso?

La tesi prevalente tra i primi commentatori della norma, e recepita anche nella Aule di Tribunale, sembra “spingere” nel senso di ritenere che i processi pendenti alla data del 1° aprile debbano proseguire con le forme del rito ordinario. Niente conversione, quindi. Questa tesi, che trova pieno riscontro nel documento redatto dall’ “Osservatorio sulla giustizia civile di Milano” in data 29 marzo 2006 [3], poggia le sue fondamenta su di una serie di argomentazioni, che vanno dalla tutela dell’affidamento delle parti in merito alle regole processuali da osservare, fino ad arrivare ad una peculiare interpretazione del principio tempus regit actum, che troverebbe applicazione soltanto quando la nuova legge modifichi singoli istituti processuali e non, come nel caso in esame, quando si sostituisca in blocco un modello processuale ad un altro [4]. Alla stregua di tale impostazione, dunque, il nuovo regime processuale introdotto dalla L. 102/2006 sarebbe applicabile ai soli procedimenti introdotti successivamente al 1° aprile 2006, con la conseguente prosecuzione dei processi relativi al risarcimento dei danni alla persona da incidenti stradali, introdotti prima di tale data, secondo il rito ordinario, sia in primo che in secondo grado.

Per gli stessi motivi su indicati, analoga soluzione andrebbe adottata quante volte l’atto di citazione, introduttivo della lite, sia stato notificato entro il 31/03/2006 e l’iscrizione a ruolo avvenga in un momento successivo al 1° aprile 2006: infatti, come noto, la domanda viene proposta con la notifica dell’atto di citazione.

Avverso tale impostazione, mossa forse più da logiche di “comodità processuale” che da rigorose ragioni giuridiche, si può obiettare richiamando la disposizione di cui all’art. 11 disp. prel. c.c., che, codificando il principio di irretroattività, prevede che “la legge non dispone per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Corollario di tale principio è quello del tempus regit actum, alla stregua del quale, come noto, ogni atto va valutato secondo la norma vigente al momento del suo compimento. In forza di tale regola, che governa la successione nel tempo delle norme processuali, ciascun atto di una serie procedimentale deve uniformarsi alla disciplina vigente nel momento in cui viene adottato.

Facendo una corretta applicazione di tale principio (che costituisce un principio generale dell’ordinamento applicabile in mancanza di espresse disposizioni di segno contrario) deve necessariamente concludersi nel senso di ritenere, nel silenzio della L. n. 102/2006, il nuovo rito speciale come immediatamente applicabile ai processi pendenti.

A favore di tale soluzione opera, anche questa volta, una considerazione di carattere “teleologico”: dall’esame dei lavori parlamentari, infatti, risulta chiaramente la volontà del legislatore della riforma di abbreviare i tempi di durata dei processi, Ebbene, una scelta ermeneutica nel senso di ritenere non convertibili i processi già pendenti sarebbe in evidente distonia con la ratio legis.

In conclusione, per le cause derivanti da incidenti stradali pendenti alla data del 01/04/2006 in cui si controverta in tema di danni da morte o da lesioni personali, il Giudice dovrà pronunciare l’ordinanza di conversione del rito (da ordinario a speciale) ex art. 426 c.p.c. In questo caso l’Autorità giudicante fisserà l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. e il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante il deposito in cancelleria di memorie e documenti. Il provvedimento di conversione, secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale [5], andrà comunicato anche al soggetto contumace.

La conversione, dunque, potrà avvenire [6]:

  • di regola, alla prima udienza successiva alla data del 1° aprile 2006. E’ chiaro che se tale udienza è quella fissata per la precisazione delle conclusioni, la conversione del rito riguarderà esclusivamente la modifica delle modalità di decisione della controversia: in luogo dello scambio di comparse conclusionali e successive memorie di replica ex art. 190 c.p.c., si procederà infatti alla discussione orale e alla successiva lettura del dispositivo in udienza, secondo quanto previsto dall’art. 429 c.p.c. Resta ferma, ovviamente, la facoltà per le parti di chiedere al Giudice la concessione di un termine, non superiore a 10 gg., per il deposito di note difensive.
  • Fuori udienza, quante volte il giudice, prima della data del 1° aprile 2006, si sia riservato di provvedere su di una istanza di parte e, al momento di entrata in vigore della legge in esame, non abbia ancora sciolto la riserva.
  • Nel corso del giudizio di Appello, secondo quanto prevede l’art. 439 c.p.c. Con una precisazione: bisogna distinguere il caso in cui il processo sia stato (legittimamente) celebrato col rito ordinario e con tale rito sia stata pronunciata la sentenza, da quello in cui il processo, iniziato con il rito ordinario, sia stato successivamente convertito e la sentenza sia stata pronunciata con le forme del rito del lavoro. Mentre nella prima ipotesi, infatti, coerentemente con l’insegnamento di una giurisprudenza che appare consolidata, il termine e le forme per proporre appello dovrebbero rimanere quelle del rito ordinario (ferma la successiva conversione del rito alla prima udienza); nella seconda ipotesi, viceversa, l’appello andrà promosso nei termini e con le forme proprie del rito del lavoro, ex art. 434 c.p.c.
  • Deve infine ritenersi esclusa la possibilità di operare un mutamento del rito quante volte, alla data di entrata in vigore della legge de qua, sia stata già celebrata l’udienza di precisazione delle conclusioni e la causa sia stata già rimessa “in decisione”, con conseguente decorrenza dei termini per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica. In tali casi, infatti, evidenti ragioni di economia processuale ostano ad una rimessione sul ruolo della causa al solo fine di consentire alle parti di procedere alla discussione orale della stessa.

[1] Sul punto si veda più diffusamente M. HAZAN – D. ZORZIT, RC auto, gli incidenti dopo la riforma. Se i dubbi diventano freni procedurali, in Dir. e giust., 2006, n. 21, p. 99 ss.

[2] Nello stesso senso e con riferimento alla non applicabilità della deroga della sospensione feriale dei termini in materia di controversie locatizie soggette al rito del lavoro, si vedano: Cass., n. 4537/93; Cass., n. 1931/94; Cass., n. 3023/95: Cass., n. 12028/00; Cass., n. 13456/00; Cass., n. 9022/05.

[3] Il documento si può leggere su Guida dir., 2006, n. 16, p. 118.

[4] Sul punto, si riportano, qui di seguito, le considerazioni svolte dall’ “Osservatorio sulla giustizia civile di Milano: “si propone quindi una lettura del principio tempus regit actum nel senso che, quando la normativa processuale sopravvenuta riguardi l’intero schema del giudizio (e non la disciplina di singole attività) essa non debba essere applicata ai processi pendenti ma solo a quelli instaurati dopo le entrata in vigore di tale normativa”.

[5] Corte Cost., n. 14/1977. L’omissione di tale adempimento, tuttavia, non è rilevabile d’ufficio, ma va eccepita su istanza di parte con l’atto di appello o, comunque, con la prima difesa utile (Cass., n. 3277/1982).

[6] Per ulteriori approfondimenti si veda M. ROSSETTI, Contenzioso risarcitorio e rito del lavoro, in Dir. e giust., 2006, inserto speciale, n. 17.

(Avv. Antonio di Biase)


© asaps.it
Sabato, 22 Luglio 2006
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